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di Giovanni Rodini.
La strada che porta al MUOS di Niscemi è lunga e stretta. Si arrampica pigra su una collina lungo il perimetro recintato della base militare e pare una delle tante stradine di campagna che finiscono senza portare da nessuna parte. Un cancello metallico, che una folata di vento potrebbe buttare a terra, viene piantonato da ragazzini con la divisa della US Army e segna l’ingresso della base statunitense. Giovincelli che probabilmente la stessa folata spazzerebbe via, se ne stanno giorno e notte a controllare il transito dei veicoli che entrano ed escono da quel pezzo di terra. Quasi certamente non avrebbero molto da fare, se non fosse che qualcuno non ha gradito l’arrivo a sorpresa di quelle tre gigantesche parabole a cui fanno da guardia.
Per mesi si sono sentite solo voci, nessuna comunicazione ufficiale. C’era la necessità di non far capire, di tenere nascosto quel che stava per accadere. Poi, a poche settimane dall’arrivo delle parabole, è scoppiato il caso e la popolazione è stata messa al corrente della loro installazione. Da lì è stato un frenetico susseguirsi di domande inevase e di rassicurazioni a salve, capaci solo di creare più dubbi di quanti ne riuscissero a dissipare. Tutto quel susseguirsi caotico di mezze informazioni ha disegnato qualcosa di simile a quel che compare su un foglio quando si cerca di far funzionare una biro inceppata. Ma, a ben guardare, dentro allo scarabocchio, in quell’ingorgo di linee apparentemente senza senso, saltava da subito agli occhi lo stesso segnale di pericolo, con tanto di teschio e tibie, appeso nei pressi delle costruzioni del sistema satellitare americano per avvertire che non è una coltura di carciofi o sugheri quel cespuglio di metallo trapiantato là in collina.
Ma, come spesso accade, la vita ha contrapposto alla morte altra vita. Così, tra le persone che hanno deciso che la loro terra non avrebbe fatto da cornice a un cimitero tecnologico, un gruppo di madri si è organizzato in movimento di resistenza e ha intrapreso una pacifica battaglia per contrastare il male che si è seminato oltre a quel recinto.
Pacifica battaglia è l’ossimoro a cui sono costrette le Mamme no MUOS. Ma è una gentile contraddizione, la difesa di un territorio compiuta da chi si mobilita solo quando ciò che realmente conta viene messo in pericolo. Niente saccheggio o vandalismo per un rigore non dato o per una batosta subita su un campo da calcio. Qui a Niscemi il problema è tanto grave che anche chi di solito non si adira, ha finito col riversarsi in strada.
In strada, per sei lunghi mesi del 2013, a chiedere il rispetto del diritto alla vita di un intero paese, avreste certamente trovato anche lei, una niscemese, madre di famiglia, creatrice e coordinatrice del movimento che ha portato la mamme a contrapporsi ai cordoni di polizia e carabinieri che per mezzo anno hanno scortato i mezzi e gli operai che transitavano su per la collina fin dietro al cancello piantonato.
Lei si chiama Concetta Gualato ed è l’anima pulsante delle Mamme no MUOS. Mi racconta della difficoltà che hanno avuto tutte loro nel conciliare l’impegno a difesa del loro territorio con la vita di tutti i giorni; quella vita per la quale erano motivate a lottare, fatta di preparativi e scadenze, di viaggi a scuola per portare o passare a prendere i propri figli, di corse a comprare, preparare o allestire tutto quel che poi gli altri trovano pronto in casa e che sembra si faccia da solo, mentre dietro a ogni cosa c’è sempre una donna che ha scelto di essere madre.
La sua voce ha più energia di quella che quelle crudeli antenne potranno mai irradiare, viaggia più in profondità dei messaggi militari che presto raggiungeranno i sottomarini per tutto il Mediterraneo, ma, sopratutto, la sua voce racconta Niscemi come una figlia parla della propria madre.
Mi riferisce che alle cinque di mattina erano già tutte in piedi, raggiungevano la famosa strada lunga e stretta, si radunavano seguendo turni e tabelle, e poi aspettavano. Ma alle sette alcune di loro dovevano far ritorno a casa per provvedere alla colazione dei figli e per portarli a scuola. Mi immagino il suo sorriso, quando al telefono, mi racconta che, quando tutte le mamme erano impegnate per far fronte ai loro impegni famigliari e di lavoro, a dar loro il cambio, sulla strada arrivavano i nonni. Appena risolti gli impegni del quotidiano, le mamme no MUOS tornavano sul fronte della loro pacifica contestazione. Tornavano e aspettavano.
