'C''è ben altro. Criticare il capitalismo oggi'

'Investire se stessi. Capitalismo e servitù volontaria. Tratto da "C''è ben altro. Criticare il capitalismo oggi" (Mimesis) a cura di Enrico Donaggio. '

'C''è ben altro. Criticare il capitalismo oggi'
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7 Ottobre 2014 - 08.42


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di Camilla Emmenegger, Francesco Gallino, Daniele Gorgone

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Una definizione minima

La categoria di servitù volontaria nasce dallo stupore del giovanissimo Étienne de la Boétie (1530-1563) verso la situazione del popolo francese, sottoposto a una tirannia durissima e spietata. Di fronte a questo spettacolo, nel suo Discorso della servitù volontaria, egli si pone la domanda più elementare: come può un uomo solo sottometterne milioni? La risposta schiude un orizzonte problematico osceno: non certo per forza propria, ma contando piuttosto sul sostegno attivo dei sudditi (affamati, derubati, stuprati, mandati a morire in guerra).

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Quel che a prima vista appare un rapporto di costrizione, si rovescia nel suo contrario: sono i sottomessi a istituire e mantenere in vita il dominio da cui pure vengono terribilmente danneggiati. Con la semplice interruzione degli atti che riproducono quel potere si vedrebbe il tiranno, “come un grande colosso cui sia stata tolta la base, […] precipitare sotto il suo peso e andare in frantumi” [1]. La facilità con cui i servi potrebbero liberarsi (“per avere la libertà basta desiderarla”) [2] conduce La Boétie a una constatazione paradossale: se gli individui non sono liberi, significa che non vogliono esserlo. Sono loro a causare, volontariamente e attivamente, la propria sofferenza.

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È possibile che […] la categoria cinquecentesca di servitù volontaria abbia oggi ancora qualcosa da dire? Aiutando forse – se correttamente applicata – la critica del capitalismo a illuminare alcuni punti altrimenti oscuri dell’attuale sistema economico-sociale? È questa un’ipotesi che, nell’ultimo decennio, ha suscitato interesse crescente, animando in particolare il dibattito francese sul nuovo sistema di produzione e organizzazione del lavoro; un dibattito che, tuttavia, ha rischiato talvolta di non cogliere la sostanza della tesi laboetiana, smarrendone l’acume diagnostico e il potenziale critico. La servitù volontaria non è infatti un fenomeno di cui andare a caccia, né una malattia da debellare. È invece un reagente capace di far emergere contraddizioni altrimenti invisibili; schiudendo forse – in modi inaspettati e tortuosi – nuove prospettive d’emancipazione.

Una definizione ‘pura’ della categoria richiede dunque anzitutto di specificarne i minimi caratteri fondamentali. Il concetto deve mantenere la sua strutturale paradossalità e, nel contempo, sciogliersi dal contesto storico-politico in cui ha preso forma, per diventare un proficuo strumento di analisi del mondo sociale contemporaneo. Sotto questo rispetto, i caratteri che lo connotano in modo proprio sono:

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subalternità: la servitù presuppone la condizione di sottomissione a un potere;

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consapevolezza: la servitù è il risultato di una scelta degli asserviti; non può quindi essere ridotta a un inganno da parte del potere o a un errore di calcolo dei sottomessi;[3]

svantaggiosità: libertà e felicità sono inscindibilmente legate (non può esistere un servo felice, anche perché il potere, in quanto arbitrario, è sempre potenzialmente dannoso), e dunque il motivo dell’asservimento non può consistere nei benefici derivanti da esso; per contro, uscire dalla servitù significa smettere di infliggere dolore a se stessi;

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facile astenibilità: se sono i servi stessi a ridursi e mantenersi in schiavitù, per liberarsi è sufficiente smettere di compiere quei gesti che producono e perpetuano l’assoggettamento.

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Il dibattito francese su [i]new management[/i] e [i]flux tendu[/i]

Un tentativo di riattualizzare la categoria di servitù volontaria sta caratterizzando da un decennio a questa parte il dibattito francese in materia di organizzazione del lavoro. Gli autori che animano la discussione – che attraversa la sociologia del lavoro (Jean-Pierre Durand), la filosofia (Michela Marzano, Eric Hamraoui), l’economia (Frédéric Lordon) e la psicodinamica o psicopatologia del lavoro (Cristophe Dejours, Roland Gori) – pongono al centro dei loro interventi il nuovo sistema produttivo capitalistico. A differenza del precedente (fordista-taylorista), questo avrebbe come obiettivo e motore fondamentale del suo funzionamento il consenso e l’adesione attiva dei salariati. Proprio su questo punto molti autori riprendono il concetto di servitù volontaria.

