In principio fu Sergio Turone. Un libro Laterza. Era il febbraio del 1984. Una busta tricolore in copertina, a evocare il vizio nazionale delle bustarelle. Titolo: [b]Corrotti e corruttori dall’Unità d’Italia alla P2[/b]. Collana “i Robinsonâ€. E in fondo un indice dei nomi in cui, quanto a citazioni, la parte del leone spettava a Giulio Andreotti, allora – decisamente – l’uomo politico più potente d’Italia. Non c’era quasi vicenda del secondo dopoguerra in cui non spuntasse il nome del leader democristiano: dal caso Montesi alle scalate finanziarie più ardite degli anni sessanta, dalla vicenda Sindona al caso Pecorelli, dalla P2 agli sfondi d’affari della politica internazionale. Ricostruzione impietosa di fatti sparsi nella storia del paese, ma in modo diverso tutti inscritti nella memoria della sua opinione pubblica.
C’era però nel libro una pagina, la 201, che conteneva righe che erano dinamite. Riguardavano la gestione finale della strage di Portella delle Ginestre (1947), il famoso caffè che avvelenò Gaspare Pisciotta, il cugino del bandito Giuliano che aveva promesso rivelazioni sulla verità della strage e che nel 1954 era stato ucciso in perfetto stile Borgia nel carcere palermitano dell’Ucciardone. Turone si addentrò nei meandri di quel delitto. Setacciando la storia e dipanando il groviglio delle lotte intestine della Dc. Poi scrisse: “Fanfani restò all’Interno fino al 18 gennaio 1954, giorno in cui per la prima volta fu designato alla presidenza del Consiglio e costituì un monocolore democristiano. Nella nuova compagine governativa il ministero dell’Interno fu affidato a Giulio Andreotti, allora legatissimo a Scelba. Quel governo durò in carica solo ventitré giorni, e cadde, per la mancata fiducia della Camera, il 10 febbraio. Attenzione ancora alle date. L’omicidio al caffè di Pisciotta avvenne il 9 febbraio. Andreotti si era insediato al Viminale da tre settimaneâ€. Continuava Turone, osando quel che fino allora nessuno aveva osato: “Il discorso relativo alla responsabilità politica reale del grave episodio si restringe a due nomi. Qualora si ritenga che per attuare e proteggere un delitto fra le mura di un carcere occorra una preparazione più lunga di tre settimane, il ministro responsabile deve essere indicato nel predecessore di Andreotti: Fanfani. Se invece si ritenga, in teoria, che a un ministro furbo e spregiudicato venti giorni siano sufficienti per far organizzare la liquidazione fisica di un testimone pericoloso carcerato, allora l’oggettiva responsabilità politica del fatto ricade su Andreottiâ€.
Che quest’ultima ipotesi fosse quella più creduta dall’autore si evinceva dal seguito del ragionamento. Il giorno successivo alla morte di Pisciotta, notava l’autore, divenne presidente del Consiglio lo stesso Mario Scelba (ovvero il ministro dell’Interno ai tempi della strage), che tenne per sé per un anno e mezzo, succedendo al pupillo Andreotti, anche la carica di ministro dell’Interno.
Al libro di Turone toccò una sorte singolare: ne venne chiesto il ritiro dal mercato con provvedimento giudiziario su istanza di Umberto Ortolani, alter ego di Licio Gelli, offesosi per i passi che lo riguardavano nella storia della P2. Ma ciò che davvero aveva irritato il Palazzo era probabilmente questo passaggio del tutto inedito e subito dimenticato, e mai più ripreso nel dibattito politico, nemmeno dai più accaniti detrattori dello stesso Andreotti.
In questo tipo di ricostruzioni c’è sempre un altro “primaâ€. Ma se si deve inquadrare la bibliografia su Andreotti e i suoi rapporti con la mafia, non c’è dubbio che quel libro abbia segnato uno spartiacque (Turone riprese l’anno successivo il tema in [b]Partiti e mafia dalla P2 alla droga[/b], ancora con Laterza, e stavolta con Andreotti ex aequo per citazioni con Michele Sindona). A ruota giunse, nell’ottobre dello stesso anno, un libro-denuncia che aveva per autore il sottoscritto. Sono costretto a citarlo per l’impatto pubblico che ebbe. Si intitolava [b]Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana[/b]. Indicava le responsabilità morali e politiche dell’assassinio del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto nel settembre di due anni prima. Scritto per ragioni di autotutela per una piccola casa editrice parigina (Liana Levi), venne presentato alla Fiera di Francoforte. Il deciso riferimento storico e logico alla figura di Andreotti, corroborato con materiale documentale inedito proveniente dalle carte del prefetto, sollevò immediatamente l’interesse internazionale. Non una lontana vicenda di mafia, ma la vicenda vicinissima dell’assassinio mafioso di una delle maggiori personalità pubbliche nazionali, veniva accostata all’uomo che, accolto con ovazioni alla festa dell’Unità , già allora era indicato come il successore di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. La pubblicazione della versione italiana incontrò forti e diffuse resistenze. Finché Giulio Bollati e Corrado Stajano convinsero Leonardo Mondadori al grande passo. Il silenzio Rai su un libro che attirò in Italia tutte le televisioni del mondo fu da consegna militare, terza rete compresa. Andreotti scrisse di suo pugno sul “Messaggeroâ€, riferito all’autore: “Spero che possa pentirsi di quel che ha scrittoâ€.
