È bellissimo che un editore pubblichi nella stessa collana, a poco più di un anno di distanza dall’uscita di Beni comuni. Un manifesto di Ugo Mattei, il libro Contro i beni comuni. Una critica illuminista di Ermanno Vitale. Secondo gli usi del nostro curioso mondo culturale, i cataloghi delle case editrici sono o informi guazzabugli di titoli che affossano ab origine ogni differenza di idee e contenuti, o l’espressione non tanto di una linea di pensiero (dell’editore, del curatore della collana), ma di una fazione: gli amici del tal professore, i sostenitori di quell’altro intellettuale. In questo secondo caso, possono anche comparire idee radicalmente divergenti, purché non appaia alcun conflitto.
Ecco, Laterza ha infranto il tabù: non solo Ermanno Vitale non appartiene alla scuola di Ugo Mattei, ma il libro è proprio una critica alle sue idee, o meglio alla loro vaghezza:
«Ciò che mi lascia perplesso – dice nella premessa – non è la radicalità della proposta, è la sua disorganicità , la sua contraddittorietà , la sua superficialità , il forte rischio che sia un autoinganno».
È un’operazione editoriale che rappresenta una sfida al rito obbligato del terzismo: invece di contrapporre in modo falsamente neutrale due opinioni diverse, alimenta una dialettica critica sui contenuti e sul modo in cui sono strutturati. Nella migliore delle ipotesi, se cioè Mattei, Negri, Rodotà o qualcun altro tra i sostenitori della causa dei beni comuni citati nel testo vorrà rispondere alle critiche mosse, gli stessi benicomunisti e la più ampia comunità dei lettori potranno giovarsi di una migliore articolazione di questa teoria in progress.
L’analisi di Vitale parte dall’uso delle fonti, dimostrando che i due saggi ritenuti nel male e nel bene fondativi del tema dei beni comuni, The Tragedy of the Commons di Hardin e Governing the Commons di Ostrom, non sono quel che Mattei e altri retoricamente descrivono: il primo non è un’apologia della proprietà privata ma semmai della regolazione pubblica, e il secondo dichiara tutti i limiti relativi alla gestione comunitaria dei beni collettivi – limiti di natura dimensionale, gerarchica e di esclusione proprietaria. E Marx non scrisse certo il capitolo sulla cosiddetta accumulazione originaria, il processo di recinzione delle terre comuni che annunciò l’avvento del capitalismo, con l’intenzione di decantare l’ordine sociale precapitalistico.
La società dei beni comuni descritta in Un manifesto viene invece definita per approssimazione – dice Vitale –, è una favola che vagheggia un’armonica comunità medievale “brutalizzata†dall’illuminismo, che sembra avere prodotto solamente l’ideologia dell’individuo proprietario.
Che cosa sono i beni comuni di preciso, si possono classificare o no? A chi sono comuni i beni comuni, a tutti o a delle comunità che escludono il resto degli umani? Chi deve amministrare i beni comuni? La Costituzione va superata, come pensa Negri, o difesa, come dice Rodotà ? Le risposte a queste domande sono ambigue e a volte cozzano fra loro in maniera fragorosa, e tuttavia nessuno lo ammette, tutti fingono di giocare la stessa partita politica. Ma oscurare la dialettica non ha mai portato bene alla politica, almeno a quella di sinistra.