Pizzini e fedelissimi, così Messina Denaro protegge la latitanza

'Ma per i pm ci sono protezioni di “alto livello”. Le rivelazioni sulla sua rete di comunicazione e i suoi tanti viaggi d''affari. [Aaron Pettinari]'

Pizzini e fedelissimi, così Messina Denaro protegge la latitanza
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3 Agosto 2015 - 20.00


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di Aaron Pettinari

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L”operazione
“Ermes” che questa mattina ha portato all”arresto di undici fedelissimi
del superlatitante Matteo Messina Denaro, stringe ancora una volta il
cerchio attorno al capomafia, svelando quella rete di comunicazione con
cui il boss di Castelvetrano impartiva ordini e gestiva gli affari di
Cosa nostra. Tuttavia “Diabolik”, ancora una volta, risulta
“imprendibile”. “Nonostante il territorio sia più che sorvegliato e da
anni si susseguono operazioni, ancora non siamo riusciti a prendere il
latitante. Questo può significare solo che gode di protezioni ad alto
livello” ha detto il procuratore aggiunto Teresa Principato. Un altro
dettaglio fornito dagli inquirenti è la conferma che il boss di
Castelvetrano “non sta sempre nel Trapanese, ma si sposta dalla Sicilia e
anche dall”Italia. Quando sente stringersi attorno a lui il cerchio
taglia i contatti con i fedelissimi finiti sotto indagine”.
Era
accaduto tra l”ottobre ed il novembre 2012 quando, dopo l”arrivo del
primo carico di pizzini, gli investigatori non avevano più registrati
raccolte o invii di corrispondenza. Un silenzio che secondo gli
inquirenti “doveva essere attribuito o al silenzio imposto da Messina
denaro o al suo temporaneo allontanamento dalla Sicilia, che avrebbe
reso impossibile l’inoltro e soprattutto la consegna nelle sue mani
della corrispondenza.

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Pochi uomini fidati
Per la gestione delle
comunicazioni il capomafia trapanese si poteva fidare di pochissimi
uomini fidati. Fino al marzo 2010 il sistema di trasmissione della
corrispondenza era stato gestito dai cognati del latitante, Vincenzo
Panicola e Filippo Guttadauro, e dal fratello Salvatore tutti arrestati
così come in manette era finita la sorella Patrizia. Per sostituirli
Diabolik si era affidato a chi poteva avere il giusto pedegree, a
cominciare dall”ultimo anello della catena, Vito Gondola, nome storico
della mafia trapanese.
C”era lui seduto accanto a Riina, a Tonnarello
di Mazara, durante cena del dicembre 1991 in cui il capo dei capi
decise di sterminare i nemici della mafia marsalese.
Un altro pezzo
di storia è rappresentato anche da Michele Gucciardi, boss di Salemi,
che il postino di Messina Denaro lo aveva già fatto negli anni Ottanta.
Altro
mafioso di rango è l’anziano uomo d’onore, Pietro Giambalvo, condannato
in via definitiva per essere stato, tra l’altro, vero e proprio
fiduciario di Totò RIINA, per il quale faceva da autista negli anni”80
quando si trovava nella provincia trapanese e doveva recarsi a summit
mafiosi.
Altro “pizzinaro” in epoca più recente lo era già stato
anche Domenico Scimonelli, originario di Partanna. A loro si sarebbero
aggiunti degli insospettabili come Michele Terranova, proprietario della
masseria o Sergio Giglio.

