di Fulvio Scaglione.
Per carità. Chiunque abbia fatto il giornalista in giro per il mondo ha un debito di riconoscenza con una qualche Ong. Per un aiuto insperato, una “dritta” in un Paese complicato, un buon consiglio, un passaggio prezioso in auto o in aereo, anche solo un pasto caldo e una risata in un giorno freddo e triste. Ma di fronte a quanto sta avvenendo tra le nove Ong che agiscono nel Mediterraneo per la salvezza dei migranti e le autorità italiane, viene crudamente da chiedersi: ma chi credono di essere?
Ricapitoliamo. Il ministero degli Interni ha elaborato un codice di condotta teso non a impedire le operazioni di soccorso ma piuttosto a regolamentarle e a coordinarle al meglio con le esigenze dello Stato italiano, ovvero dell’organismo che si fa carico non solo dell’emergenza in mare ma anche di tutto il resto. Dove “tutto” vuol dire proprio tutto: accoglienza dei migranti, censimento, verifiche legate ai problema della sicurezza, rapporti con altri Paesi europei dove la gran parte dei migranti vorrebbe in realtà recarsi.
Il risultato è stato questo: delle nove Ong che hanno navi nel Mediterraneo (cioè Moas, Seawatch, Sos Mediteranée, Sea Eye, Medici senza Frontiere, Proactiva Open Armas, Life Boat, Jugend Rettet, Boat Refugee e Save the Children), sei non si sono presentate alla riunione con i funzionari del Ministero. Delle tre presenti, solo una, Save the Children, ha firmato il codice. Le altre due, Medici senza Frontiere e Jugend Rettet, l’hanno respinto. Delle sei assenti, il Moas maltese ha fatto sapere di voler firmare. La spagnola Proactive Open Arms ha fatto sapere che firmerà solo se nel codice sarà evidenziato un qualche impegno a proteggere i diritti umani dei migranti eventualmente riportati in Libia.
Il codice proposto dal Ministero, diciamolo chiaro, è di fatto simbolico. Consta di 13 punti e quasi tutti hanno influenza zero sulle attività delle Ong. Basta confrontarli con quanto Medici senza Frontiere, la capofila dei renitenti, già afferma di fare durante le proprie operazioni. Il codice chiede di non entrare nelle acque territoriali libiche e MsF dice che non lo fa, così come già non fa tutte le altre cose che il Ministero chiede di non fare: non fa comunicazioni per agevolare la partenza dei barconi dalla Libia nè spegne o ritarda la trasmissione dei segnali di identificazione. In compenso, sempre stando a MsF, sono applicate tutte le buone pratiche richieste dal Ministero: non si trasferiscono i migranti a bordo di altre navi se non “su richiesta del Centro di coordinamento del soccorso marittimo”, che viene tenuto sempre al corrente dell’andamento delle operazioni di soccorso e delle azioni intraprese.
Con questo abbiamo già fatto fuori una decina degli articoli del codice. Il problema, quindi, deve stare negli articoli rimanenti. Che chiedono di: “Informare il proprio Stato di bandiera quando un soccorso avviene al di fuori di una zona di ricerca ufficialmente istituita” (art.5); “Ricevere a bordo, eventualmente e per il tempo strettamente necessario, funzionari di polizia giudiziaria che possano raccogliere prove finalizzate alle indagini sul traffico” (art.7); “Dichiarare le fonti di finanziamento alle autorità dello Stato in cui l’Ong è stata registrata”. Davvero, come ripete Medici senza Frontiere, è un ostacolo insormontabile avere a bordo, “eventualmente e per il tempo strettamente necessario”, un funzionario di polizia con l’arma di ordinanza? Sono, queste, condizioni capestro, tali da impedire il salvataggio di chi rischia la vita sui barconi? Per nulla. E con lo stesso rispetto con cui ho tante volte raccontato le buone azioni delle Ong in giro per il mondo, ma con un poco meno di ammirazione, giudico la mancata firma del codice un segnale di sconvolgente presunzione.
