di Luciana Riommi
Lo stupore e il caso, due parole che racchiudono una visione del mondo, dove l’accento cade necessariamente sul termine “visione”: il mondo semplicemente non è se non c’è qualcuno che lo vede e per vederlo occorre liberarsi, almeno in parte, dagli schemi precostituiti della percezione e della comprensione che impediscono la meraviglia di fronte all’apparire casuale del nuovo che, altrimenti, non riconosceremmo affatto.
Liberarsi dunque dalle abitudini di pensiero, da quegli automatismi della mente che, a nostra insaputa, ci condannano a una condizione di cecità. Tale è l’effetto di ogni assoluto, di ogni regime di verità, nei campi più svariati, dalla scienza all’arte, dalla letteratura alla vita stessa. Freud e Einstein lo hanno detto con chiarezza, modificando definitivamente le forme del sapere, confuse nel profondo con le forme del potere, così come lo hanno espresso in campo letterario, ciascuno con il proprio linguaggio, Kafka, Musil, Bachmann, tra gli altri.
Lo stupore è “l’inizio di ogni filosofare e del diventare umani” affermava Ingeborg Bachmann (in Gargani p. 18), perché lo stupore spezza l’inconsapevole indifferenza verso ciò che indifferente ci circonda e soprattutto sconfigge la paura che sta alla base di ogni spiegazione razionalistica, scudo definitivo contro l’angoscia dell’ignoto. Il caso – e lo stupore che produce – “è un varco che si apre nella fabbrica del simbolismo ben protetto e fondato, l’occasione fortuita che si dischiude entro una versione già predisposta del mondo” (p. 19) ma, aggiunge Gargani: “È una nuova attitudine etica quella che ci predispone a riconoscere il caso, il fortuito, cioè ad attribuirgli un valore, e quindi a rilevarlo, a metterlo in cornice, a dargli rilievo, accrescendo alla resa dei conti la nostra esperienza” (p. 19).
Questa nuova attitudine etica è ciò che consente, per esempio, al portalettere della Bachmann (in Malina) di vedere qualcosa che altri non vedono e che lui stesso prima non vedeva: le sofferenze e i disagi di alcuni destinatari delle missive che lui ha il compito di consegnare. Da questa nuova percezione la decisione di non consegnarle più: una scelta, etica, che spezza l’ordinario e “che porta lontano dalla situazione di equilibrio, di normalità dei comportamenti” (p. 34), sfidando lo sconforto e l’incertezza generalmente derivanti dalla rinuncia a idee, immagini e rappresentazioni stabili e certe.
E forse è anche ciò che consente, nella scrittura di Kafka, “il ricorso ad una sorta di catastrofe, ad un punto limite di rottura” rispetto ai significati consolidati. La metamorfosi, come altri racconti, è semplicemente quel che la scrittura stessa crea, un fatto, e come tale lascia il lettore nell’impossibilità di un’interpretazione certa. “Ma l’incertezza, – continua Gargani – l’impossibilità di accertare un significato univoco dei fatti dipende dall’incertezza ontologica che in Kafka mina alle radici l’io, la soggettività e l’identità personale” (p. 79). Precisamente ciò che è necessario per avere un altro sguardo sul mondo e su di sé, per provare nuovamente a stupirsi.
Non si tratta di scegliere una diversa versione del mondo, da contrapporre a quella cristallizzata della tradizione; non è questo il prodotto dell’apertura al caso e allo stupore, bensì una nuova relazione tra il soggetto e l’esperienza del mondo, direi anche tra il soggetto e se stesso, una relazione che trova nel discorso il suo compimento e la sua verità: “la verità che si estrinseca nel linguaggio e che vale come linguaggio, come relazione tra persone, contro quell’immagine della verità razionale che dirigeva invece verso oggetti (trascendenti, ideali oppure immanenti)” (p. 47).
Ripensando a Cassirer, che in Linguaggio e mito assegnava alla meraviglia espressa nell’interiezione l’inizio di quella peripezia della coscienza che sfocia nel linguaggio, non posso non condividere le parole di Gargani: poiché “con il linguaggio l’uomo si è distaccato dal terreno originario, dalla sostanza amorfa della sua origine per divenire voce del linguaggio […] egli non può avere un affidamento più certo della propria identità di quello che riuscirà a tracciare nella scheggia linguistica che gli riesce di intagliare” (p. 48).
E allora le diverse componenti della vita umana, del mondo, dell’esperienza stessa, non saranno più – difensivamente – saldate in una connessione logico-analitica, di tipo causale, si troveranno invece all’interno di “una nuova logica […] la logica della coesistenza, dello stare insieme, come quello degli uomini e delle querce, delle pulci e del pelo dei cani” (p. 50). Una logica che inevitabilmente, in quella scheggia linguistica in cui ciascuno riesce a intagliare un provvisorio senso di identità, lascia buchi, lacune, salti, in definitiva enigmi: in questa dimensione insatura forse ulteriori opportunità di future esperienze di stupore.
Per molti si tratta di “esperienze inquietanti” – dice Gargani – “unicamente perché mostrano di non appartenere alla sfera del nostro possesso, di disattendere quell’identità di noi con noi stessi che è soltanto una chimerica aspirazione alla proprietà che vorremmo avere sulla vita prima ancora di viverla, questa vita” (p. 52).
E forse è per tale inquietudine che un libro come questo, di un pensatore straordinario come Aldo G. Gargani, non è più disponibile.
Il testo qui riprodotto — con il consenso dell’autrice, che ringraziamo — risale al 2011 ed è stato recentemente ripreso su www.recensionilibri.org il 21 settembre 2017. (pfdi)