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[…]

Se [però] si raffronta l’utilizzo della categoria presente in questi studi con la definizione pura e minima proposta nelle pagine d’apertura, emerge una caratteristica specifica e poco compatibile con il nostro modello. Per tutti questi autori, infatti, il sostegno deriva sempre da una costrizione sistemica o da un armamentario ideologico in grado di ‘produrre l’adesione volontaria’.

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L’equivoco è particolarmente evidente nel caso di Marzano: parlare di ‘servitù volontaria per manipolazione’ [4] significa certamente evocare La Boétie. Ma per descrivere un fenomeno confinabile invece nel classico ambito degli arcana dominii: la servitù, ‘apparentemente volontaria’, è in realtà ‘estorta’ grazie a un miglioramento qualitativo dei dispositivi sistemici (mancano, volendo semplificare, due dei quattro caratteri sopra individuati: consapevolezza e facile astenibilità).

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Impiegata in questo modo la categoria perde di senso; inoltre, viene meno la possibilità di utilizzarla in vista di una proposta emancipativa: se i lavoratori sono costretti o indotti ad aderire, non possono liberarsi semplicemente volendolo.

Più che una nuova forma di servitù volontaria, questi autori identificano dunque un funzionale strumento attraverso cui il capitalismo ottiene maggiore efficienza e stabilità: i servi forgiano entusiasticamente le proprie catene, ma è il sistema che, in ultima analisi, li induce a farlo.

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Una proposta di applicazione

La proposta, che si sta qui avanzando, di un utilizzo minimo della categoria di servitù volontaria per analizzare il capitalismo contemporaneo deve ora passare dalla critica alla parte propositiva. Occorre anzitutto rispondere a una possibile obiezione: così rigidamente ristretta entro criteri definiti – subalternità, consapevolezza, svantaggiosità, facile astenibilità – la categoria risulta ancora suscettibile di un’applicazione pratica? O non si è invece finito per costruire uno strumento analiticamente inappuntabile, ma empiricamente inservibile?

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La domanda si lega a un problema di fondo. Il cuore del ragionamento laboetiano – senza il sostegno attivo e autolesionistico del popolo, il potere del tiranno cadrebbe istantaneamente – funziona, in questa forma radicale e quasi magica, solo se si prende in esame una società nel suo insieme. Non vale però se applicato ad ambiti più circoscritti: nella gran parte delle circostanze concrete, infatti, elementi di assoggettamento sistemico, di costrizione e oppressione sono presenti e gravano sensibilmente sui sottomessi.

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Quale utilità può dunque avere, in simili situazioni, la categoria di servitù volontaria? A nostro avviso, quella di una sorta di ‘setaccio’: di strumento metodologico e critico per filtrare, separare e rimuovere nel comportamento degli attori sociali gli atti autolesionistici cui non sono esteriormente costretti e dalla cui cessazione trarrebbero soltanto benefici. Eliminata così la quota di servitù volontaria presente nei loro gesti, nel setaccio dovrebbe restare soltanto la pura oppressione sistemica di cui sono vittima: la quale risulterà, a seconda delle situazioni, più o meno immodificabile.

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Un esempio di applicazione di questo metodo è offerto dal testo di Dejours L’ingranaggio siamo noi [5]. Tra gli spunti più interessanti, vi è infatti una descrizione del fenomeno dello ‘zelo’. L’organizzazione del lavoro non si fonda quasi mai sulla mera esecuzione di ordini e prescrizioni: se i lavoratori si limitassero a osservare scrupolosamente le direttive ricevute, la produzione collasserebbe all’istante.

Ciò che mantiene in vita il sistema – fonte di estrema dolorosità per tutte le figure coinvolte – è invece la “mobilitazione delle intelligenze” [6] degli stessi lavoratori; i quali, contravvenendo spontaneamente ai regolamenti, elaborano stratagemmi che consentono all’apparato di perpetuarsi.

