‘di Giorgio Vasta
Uno degli scatti più noti del fotografo americano Ron Haviv ritrae un soldato della Guardia volontaria serba mentre sferra un calcio al cadavere di un civile musulmano. Colpendo, il militare tiene serenamente una sigaretta tra le dita della mano – il polso piegato, la postura nel complesso indolente. Ciò che di quell’immagine sconvolge è la coesistenza di segni inconciliabili: la violenza e l’ordinarietà , il furore e il quotidiano.
Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli) è l’illustrazione tenerissima e spietata di come questa coesistenza di opposti – insostenibile eppure inevitabile – non riguarda una singola foto: è tout court la struttura in cui viviamo. Nelle nostre esistenze convivono (spesso inestricabilmente connessi) elementi discordanti che mettono di continuo alla prova la nostra capacità di comprensione, costringendoci a un ininterrotto stupore.
In quindici pezzi narrativi e riflessivi, Hemon – che con [i]Il progetto Lazarus[/i] è stato finalista al National Book Award 2008 – compone un’autobiografia come naturale anomalia. Ogni esistenza si fonda su un movimento assimilabile a quello di un corpo celeste, rotazione e rivoluzione insieme, senza mai un arresto che permetta di individuare una forma coerente. Che cos’è una vita non lo sa neppure chi quella vita la sta vivendo. Esistono solo tentativi di comprensione, ipotesi, collaudi. I frammenti sono molteplici ed Hemon li esplora uno per uno. E dunque il racconto della vita in famiglia a Sarajevo, da piccolissimo, quando tutto era come era già stato, è la precondizione per analizzare quelli che saranno i progressivi sradicamenti, il trauma della relazione con il prossimo, la «crisi ontologica» determinata dall’immigrazione, la scoperta di essere «un coagulo di vari altri».
Allora i paradossi possono spalancarsi riconoscendo l’altro in Mek, un setter irlandese (e nell’essere riconosciuti da lui dopo tre anni di separazione), così come nell’osservare, accanto alla testa «cuboide» e zazzeruta di Karadzic, un proprio ex docente universitario, profondamente ammirato per la sua sensibilità letteraria, diventato nel tempo un membro di spicco del Partito democratico serbo, avallatore del genocidio.
E ancora, mentre in quella che era la Jugoslavia è appena scoppiata la guerra, passeggiando nervosamente per Chicago Hemon si ritrova ad accettare di non tornare a Sarajevo e di rimanere negli Stati Uniti (cominciando a scrivere in inglese); fino a rendersi conto, rientrato a Chicago dopo la prima visita in Bosnia a guerra finita, che «di ritorno da casa, tornavo a casa».
Se da un lato per Hemon la nostra vita può venire descritta «come una di quelle Madonne che appaiono nel settore surgelati di un supermercato in New Mexico: visibili solo ai credenti, risibili per tutti gli altri», dall’altro ci sono momenti in cui l’ammutolimento prevale.
Davanti alla morte di Isabel, la figlia di un anno, Hemon sperimenta non tanto la fine delle parole (che ci sono ancora ma migrano in blocco verso i tecnicismi diagnostici e prognostici) quanto il dissolversi di una sintassi utile a produrre senso. Rinchiusi nell’acquario di uno sgomento incessante, la vita degli altri (che provano a consolare, che corrono per strada, che semplicemente vivono) si allontana a distanze siderali. Dopo la tragedia, a far recuperare fiato e un barlume di senso è Mingus, l’amico immaginario di Ella, l’altra figlia. Mingus è bizzoso e imprevedibile; a volte urla, «altre volte perde la voce, ma allora parla con quella di Isabel».
Del resto le vite immaginarie, tanto quanto quelle reali, servono a dare forma alla mancanza.
(21 marzo 2014)Foto di copertina: © Ron Haviv
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