di Domenico Tambasco
Per quale motivo dinanzi alla legittima protesta degli schiavi della logistica che incrociano le braccia nei magazzini della SDA di Carpiano, esercitando il sacrosanto – e costituzionale – diritto di sciopero pensiamo subito, istintivamente, “ai 70 mila pacchi ostaggio dello sciopero dei facchini”[1]?
In nome di quale superiore principio costituzionale abbiamo sacrificato l’integrità fisica e morale dello studente minorenne di La Spezia il quale, alla guida di un muletto mentre svolgeva le ore obbligatorie di alternanza scuola-lavoro, ha subito un gravissimo incidente?
La risposta possiamo trovarla nell’ultimo saggio di Marta Fana (Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, pp. 168): siamo preda della “mutazione genetica” degli ultimi trent’anni “ingloriosi”, che ha generato una vera e propria “antropologia della subalternità”[2].
Un Homo novus si aggira nelle lande desolate del lavoro 4.0: è l’ homo subalternus, che accetta come legge di mercato – e dunque di natura – il proprio ineluttabile destino di merce lavorativa di scambio a basso costo ed in qualsiasi momento sostituibile.
È un viaggio nelle assurdità del lavoro “moderno” spacciate dal mainstream dominante come ultimi ritrovati della scienza giuslavoristica: si passa dal lavoro a chiamata ai voucher, dal cottimo digitale ai contratti a termine estesi addirittura ai servizi pubblici fino ad arrivare alla madre di tutte le riforme, il Jobs Act, che ha precarizzato anche l’ultimo presidio di giustizia ed equità sociale, il contratto a tempo indeterminato a tutela reale.
Il risultato è, ormai da tempo, sotto gli occhi di tutti, al netto della propaganda di corte: una precarizzazione che, se da un lato non ha portato la “crescita” economica tanto agognata – se non nelle tasche del solito 1% –, dall’altro ha generato un “processo di disintegrazione sociale”, ovvero una “condizione di impoverimento, una vera e propria proletarizzazione di fasce crescenti della popolazione, a partire dalle giovani generazioni a cui è negato un futuro di dignità e di riscatto”[3].
L’impietosa analisi della Fana, del resto, giunge alla sua conclusione già nel titolo: questo “Non è lavoro, è sfruttamento”.
Il re è nudo: dalla Repubblica democratica “fondata sul lavoro” siamo giunti, quasi senza accorgercene, alla Repubblica fondata sui lavoretti – o “gig economy”, per utilizzare l’ipocrita neolingua del Jobs Act.
Lo stesso senso del lavoro, in questa nuova e surreale dimensione, viene totalmente stravolto: dal lavorare per avere reddito si passa, come in una società dell’Ancien Regime, all’avere reddito per poter lavorare, se necessario contraendo debiti, strumenti disciplinari idonei a renderci più remissivi e meglio sottomessi.
Questa situazione, tuttavia, “non puo’ essere vissuta passivamente, accettata come qualcosa di naturale”[4].
Ecco, proprio qui sta la novità e, diremmo, il cuore pulsante dell’ultima fatica di Marta Fana: è l’impulso, l’invito appassionato all’azione verso chi legge affinchè si scuota dal torpore e dalla passività dell’essere subalterno, per dar vita ad un nuovo agire che è – di fatto – agire politico così come politico, del resto, è stato il trentennale progetto neoliberista di flessibilizzazione del lavoro, il cui scopo era tutt’altro che limitato all’ambito economico, essendo al contrario volto ad imporre un tanto feroce quanto barbaro “dominio di classe”[5]; una vera e propria “lotta di classe dall’alto verso il basso” per dirla con le parole del compianto Luciano Gallino[6].
Lo sforzo della Fana – e di tutti coloro che tuttavia, compreso chi vi scrive, da tempo hanno la sensazione di gridare alla luna – è quello di spargere i semi di una nuova coscienza di classe: quella dei subalterni, ovvero del 99% che, trasversalmente, ricomprende la classe media caduta in disgrazia negli ultimi venti anni, la generazione dei trenta- quarantenni cresciuta con il mito della laurea e finita nel binario morto dei lavori a partita Iva a mille euro al mese (splendidamente definita da qualcuno come “Quinto Stato”[7]), le nuove generazioni di studenti destinate, dopo anni di lavoro gratuito, ad una miriade di lavori poveri di reddito e di professionalità[8], gli schiavi del lavoro migrante e i lavoratori anziani vittime della Riforma Fornero, costretti a lavori da fame pur di raggiungere una misera pensione.
È quella che qualcuno ha chiamato “classe esplosiva”[9] e che, dopo essere diventata “classe in sé”, deve necessariamente trasformarsi in “classe per sé”: senza piu’ deleghe a nessuno, e senza falsi pudori, questa nuova classe deve avere il coraggio – se non vuole prima o poi morire di stenti – di utilizzare una nuova sintassi – ed una nuova prassi – lontana dal politically correct.
Il riscatto collettivo di questa comunità – di cui la maggior parte di noi e di chi ci legge, ne siamo certi, fa parte – non puo’ non partire da una nuova parola d’ordine: il conflitto, ovvero il “sacrosanto diritto di anteporre i diritti dei molti ai profitti dei pochi”[10].
Sopravvivere significa sovvertire l’ordine contemporaneo del potere economico-sociale: “ben venga la lotta che prova a ribaltare rivoluzionariamente lo stato di cose presente”[11].
NOTE