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L’abolizione di un dispositivo aberrante, della cui dolorosità tutti sono consapevoli, non richiederebbe dunque un gesto di disobbedienza, forse troppo eclatante e oneroso. Per sabotare l’organizzazione che li danneggia basterebbe invece limitarsi a obbedire agli ordini ricevuti; cioè, in termini laboetiani, astenersi dal compiere azioni a cui non si è costretti e che risultano lesive per i soggetti che le intraprendono. Un simile gesto (lo ‘sciopero dello zelo’, una forma di sciopero bianco) non basterebbe a liberare quei salariati da tutti gli aspetti dolorosi o oppressivi della loro attività.

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Ma metterebbe in imbarazzo i reali beneficiari del loro lavoro: per mantenere in vita quella forma di organizzazione, al netto della quota di servitù volontaria che la sorregge, dovrebbero infatti ricorrere a un aumento della coercizione diretta; spostando così la lotta su un piano molto più palese e, per questa ragione, più difficile da gestire sulla lunga durata.

Cosa succederebbe se si applicasse il metodo del setaccio alla situazione lavorativa dei giovani laureati italiani? All’esperienza di chi ha trovato lavori ben pagati e adeguati al proprio percorso di studi, come a quella di chi vive tra disoccupazione, precariato e tirocini infiniti.

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Per il primo aspetto prendiamo un caso esemplare. Quello di Lorenzo, 27 anni, un ingegnere nucleare che lavora in Veneto presso una multinazionale di consulenza finanziaria, dopo aver rifiutato varie offerte (tra cui un dottorato di prestigio in Germania). Il contratto prevede un orario di 8 ore; la giornata lavorativa, però, non è quasi mai inferiore alle 11 ore; nei periodi di chiusura dei progetti supera le 20, anche per più giorni consecutivi [7]. Gli straordinari non vengono pagati, e lo stipendio – di per sé ottimo – se calcolato a tariffa oraria non oltrepassa in realtà i 10 €. I vertici a livello europeo della multinazionale sono (ufficialmente) contrari a questi ritmi: Lorenzo e i suoi colleghi hanno la possibilità reale (della quale tuttavia non usufruiscono mai) di appellarsi alla sezione risorse umane della sede centrale.

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Come spinta motivazionale Lorenzo ha la prospettiva di una brillante carriera, oltre che ragioni etiche sorprendentemente valide [8]; nel contempo, però, la dolorosità del ritmo di lavoro è palesemente percepita, raggiungendo nei picchi di attività (con sonno ridotto a meno di un’ora per notte) livelli di conclamata insopportabilità.

Da un lato, dunque, Lorenzo ha ottime motivazioni (economiche e di riconoscimento) per accettare l’organizzazione del lavoro cui è sottoposto; sarebbe ingenuo domandarsi perché non esiga il rispetto delle 8 ore contrattuali. Nel contempo, però, lui e i suoi colleghi si trovano in una relativa posizione di forza verso l’azienda: molto competenti, con un contratto favorevole e altre offerte di lavoro ricevute.

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Setacciando questa situazione con il filtro della versione minima di servitù volontaria da noi proposta, ciò che scivola via sono proprio quei picchi di dolorosità chiaramente percepita: l’onere di una sospensione collettiva dei gesti che la producono (esigendo per esempio un numero minimo di ore di sonno) sembra davvero irrisorio.

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L’altra faccia della medaglia è costituita da giovani neolaureati che svolgono stage, praticantati, tirocini o altre forme di lavoro gratuito o del tutto sottopagato.

Una situazione inedita, almeno quantitativamente, soltanto pochi anni fa [9]. Un esercito di almeno mezzo milione di persone ogni anno [10] che, talvolta con la speranza di una futura assunzione, [11] accetta volontariamente condizioni non così dissimili dalla schiavitù.

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Gli ambiti professionali sono molteplici, e comprendono posizioni altamente specializzate (medici), pubbliche (Inps), e altre in cui il lavoro gratuito è proibito dal codice deontologico (avvocati), o in cui l’ipotesi di venire ripagati in termini di migliore apprendimento del mestiere è poco plausibile (colf, cassieri, commessi, spazzini).

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È innegabile che elementi socio-economici, politici, legislativi e psicologici incentivino i giovani precari ad accettare condizioni di lavoro grottesche. E tuttavia sembrerebbe davvero poco onerosa almeno la più banale forma di emancipazione: il rifiuto di lavorare gratis.