Intanto va detta una cosa. Le navi delle Ong salvano tante vite ma pur sempre una minoranza delle vite che vengono ogni giorno salvate. Nel 2016, le Ong hanno soccorso circa 47 mila persone, mentre i soli militari italiani (Guardia costiera, Guardia di finanza, Marina militare, Carabinieri) ne hanno messe in salvo quasi 74 mila, alle quali vanno aggiunte le 7.500 delle unità militari estere, le quasi 23 mila della missione Eunavfor Med, le quasi 14 mila di Frontex e le quasi 15 mila delle navi mercantili di passaggio. Negli ultimi quattro anni, le navi delle Ong (intervenute per la prima volta nell’agosto 2014) hanno soccorso 68.309 persone. La Guardia costiera italiana 77.216, la Marina militare 154.400, la Guardia di finanza 13.500. Per non parlare degli altri.
Nessuna Ong, quindi, può sostenere che lo Stato italiano non si preoccupi della salvezza dei migranti. Chiunque invece può notare che lo Stato italiano, attraverso il suo Governo, non solo se ne preoccupa (i dati lo dimostrano) ma se ne preoccupa anche per conto di tutto il resto dell’Unione Europea, che invece se ne frega. In più, lo stesso Governo cerca per quanto può di trovare il modo di disciplinare i flussi, di dar loro un ritmo più sostenibile, insomma di uscire dall’emergenza del giorno per giorno, regolata solo dalle condizioni meteorologiche e dalle trame dei trafficanti di esseri umani, che è la causa principale delle morti in mare.
Ecco quindi i tentativi di coinvolgere altri Paesi europei, chiedendo loro di mettere a disposizione i porti. Ecco le trattative con il Governo della Libia, per coordinare con esso la gestione dei migranti e il pattugliamento delle coste. Il nostro Governo è debole, e qualche volta pure indeciso. Ma dobbiamo riconoscergli un’onestà d’intenti e una correttezza di fondo che infatti sono diventate il principale bersaglio dei siluri di chi, invece, dovrebbe darci una mano. Basta vedere le ultime iniziative del presidente francese Macron, le dichiarazioni di quello ungherese Orban, le proposte dell’Austria e le sempre deludenti risposte dell’Europa per capire che con Roma bisognerebbe collaborare, non polemizzare. Soprattutto se si ha a cuore la sicurezza dei migranti.
Ignorare tutto questo o, peggio ancora, entrare pretestuosamente in contrasto con l’unico Paese che dei migranti si occupa seriamente e davvero, cioè l’Italia, è un atto di arroganza e presunzione. Ma non solo. È anche il cascame di quella politica della “ingerenza umanitaria” delineata negli Usa ai tempi della presidenza Carter (1977-1981) ma poi compiutamente affermatasi negli anni Novanta dopo il crollo del Muro di Berlino. L’idea, tanto cara agli americani, era che i singoli Stati fossero ormai delle variabili dipendenti dalla volontà delle grandi potenze, pronte a prendere su di sé la funzione di supreme regolatrici dell’ordine mondiale. Da allora, al mondo anglosassone, è bastato mettere l’etichetta di “umanitario” per sentirsi autorizzato a qualunque impresa, anche la più ipocrita, sballata e sanguinosa.
Ovviamente non è questo il pensiero delle Ong. Ma quel certo senso di onnipotenza che a volte le anima deriva da quel modo di pensare. Mentre la crisi drammatica che da anni si svolge nel Mediterraneo dimostra proprio il contrario. Che i singoli Stati contano, eccome. Che smantellarli, come è stato fatto con la Libia nel 2011, con l’Iraq nel 2003 e come si è cercato di fare con la Siria, proprio in nome di quel presunto “ordine superiore”, è una tragedia. Che non aiutarli, come invece si fa con l’Italia, è l’esatto contrario dello spirito umanitario di cui tanto si parla. E che invece fare politica, attività peraltro non estranea alle grandi Ong, può servire ad aiutare l’umanità più bisognosa.
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