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Uguaglianza, lavoro e capitalismo squilibrato

L’uguaglianza, il lavoro nell’era digitale, l’intervento pubblico nel sistema imprenditoriale: tre nodi della riflessione al centro dei libri appena pubblicati da Ferrajoli, Ciccarelli, Romano e Lucarelli. [Lelio Demichelis]

Uguaglianza, lavoro e capitalismo squilibrato
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18 Marzo 2018 - 08.34


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di Lelio Demichelis

Il neoliberalismo – lo sappiamo – ha prodotto ricchezza finanziaria per pochi e impoverimento reale e macerie sociali e individuali per i più. Ma questi più non si ribellano, al massimo reagiscono di pancia, cercano un populista, un autocrate o un guru tecnologico o una app a cui delegare se stessi e le proprie scelte. Questi più – sciolti ormai come classe operaia e come ceto medio – accettano di restare nella caverna platonica e pur muovendosi molto elettoralmente (come dimostrato dalle elezioni del 4 marzo) sostanzialmente si adeguano (al neoliberalismo, alla rete, all’ultimo populista sul mercato). Uscire dalla caverna non è – purtroppo – nei loro pensieri.

In nome di una falsa libertà individuale promessa dal neoliberismo e dalla rete abbiamo dimenticato che l’uguaglianza è la base della libertà vera, nonché la premessa della fraternità. A ricordarci, invece, che l’esplosione attuale delle disuguaglianze è qualcosa che non ha confronti con la storia recente e che è stata una scelta politica delle classi dirigenti; che questo è in palese contrasto con ciò che è scritto nella Costituzione, dove l’uguaglianza, la fraternità e la libertà sono elementi strutturali e strutturanti e vincolanti (e solennemente riconfermati dal demos per referendum); che la disuguaglianza mette in pericolo il futuro della democrazia, della pace e dello stesso sviluppo economico – è un saggio magistrale scritto da un filosofo del diritto di prim’ordine come Luigi Ferrajoli.

Perché il principio di uguaglianza «è il principio politico dal quale, direttamente e indirettamente, derivano tutti gli altri principi e valori». E se oggi la disuguaglianza dilaga, ciò deriva dal crollo di una politica «che in questi anni ha abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di governo dell’economia e si è assoggettata alle leggi di mercato», producendo la crisi della ragione politica e di quella giuridica e il trionfo della ragione economica. Ma se questo è vero e vere sono le macerie sociali su cui i più camminano, l’uguaglianza deve diventare di nuovo non solo un valore ma anche, scrive Ferrajoli, un principio di ragione per definire una politica alternativa e diversa da quelle attuali, del tutto irrazionali ma potentissime nella loro autoreferenzialità. Un’alternativa già scritta proprio nella Costituzione.

Da qui questo suo Manifesto per l’uguaglianza, che ci ricorda che «l’uguaglianza viene stipulata perché, di fatto, siamo differenti e disuguali, a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze. Il principio di uguaglianza consiste dunque nel valore delle differenze che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale a tutte le altre». Per questo, le disuguaglianze (soprattutto economiche e sociali) devono essere almeno ridotte. Era questo il senso virtuoso delle politiche keynesiane post-1945, che invece il neoliberalismo egemone e dominante dagli anni ’80 nega perché suo obiettivo era ed è quello di sciogliere la società nel mercato, la vita nella competizione, trasformando l’individuo in impresa/imprenditore di se stesso. E la competizione, ovviamente, non produce uguaglianza e neppure libertà. E men che meno fraternità.

La riflessione di Ferrajoli sulla Costituzione (e sui Trattati europei) – che non elenca principi astratti bensì vincolanti e prescrittivi – è appassionata e coinvolgente, integra etica e diritto e principio di responsabilità, critica della politica e critica dell’economia, riflessioni su laicità e autonomia/autodeterminazione, necessità di rifondare il diritto del lavoro e a un lavoro oggi invece tornato ad essere drammaticamente merce, per di più low cost. Manifesto quanto mai necessario e che si chiude con la proposta di un costituzionalismo oltre lo stato, che vada cioè a porre limiti e vincoli a quei poteri finora esclusi dal costituzionalismo classico, quelli economici privati (mercati, multinazionali) e quelli extra o sovra statali che vanno a comporre la a-democratica e anti-egualitaria governance neoliberale della globalizzazione. Globalizzazione dove oggi domina un vuoto di diritto pubblico, occupato da un pieno di diritto privato, cioè «da un diritto di produzione contrattuale che si sostituisce alla legge e che riflette la legge del più forte». Non tutelando i diritti dell’uomo, né quelli delle future generazioni.