Astenersi dall’impiegare le proprie energie al servizio di uno sfruttamento plateale, dal quale peraltro non si ricava nulla, sarebbe un mero sottrarsi all’autolesionismo; un gesto che, però, ridisegnerebbe almeno in parte il mercato del lavoro italiano [12].

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Perché serviamo? Sottomissione, complicità, diniego

Una seconda domanda riguarda la plausibilità della servitù volontaria nella forma pura delineata nelle pagine precedenti. La si potrebbe formulare in questi termini: cosa può spingere una persona, o addirittura una collettività, a un atteggiamento tanto autolesionistico? Senza una risposta accettabile a un simile quesito, qualsiasi tentativo di applicazione pratica della categoria di servitù volontaria resta puramente velleitario.

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Senza pretendere di scoprire o fornire spiegazioni definitive di questo enigma sociale posto al cuore del capitalismo contemporaneo, ci confronteremo ora con delle analisi, empiriche e speculative, che hanno dimostrato in modo convincente l’esistenza di qualcosa di simile alla servitù volontaria pura.

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Le teorie a cui faremo riferimento pongono tutte al centro il rifiuto di prendere coscienza di qualcosa di cui pure si è in parte consapevoli. Questo tema è alla base della categoria di ‘diniego’, analizzata tra gli altri da Stanley Cohen.

Oggetto del suo studio è la paradossale condizione di chi, contemporaneamente, ‘sa e non sa”; quei casi in cui cioè, posti di fronte a “informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale” [13], reagiamo (come singoli e come collettività) negandole a noi stessi, in toto o nelle loro implicazioni negative. Si tratta di un processo almeno in parte cosciente: contrariamente alla rimozione – processo di difesa essenzialmente inconscio – il diniego è infatti caratterizzato dalla paradossale coesistenza di consapevolezza e negazione.

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Un fenomeno simile al diniego, ma di carattere espressamente socio-politico, è oggetto della System Justification Theory (SJT). Al centro della sua analisi vi sono “i processi tramite i quali le strutture [i]arrangements[/i] sociali vengono legittimate, anche a spese degli interessi personali e di gruppo” [14].

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“La gerarchia” – sottolineano i ricercatori – “è mantenuta […] anche dalla complicità di membri di gruppi subordinati, molti dei quali perpetuano la diseguaglianza tramite meccanismi di outgroup favoritism” [15].

Questo atteggiamento non è frutto di coercizione, né di mero adeguamento di fronte a un sistema immutabile (c’è dunque almeno una quota di astenibilità), ed è svantaggioso sia sul piano economico che su quello psichico: l’interiorizzazione dell’ideologia (specialmente di quella “particolarmente efficace […] nei sistemi democratici post-totalitari di libero mercato: la meritocrazia”) [16] richiede infatti che i soggetti si concepiscano come responsabili della propria condizione svantaggiata. Il che genera a sua volta bassa stima di sé, nevrosi, depressione.

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Come spiegarlo, dunque? I teorici della SJT deducono che esso “faccia sentire meglio le persone in altri modi” [17]; e conferiscono così al desiderio di ‘avere un’immagine positiva’ del mondo in cui si vive (di ‘tifare per la squadra che vince’) lo statuto di un vero e proprio bisogno umano. Un bisogno che, spesso, sopravanza le esigenze di riconoscimento individuale e di gruppo (ego e group favoritism): in questi casi sono proprio gli ‘sconfitti’ a rallegrarsi della legittima vittoria delle classi avvantaggiate.

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Le riflessioni dei teorici della SJT consentono di porre direttamente in connessione il tema del diniego e la categoria laboetiana. Il diniego può cioè spiegare perché la servitù volontaria sia instaurata e costantemente replicata dai sottomessi.

Secondo questa lettura, noi difendiamo e perpetriamo il sistema di potere in cui viviamo, benché ci provochi dolore, per non dover prendere coscienza della sua ingiustizia. Se non riconosciamo che il sistema è ingiusto (razionalizzando anche il nostro dolore, come congruo o inevitabile: there is no alternative) non tentiamo di migliorarlo; ma anzi, ci impegniamo ancor di più nella sua difesa, per meglio tutelare il nostro diniego.

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Ma perché questa verità in apparenza banale – l’ingiustizia del sistema – dovrebbe essere così inaccettabile? Un suggerimento non molto confortante ci viene da Dejours: per via della nostra connivenza con il sistema. Ritenere inevitabile, naturale o neutrale, la sofferenza sociale altro non è se non un meccanismo di “difesa contro la dolorosa consapevolezza della propria complicità, della propria collaborazione nella crescita dell’ingiustizia sociale” [18].