Su questo verbo ci dobbiamo soffermare. E lo dobbiamo fare perché le donne, sopratutto se madri, sanno fare dell’attesa un tempo fecondo. La maternità è una grande figura dell’attesa. Il desiderio di maternità si corona con la gravidanza, e da lì in poi la madre fa una profonda e infinita esperienza dell’attesa. Si aspetta un figlio, dopo la sua nascita si aspetta che crescano i primi denti, che pronunci le prime parole, che compia i primi passi, poi lo si aspetta che rincasi tardi la notte, si aspetta che decida su che strada vorrà incamminarsi, fino a quando non lo si vede andare via per poi riapparire sempre meno di frequente, senza mai smettere di aspettarlo.
Al margine di quella strada le mamme no MUOS aspettavano coloro che, con la loro arroganza, volevano minacciare la salute dei loro figli, condannandole al capezzale di un letto d’ospedale ad aspettare che l’incubo divenisse realtà: il figlio che cammina per i corridoi di un reparto di oncologia perché gli si metta la flebo al braccio, con il preparato della chemio che prova a salvargli la vita.
Non c’era che aspettare. Prima o poi si sarebbe sentito il rumore di un motore precedere il mezzo che trasportava i lavoratori della base o qualche veicolo più grande usato per portare sul posto il cemento e gli altri materiali che sarebbero serviti per costruire gli immensi blocchi su cui sarebbero state montate le antenne.
Le Mamme no MUOS, insieme ad altri manifestanti, hanno impedito quel transito decine di volte. Si sono sedute per terra e hanno fatto resistenza passiva, hanno cantato, ballato, hanno contrapposto alla malattia e alla morte la voglia di vivere e hanno posticipato per settimane quel che poi nessuno è riuscito ad evitare. Finché quella stagione è durata, tutte loro hanno preteso che nessun mezzo in transito verso la base militare trasportasse persone o strumenti che sarebbero poi serviti a fissare le parabole al suolo se non fossero state prestate garanzie che il MUOS non sarebbe stato messo in funzione, qualora si fosse provata la nocività di quelle parabole per la salute degli abitanti che vivono nei centri abitati lì vicino.
Poi sono iniziate a piovere denunce e la paura di dover affrontare lunghi e costosi procedimenti penali, per tacere della paura di essere allontanate dalle loro famiglie nell’eventualità di una di una condanna a una pena detentiva, ha fatto desistere molte di loro.
Ma sono piovuti anche riconoscimenti e solidarietà, tanto dall’Italia quanto dall’estero. Nel 2017 il prestigioso Aachener Friedenpreis, il Premio per la pace di Aquisgrana, il più ambito riconoscimento europeo per la pace, è stato assegnato ai No MUOS, per il loro impegno per la completa demilitarizzazione della sughereta di Niscemi. Già a marzo del 2013, le Mamme no MUOS vennero insignite del Premio Donne Pace e Ambiente Wangari Maathai, nella sezione Aria, per l’impegno in difesa del diritto alla salute e per la pace. Riconoscimenti importanti per un impegno che ancora perdura.
Il movimento delle Mamme no MUOS, infatti, esiste ancora e continua la sua pacifica battaglia come sempre. Una battaglia forse meno fisica, senza sit-in e presidi, ma profondamente sentita. D’altronde l’ostinazione è un altro vestito abituale della maternità. Perseverare nel suo messaggio di pace, cercando una volta ancora di persuadere i loro sordi interlocutori a chiudere la base MUOS di Niscemi, è la cifra della loro ostinazione.
In questo soprattutto consiste la battaglia: riconoscere come unica la vita di ogni individuo, senza appiattirla in un numero da statistica, dentro al grafico dell’incidenza per morte da emissioni elettromagnetiche di cui tanto si dibatte dentro alle aule dei tribunali dove ora la battaglia si è spostata.
In un’era in cui tutto si cambia, dove si butta il vecchio per il nuovo senza dolore, dove si sostituisce ogni cosa, dagli elettrodomestici alle case, dai partner ai sogni, l’unica cosa che queste donne vogliono sostituire è quel cimitero di antenne e parabole con delle querce da sughero. E hanno ragione, il tempo dell’incuria deve finire. E deve finire perché “i pianeti buoni per viverci sono difficili da trovare”.