La vicenda dell’omicidio del generale-prefetto fece da cardine per il maxiprocesso di Palermo che iniziò il 10 febbraio 1986. I documenti prodotti in Delitto imperfetto divennero atti giudiziari. Vi si soffermò Corrado Stajano in due paragrafi di Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, il libro che lo scrittore curò per gli Editori Riuniti e che venne pubblicato poche settimane prima dell’inizio del processo. La figura di Andreotti vi campeggiava in relazione all’isolamento politico subito dal prefetto antimafia. Del modo in cui si comportò Andreotti chiamato a testimoniare al maxiprocesso, il sottoscritto raccontò poi in [b]Storie di boss, ministri, tribunali, giornali, intellettuali, cittadini[/b] (Einaudi, 1990).
Lo stesso Stajano si occupò successivamente in modo rigoroso dei rapporti tra Andreotti e il potere mafioso scrivendo il suo celebre [b]Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica[/b]. Il libro di Stajano, pubblicato da Einaudi nell’aprile 1991, si inserì in una stagione di disfacimento incipiente proprio del sistema di potere di cui Andreotti era stato il fulcro. E sollevò con forza una questione, quella dei rapporti tra Andreotti, la Dc, la P2, la finanza criminale, Michele Sindona e la mafia che mise a dura prova il leader democristiano, che non per nulla ancora nel settembre 2010 avrebbe retrospettivamente commentato l’assassinio di Ambrosoli con la vendicativa battuta “in termini romaneschi se l’andava cercandoâ€. La vicenda venne ripercorsa nella sua prospettiva di figlio molti anni dopo da Umberto Ambrosoli in Q[b]ualunque cosa succeda[/b], pubblicato da Sironi nel 2009.
Quanto al fronte palermitano, dal maxiprocesso in poi le responsabilità del gruppo di potere andreottiano divennero una costante di tutta la più seria letteratura sulla mafia, di taglio accademico come di taglio giornalistico. Vale la pena ricordare in questo contesto, per l’effetto politico dirompente che ebbe, [b]Palermo[/b] (Mondadori, 1990), il libro-intervista dei giornalisti Carmine Fotia e Antonio Roccuzzo a Leoluca Orlando. Duecento pagine in cui si consumò la rottura del sindaco ribelle democristiano con il capo supremo del suo partito, anticipatrice di pochi mesi della nascita della Rete.
Un posto a sé merita naturalmente la bibliografia generata dal processo Andreotti, a cui fece da battistrada l’avviso di garanzia inviato dalla Procura della Repubblica di Palermo nell’aprile del 1993. Fece scalpore la voluminosa raccolta di atti processuali [b]La vera storia d’Italia[/b], pubblicata da Tullio Pironti nel 1995, che dava conto dell’accusa sostenuta da Giancarlo Caselli e dai suoi sostituti. Un fondamentale inquadramento storico e sociologico dell’impianto di quegli stessi atti fu offerto dal libro di Pino Arlacchi, [b]Il processo. Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo[/b], pubblicato da Rizzoli nel 1995. Mentre un utilissimo lavoro di sintesi sulla sentenza di primo grado (assoluzione, 1999), volto a coglierne gli elementi di rilievo storico-politico, venne proposto da Nicola Tranfaglia in [b]La sentenza Andreotti. Politica, mafia e giustizia nell’Italia contemporanea[/b], uscito per Garzanti nel 2001. Le polemiche sull’effettiva natura della sentenza finale (prescrizione per il reato di associazione per delinquere commesso fino al 1980) hanno visto fronteggiarsi più testi. In particolare da un lato la [b]Relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia[/b] del gennaio 2006 (innocentista a prescindere), dall’altro lo stesso Giancarlo Caselli in [b]Un magistrato fuori legge[/b] (Melampo, 2005). Con un agile lavoro di sintesi, e con prefazione dello stesso Caselli, è intervenuto ultimamente sul tema Giulio Cavalli, autore per Chiarelettere (2012) di [b]L’innocenza di Giulio[/b].
Un materiale ormai sterminato. Che però non è bastato a evitare i cori di “servo encomio†in morte.
———————-
Nando dalla Chiesa insegna sociologia della criminalità organizzata all’Università Statale di Milano.