di Giorgio Bongiovanni
Da una parte la conferma su un progetto di attentato “certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra”. Dall’altra l’archiviazione dell’indagine, chiesta ed ottenuta dai pm di Caltanissetta (competenti per i procedimenti che coinvolgono i magistrati palermitani) a causa di elementi non ritenuti sufficienti per giungere ad un processo. E’ così che l’inchiesta sul progetto di morte nei confronti del sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo viene conclusa. Nella richiesta di archiviazione, firmata dal Gip Antonia Leone che ha ritenuto “pienamente condivisibili” i contenuti, viene sancito come “deve ritenersi provata l’esistenza di un progetto criminoso teso all’eliminazione del dr. Di Matteo, magistrato da sempre impegnato sul fronte antimafia, da ultimo protagonista delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia ai tempi delle vicende stragiste dei primi anni Novanta”. Inoltre gli inquirenti nisseni hanno anche espresso “un giudizio di sostanziale attendibilità” rispetto alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, ovvero il soggetto principale che ha ricostruito tutti i passaggi del piano di morte.
L’ex boss dell’Acquasanta, pentitosi nel novembre 2014, aveva parlato di un progetto di attentato, mai revocato, deliberato sin dalla fine del 2012. Interrogato dai pm aveva riferito di una richiesta inviata con una lettera da Matteo Messina Denaro letta in un summit ristretto a cui partecipò assieme al suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio. Inoltre aveva spiegato anche il motivo per cui il pm doveva essere ucciso: “si era spinto troppo oltre”.
Dichiarazioni che si aggiungevano a quelle espresse in carcere durante le passeggiate in cortile dal Capo dei Capi, Totò Riina (oggi deceduto), in compagnia del detenuto Alberto Lorusso. “Riina Salvatore – scrivono i pm riportandole nel documento – commentando le udienze del processo trattativa, manifestava a più riprese l’astio nutrito nei confronti del dr. Di Matteo, in un crescendo che sfociava nella manifesta intenzione di ucciderlo facendogli fare ‘la fine del giudice Falcone’”. Quelle parole furono interpretate dai mafiosi, come un “benestare” del boss Corleonese all’esecuzione. “La nostra opinione fu che il Riina, il quale non poteva ignorare di essere intercettato, avesse utilizzato quella modalità per mandare messaggi all’esterno” ha detto Galatolo al processo trattativa Stato-mafia.
Nel suo “flusso di coscienza” Galatolo ha anche raccontato dei duecento chili di tritolo acquistati dalla Calabria ed in possesso di Graziano per compiere l’attentato. E poi ancora del tentativo tramite il collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza (nel 2014 deceduto a causa di una grave malattia) di attirare il magistrato a Roma, con la scusa di nuove rivelazioni utili all’inchiesta sulla trattativa. In quel modo i mafiosi avrebbero potuto colpire con l’uso di armi convenzionali. La Procura nissena dà conto delle indagini compiute nella ricerca dell’esplosivo, purtroppo mai individuato. E proprio in quel mancato ritrovamento giustificano l’assenza di un processo in quanto, a loro parere, non è possibile aprirlo dal momento che il progetto “non ha oggettivamente superato la soglia della fase preparatoria”.
Magari non si sarebbe potuto aprire un dibattimento per l’attentato ma si sarebbe potuto procedere per i reati di “detenzione e porto di armi ed esplosivi” da utilizzare proprio per quel fine.
Leggendo il documento, si resta perplessi nel riscontrare la mancanza di accenni ad elementi concreti come la vendita di 30 box auto, al prezzo di 500mila euro, da parte dell’avvocato (deceduto nell’aprile 2016) Marcello Marcatajo, per conto di Vincenzo Graziano. Un’inchiesta nata proprio grazie alle dichiarazioni di Vito Galatolo. Metà di quella cifra, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia, sarebbe stata utilizzata per acquistare il tritolo per uccidere il pm titolare delle indagini sulla trattativa Stato-mafia. C’è stato qualche problema nella trasmissione degli atti di indagine alla procura nissena? La ricostruzione del progetto di attentato risulta, secondo i pm, “in alcuni punti lacunosa” e contiene delle “contraddizioni non facilmente superabili alla luce delle sue conoscenze”.
Ciò non significa che l’ex boss dell’Acquasanta ha dichiarato il falso. Scrivono infatti i magistrati, che “il progetto di uccidere il dr. Di Matteo” resta “certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra”.
I pm nisseni (il procuratore Amedeo Bertone, gli aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci, il sostituto Stefano Luciani) nel documento ricordano anche le rivelazioni di altri pentiti che fanno risalire l’intenzione di uccidere il magistrato palermitano già nel 2007. Come? Le opzioni vedevano l’uso di un lancia missile o di esplosivo al plastico.
Tutti quegli “avvoltoi” che hanno sempre sminuito i rischi corsi dal sostituto procuratore nazionale antimafia dovrebbero quantomeno tacere. Ma questo è il Paese che nel giugno 1989 disse a Giovanni Falcone che l’attentato all’Addaura se lo era “fatto da solo”, “per farsi pubblicità”. Le indagini non chiarirono mai del tutto la dinamica e i mandanti di quel tentato delitto. A distanza di anni i toni sono sempre quelli dell’ignobile accusa. Riina è morto, Provenzano pure, i vertici della mafia cambiano volto ma non quel sistema di potere che si sente minacciato da chi si impegna per portare alla luce le “scomode verità” seppellite dietro la stagione delle stragi in cui morirono Falcone e Borsellino. Come ha ricordato lo stesso magistrato si dovrebbe avere una maggiore prudenza nel dire che Cosa nostra non pensi più a delitti eccellenti. “Nella pancia dell’organizzazione – ha ricordato Di Matteo in una recente intervista al quotidiano La Repubblica – soprattutto nelle carceri, c’è una generazione di cinquantenni che mostra insofferenza verso i mafiosi che sono fuori, vengono accusati di non essere stati capaci di rapportarsi con le istituzioni e la politica, per indurre lo Stato ad un allentamento della pressione”.Ergastolo, 41 bis, beni confiscati, corruzione. Temi che tornano attuali a 25 anni di distanza dal biennio stragista. E sullo sfondo, come scritto dai magistrati nisseni, una certezza: “l’ordine di colpire Di Matteo resta operativo”.
Foto © Paolo Bassani
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