Clamorosa decisione del Procuratore Cafiero de Raho dopo l’intervista rilasciata ad Andrea Purgatori su “La7”
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Un grave errore. Con un provvedimento “immediatamente esecutivo” il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, ha deciso di rimuovere dal pool che indaga “entità esterne nei delitti eccellenti di mafia” il sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo. Il motivo? Perché rilasciando un’intervista ad Andrea Purgatori, conduttore di “Atlantide” (a cui ha partecipato anche il giornalista e scrittore Saverio Lodato), andata in onda su La7 lo scorso 18 maggio, avrebbe risposto a delle domande con delle analisi che ricalcano le piste di lavoro riaperte sulle stragi, su cui si starebbe discutendo in riunioni riservate, e, così facendo avrebbe interrotto il “rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia” impegnate nelle indagini sulle stragi. A riportare oggi la notizia è il quotidiano La Repubblica. Addirittura il caso sarebbe stato rivolto anche al Consiglio superiore della magistratura (anche se il fascicolo non è ancora stato incardinato) per essere discusso dalla commissione che si occupa di assegnazioni e revoche che potrebbe confermare la decisione o, qualora ritenesse illegittimo il provvedimento, revocare lo stesso. In attesa della valutazione del Csm Di Matteo (che nel pool era affiancato dai magistrati Franca Imbergamo e Francesco Del Bene), da martedì tornerà al suo vecchio incarico, ovvero il coordinamento delle indagini antimafia del distretto di Catania.
Ma cosa avrebbe detto di nuovo il magistrato che assieme a Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia ha rappresentato l’accusa al processo trattativa Stato-mafia?
A ben guardare nulla. L’intervista non rappresenta altro che una rassegna delle prove fin qui acquisite 27 anni dopo le stragi evidenziando quelle tracce che tutt’oggi lasciano aperti degli interrogativi. Si fa riferimento ad “indagini in corso” ma senza entrare nel merito dell’approfondimento.
Non è una novità il ritrovamento a Capaci, proprio accanto al cratere, di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti. Non è un novità il rinvenimento di un guanto dal quale è stato isolato una traccia di Dna femminile. Non è una novità la scomparsa del diario di Falcone, da un computer all’interno degli uffici del ministero della Giustizia. Non è una novità che alcuni testimoni misero a verbale, subito dopo la strage, di aver visto prima del 23 maggio di finti operai in tuta che effettuavano dei lavori in corrispondenza dove poi Falcone sarebbe saltato in aria. Non è una novità che Giovanni Falcone si era occupato di Gladio già nel 1989 e che il suo interesse per approfondire sulla struttura paramilitare si era protratto anche nel periodo in cui non era più alla Procura di Palermo, ma all’ufficio degli affari penali del ministero della giustizia a Roma. Non è un novità che processi ed indagini hanno fatto emergere il sospetto che dietro l’attentato di Capaci vi siano anche mani esterne a Cosa nostra.
Dunque qual è la “pietra dello scandalo“? Dove si scorge il tradimento di quel “rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia“?
Non è la prima volta che davanti al Csm si affronta il tema delle interviste o degli interventi pubblici dei magistrati. Una questione che si ripropone dai tempi di Falcone e Borsellino e che è capitato anche nel recente passato con Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato e lo stesso Antonino Di Matteo, accusato di aver rivelato in un’intervista a La Repubblica l’esistenza di telefonate tra il capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Ma gli accertamenti compiuti allora dalla Procura generale della Cassazione evidenziarono come la notizia dell’esistenza di queste conversazioni tra il presidente della Repubblica e l’allora indagato Mancino era già stata pubblicata il giorno prima dell’intervista del pm di Palermo da alcune testate online e dal settimanale Panorama. E tutto si risolse con un “non luogo a procedere” con la correttezza del magistrato che non fu messa in discussione. Oggi il caso non appare tanto diverso.
Ad una settimana dalle commemorazioni di Capaci, dove quasi nessuno (salvo il Procuratore generale di Palermo Scarpinato e pochi altri) tra le istituzioni ha ricordato quegli interrogativi da cui ripartire per scoprire la verità, la decisione del Procuratore nazionale antimafia non rappresenta certo un bel segnale. Rinunciare su queste basi alla professionalità e alla competenza di un magistrato come Di Matteo, che sulle stragi ha indagato praticamente nell’intero arco della sua carriera, in questo momento storico rappresenta quantomeno un passo falso. Con il rischio che a brindare, alla fine, siano le solite “menti raffinatissime“.
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