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È così possibile aggiungere un tassello alla tesi della servitù volontaria per diniego. Prendere coscienza dell’ingiustizia del sistema, e dunque lottare per abolirla, implicherebbe che noi ammettessimo di essere complici di un potere iniquo: e dunque – in uno scenario in cui il ruolo di vittima sfuma inquietantemente in quello di carnefice – coartefici del dolore da esso inflitto tanto agli altri quanto a noi stessi. Piuttosto che riconoscerci tali (come elettori, lavoratori, consumatori), preferiamo continuare a difendere quel sistema come giusto, e quel male come accidentale o inevitabile.

La servitù volontaria assume perciò i tratti di un circolo vizioso. Smettere di supportare il sistema (di essere servi volontari) richiederebbe di riconoscerlo come ingiusto; ma questo riconoscimento implicherebbe il dire a noi stessi che abbiamo speso tutta la vita a causare, a noi e agli altri, del male. Non siamo disposti ad ammetterlo, e dunque preferiamo continuare a servire.

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Conclusione

L’analisi sin qui condotta si attesta essenzialmente su un livello diagnostico: è ora necessario soffermarsi rapidamente sulle possibili prognosi. Si tratta, cioè, di chiedersi se e come l’ipotesi della servitù volontaria, oltre a illuminare alcuni aspetti altrimenti poco visibili del capitalismo contemporaneo, schiuda anche nuove percorribili vie emancipative.

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Ciò, però, è tutt’altro che scontato: è evidente infatti come alla servitù volontaria sia intimamente connesso un certo pessimismo. Ammettere che i soggetti, pur potendo, non si liberano, significa constatare che non vogliono farlo, o che – nella migliore delle ipotesi – hanno valide ragioni per non farlo: ma se è così, su quali basi dovremmo attenderci una loro uscita dall’attuale sistema economico? In realtà, proprio da quella constatazione può prendere le mosse una duplice [i]exit strategy[/i].

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In primo luogo, l’analisi dei concreti contesti di lavoro setacciati tramite i ‘quattro caratteri’ (ma il medesimo discorso andrebbe posto sui piani del consumo, della diseguaglianza economica, degli investimenti finanziari) permette di tracciare, nella superficie apparentemente monolitica dello status quo, piccole e ben delineate sfere di un’emancipazione possibile.

Ogni volta, cioè, in cui la mera astensione da atti auto-assoggettanti risulterà per i soggetti coinvolti allo stesso tempo possibile e benefica, si aprirà loro la possibilità concreta di migliorare immediatamente la propria condizione, riducendo la sofferenza che causano a se stessi: dormire un numero accettabile di ore, ottenere un compenso per il proprio lavoro, ridurre il rischio che i propri cari siano sfrattati.

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Un gesto che, al contempo, sottrae al sistema nel suo complesso una quota (per quanto piccola) di sostegno: contribuendo così a rendere più visibili – e quindi, forse, più direttamente attaccabili – cooptazione, coercizione, manipolazione.

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Inoltre, proprio l’analisi delle spinte – soggettive e collettive alla sottomissione svantaggiosa può indicare le direzioni da intraprendere per favorire l’uscita da una condizione di autosfruttamento e sofferenza. Sotto questo aspetto il meccanismo del diniego, esaminato in precedenza, non è certo l’unica ipotesi valida (e del resto nulla esclude che all’origine della sottomissione volontaria vi siano di volta in volta dinamiche differenti); ma è un’ipotesi che ha il pregio di non essere paralizzante a fini emancipativi.

Essa suggerisce, in particolare, l’esigenza di rendere più tollerabile, ai ‘carnefici di se stessi’, lo sguardo sulla propria condizione: ciò permetterebbe di disarmare gradualmente il cortocircuito del diniego, in base al quale proprio l’impossibilità di ammettere il dolore inflitto(si) annichilisce il superamento di quest’ultimo.

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Da ognuno di questi approcci, in ogni caso, emerge una constatazione di fondo: che proprio nel dedicarsi anima e corpo a un sistema di lavoro che li danneggia, i lavoratori occidentali rivelano di possedere un serbatoio di energia immenso. Il loro impegno infatti è solo in parte riconducibile a manipolazione e coercizione, o – all’opposto – alla speranza in un ritorno economico o di riconoscimento: c’è dell’altro.