E da una filosofia del diritto alla ricerca dell’uguaglianza perduta, a una filosofia della forza lavoro (che è diversa dal lavoro), alla ricerca della dignità e della libertà perdute. Il nuovo libro di Roberto Ciccarelli, (Forza lavoro) è, infatti, un altro modo per ragionare di disuguaglianze, classi, politiche neoliberali, capitalismo delle piattaforme, nuovo sfruttamento, «naturalizzazione dell’idea di impresa e sua trasformazione in una favola a sfondo filosofico», di autosfruttamento e di desiderio di liberazione; e di lato oscuro della rivoluzione digitale – che doveva garantire maggiore autonomia e libertà ma che ha invece esteso il dominio del capitale dai corpi (nel passato fordista) alle menti, alla psiche e agli affetti di oggi. Ma serve anche un nuovo modo di ragionare di lavoro perché oggi lo si fa «senza parlare della condizione che lo rende possibile, la forza lavoro».

Ciccarelli (rifacendosi al concetto di Quinto Stato) ne cerca una nuova definizione partendo dalle storie di uomini e donne in carne e ossa, secondo un’etica spinozista lontana da quella marxista (che la considerava come «il terreno primordiale dell’antagonismo ma anche della cooperazione tra individui, del conflitto e della solidarietà»), come da quella liberale del contratto di lavoro, oggi «sostituita da una continua rimodulazione della prestazione salariata, in base alle esigenze delle imprese». Il lavoro odierno contiene un paradosso, «da una parte lo si vuole ‘liberare’ facendolo diventare autonomo e creativo come un’opera d’arte, dall’altra parte è considerato un residuo archeologico. Da una parte l’iper-lavoro, dall’altra il sotto-impiego»: tutte parti, tuttavia, di «un unico processo di subordinazione»; perché «in una società capitalista la forza lavoro è finalizzata sempre alla produzione del lavoro-merce».

Ma questo – sostiene Ciccarelli nella parte più filosofica del libro – non è un destino, la forza lavoro potendo essere usata «per affermare la vita in quanto mezzo di se stessa e non solo come oggetto del contratto, strumento del lavoro e del capitale umano». Idea affascinante, ma difficile – siamo meno ottimisti di Ciccarelli, pur condividendo la gran parte della sua riflessione sui nuovi lavori, sul potere pastorale tecno-capitalista, sui nuovi modelli manageriali e su molto altro ancora – davanti a un biopotere di tecnica e capitalismo che vuole fare dell’uomo un uomo nuovo che sia falso soggetto e insieme oggetto reale di un mercato e di una tecnica che difficilmente lasceranno l’uomo libero di essere se stesso e libera la sua forza lavoro, essendo capace di sussumere sempre più in sé e per sé anche la forza lavoro.

Perché il capitalismo è un sistema che vive di una produzione incessante di squilibrio. Tema cui è dedicato un importante libro di Roberto Romano e Stefano Lucarelli. Concetto innovativo, questo di Squilibrio, che andrebbe oltre la distruzione creatrice di Schumpeter e che sarebbe diverso anche dall’odierna disruption. Una dinamica che deriverebbe dalle tecniche superiori di produzione, quelle che l’offerta e la domanda considerano migliori e vincono sul mercato; mentre «gli imprenditori lavorano ogni giorno per realizzare uno squilibrio, cioè un prodotto capace di produrre un vantaggio rispetto ai concorrenti». Cioè: «senza squilibrio, il capitalismo non avrebbe ragione d’essere». Il problema è allora di governare e di contenere/orientare politicamente e democraticamente questo squilibrio – o questa dynamis, come preferiamo chiamarla, che il capitalismo introduce a forza nel sistema sociale per il proprio profitto, spesso con grande dis-utilità sociale (ad esempio, la disoccupazione tecnologica), ma sempre per alimentare la propria riproducibilità infinita.

Perché – ancora Romano e Lucarelli – «le imprese non sono orientate, per definizione, alla tutela dell’interesse collettivo» e quindi serve «la capacità di guidare la dinamica squilibrio-equilibrio-squilibrio», ripensando il ruolo del sindacato e dello Stato, della politica economica e di «una politica del lavoro che non subisca lo squilibrio e contribuisca al ben-essere».

(14 marzo 2018)

 

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