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La rete dei pizzini
Le direttive del boss di
Castelvetravano arrivavano tramite un sistema collaudato sin dai tempi
di Provenzano. Rispetto al capomafia di Corleone le regole imposte da
Messina Denaro apparivano decisamente più ferree. Dagli inquirenti
sarebbe stato accertato che il latitante “non scrive direttamente le sue
lettere, evitando così che le stesse siano graficamente a lui
riconducibili, servendosi invece di un amanuense che raccoglie il suo
pensiero e lo riversa nei pizzini. Ruolo quest’ultimo pur tuttavia
rivestito sempre dalla medesima persona che, in tal modo, assicura
continuità negli scritti e garantisce la loro pronta riconducibilità al
boss latitante da parte dei sodali che lo leggono”. I messaggi venivano
raccolti in una vecchia masseria in contrada Lippone.
Qui venivano
nascosti, sottoterra, per poi essere consegnati quando venivano
organizzati i summit. Gondola e gli altri sapevano di avere “il fiato
sul collo” degli investigatori (“Siamo tutti guardati” diceva Gucciardi
in un incontro, ed anche Giglio aveva visto due macchine a Salemi fare
“sali e scendi”), nonostante ciò però non si sono fermati. Il motivo è
semplice e lo spiega proprio Gonodola: “non è che uno si… impressiona
non deve camminare più… se dobbiamo camminare dobbiamo camminare…”.
I
pizzini, che arrivavano mediamente tre o quattro volte l”anno, venivano
letti ed immediatamente distrutti. I fogliettini di carta aveva un
codice cifrato ma Gondola sapeva chi erano gli autori ed anche a chi
dovevano essere consegnati. C”era anche una tempistica per comunicare
con Messina Denaro.
“A quindici giorni … oggi ne abbiamo due … uno…
trentu … uno … perciò giorno 16, giorno 15 noi ci dobbiamo vedere”
diceva Gondola a Gucciardi nel giugno 2012. Una cadenza temporale
confermata anche in un dialogo tra Gucciardi e Giglio del 27 novembre
2012: “…entro il 15 queste cose devono partire destiniamo la data per
buono, il 14 va bene… […] Il 14, alle case la dove ci sono le olive… […]
tu a Mimmo gli fai sapere che entro il 15 … prima … no giorno 15, prima
di giorno 15 si deve incontrare con lui…”. Una cadenza che gli
inquirenti avevano già ravvisato nei pizzini risultati in possesso di
Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano e collaboratore del
Sisde, protagonista di una corrispondenza con Matteo Messina con il
nominativo convenzionale Svetonio. Una vicenda del passato a cui si fa
accenno nell”ordinanza dell”operazione odierna”.
Nei discorsi tra i
boss, quando si parla dei pizzini, si fa anche riferimento ad una
“carrozza” (“Io me lo immaginavo che c”era qualcosa in arrivo con la
stessa carrozza arrivaru”). Si intende un carico di messaggi del
capomafia di Castelvetrano o si parla di un soggetto ulteriore, posto
come filtro tra Gondola e Messina Denaro. Del resto il capo mandamento
di Mazara del Vallo diceva: “… dei conti lui aspetta… facciamo due
viaggi… non ce lo dimentichiamo… per loro urgenza c’è” E poi ancora:
“gliela posso dare a quello… che la devo dare io a lui… perché tutte
le cose a me…mi pare giusto… ma a chi lo devo dare io… giusto è… se me
li mandi tutti cose… riceve tutte le cose… se mi mandi una partita…
sono… come per la prudenza … decidi tu… e glieli devo mandare a dire
queste cose”.

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 Il pentimento di Cimarosa
Tra i discorsi dei boss
era anche finito Lorenzo Cimarosa, cugino del boss latitante, arrestato
il 13 dicembre 2013, nell”ambito dell”operazione antimafia interforze
“Eden” che ha intrapreso successivamente una collaborazione con la
giustizia. Vincenzo Giambalvo, riferendo di un dialogo tra Vincenzo La
Cascia (uomo d”onore della famiglia di Campobello di Mazara) e tale zu
Giovanni raccontava delle lamentele di Cimarosa, rispetto al ruolo
preminente assunto dal nipote di Matteo Messina Denaro, Francesco
Guttadauro. “Si lamentava di un nipote dice questo da Palermo viene da
Bagheria dice perché deve venire a comandare qua lui dice …”. E Gondola
replicava decretando legittima la collocazione apicale del Guttadauro:
“ma lui non è di fuori paese … lui è … lì è nato la madre è di lì perciò
non è che è di fuori paese”.
I due commentavano anche la volontà di
Cimarosa di rendere dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria, includendola
nel novero delle “cose che non si fanno” (“e non si fanno lo stesso
queste cose”).
Il giudizio di Gondola è stato, al riguardo, assai severo: “…se il sangue è marcio ragionano come ragiona lui va bene”.
Valutando
poi le dichiarazioni di Cimarosa agli inquirenti un altro indagato,
Scimonelli, aggiungeva: “danno molto non ne dovrebbe fare”. E Gondola
replicava: “ma …fino a che è solo non ne fa…”. Una conferma, se ce ne
fosse mai stata bisogno, che all”interno di Cosa nostra ad essere i più
temuti sono proprio i collaboratori di giustizia.

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