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Una quota ‘x’ leggibile sia in positivo (come capacità aspirativa, desiderio di felicità, spinta utopica) sia in negativo (secondo le categorie del diniego, dell’insostenibilità della vita libera, di una brama sottomissiva e autolesionistica), ma comunque tutt’altro che passiva, estorta o eterodiretta. È qui che sembra innestarsi la via per un’emancipazione possibile: tentare di riconvertire quella stessa energia, reindirizzandola verso fini al tempo stesso meno dolorosi e più umani.

(7 ottobre 2014)

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Note

[1] É. de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, Milano 2014, p. 37.

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[2] Ivi, p. 34.

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[3] In particolare, gli individui che compiono costantemente atti che li pongono in situazione di servitù svantaggiosa sono almeno consapevoli di un’alternativa possibile minima: l’astensione da quegli atti.

[4] M. Marzano, Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata, Mondadori, Milano 2010.

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[5] C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il saggiatore, Milano 2000.

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[6] Ivi, p. 76.

[7] Si attestavano su ritmi simili i carichi di lavoro che nell’agosto 2013 hanno portato alla morte lo stagista Moritz Erhardt; cfr. P. Gallagher, Slavery in the City, in «The Indipendent», 28 Agosto 2013: http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/slavery-in-the-city-death-of-21yearold-intern-moritz-erhardt-at-merrill-lynch-sparks-furore-over-long-hours-and-macho-culture-at-banks-8775917.html

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[8] Connesse alle importanti ricadute del suo lavoro sull’economia reale italiana in termini di liquidità erogata.

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[9] E in parte conclusasi con la Riforma del Lavoro Fornero (legge n. 92/2012), la quale, tra le altre cose, applicando un decreto europeo ha messo fuori legge lo stage gratuito, imponendo un rimborso spese minimo di 300 euro (legge che però deve essere attuata tramite decreto amministrativo da parte delle singole regioni e che non riguarda i tirocini degli studenti universitari né i praticantati professionali): cfr. http://www.pmi.it/impresa/normativa/articolo/61861/riforma-di-stage-e-tirocini-compenso-e-requisiti-2013.html

[10] Cfr. E. Voltolina, La repubblica degli stagisti, Laterza, Roma-Bari 2010.

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[11] Speranza spesso vana, dato che la percentuale di assunzione dopo uno stage è di circa il 9,4%, meno di uno stagista su 10.

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[12] Potremmo individuare un caso positivo di applicazione del ‘setaccio’ nel rifiuto, messo in atto dall’Associazione dei fabbri di Pamplona nell’inverno 2012-2013, di partecipare agli interventi di sfratto (moltiplicatisi con la crisi): cfr. https://sites.google.com/site/cerrajerosdepamplona/. La semplice astensione dal sostituire le serrature ha inceppato per mesi l’intero sistema dei pignoramenti. Il loro gesto è inoltre servito da modello: la protesta non solo è stata appoggiata da un importante sindacato spagnolo (l’Unione dei fabbri di sicurezza), ma si è anche estesa ad altre categorie di lavoratori;

cfr. http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2013/02/130221_bomberos_cerrajeros_desahucios_ap.shtml

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[13] S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Roma 2002, p. 23.

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[14] J. T. Jost, M. R. Banaji, The Role of Stereotyping in System-Justification and the Production of False Consciousness, in «British Journal of Social Psychology», n. 33, 1994, p. 2.

[15] J. T. Jost, M. R. Banaji, B. A. Nosek, A Decade of System Justification Theory: Accumulated Evidence on Conscious and Unconscious Bolstering of the Status Quo, in «Political Psychology», vol. 25, n. 6, 2004, p. 885. Con ‘outgroup favoritism’ ci si riferisce a “preferenze valutative per i membri di un gruppo a cui non si appartiene”: ivi, p. 891; le indagini condotte dai teorici della SJT si concentrano in particolare su afroamericani, persone a reddito basso e omosessuali, tendenti a condividere rispettivamente i pregiudizi di bianchi, ricchi e eterosessuali.

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[16] J. T. Jost, O. Hundady, The Psychology of System Justification and the Palliative Function of Ideology, Research Paper Series, Stanford Graduate School of Business 2002, p. 33.

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[17] Ibid.

[18] C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi, cit., pp. 23-24.

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