di Paolo Bartolini*
Alcuni mesi fa è uscita, per le edizioni Raffaello Cortina, una lunga intervista di Luca Nicoli ad Antonino Ferro, uno dei pensatori più originali e apprezzati del nostro tempo in campo clinico e psico-analitico. Il dialogo con questo “psicoanalista irriverente” ha preso la forma di un libro che mi sento di suggerire a chi coltiva ancora, nel rumore assordante del presente, la passione per l’ascolto che cura, per il dialogo che rende possibili nuove narrazioni, per le vie con le quali l’inconscio (questo sconosciuto a cui dobbiamo buona parte della nostra creatività) sembra palesarsi dilatando la nostra esperienza della realtà. Il lettore curioso scoprirà piacevolmente che le ipotesi metapsicologiche sviluppate nel corso degli ultimi decenni stanno stravolgendo la psicoanalisi classica aprendo una nuova fase nello studio del funzionamento mentale. Dopo l’avvento delle esplorazioni psicoanalitiche di Wilfred R. Bion, Ferro dichiara candidamente che la visione del profondo di Freud, a parte alcuni punti fermi (l’importanza del setting e la centralità dei sogni, della sessualità nello sviluppo della personalità e dell’inconscio), può essere oggi considerata antiquata e priva di utilità terapeutica. L’inconscio stesso non va più pensato come un luogo psichico, ma come una funzione della personalità.
Bion, soprattutto mediante la nozione di “pensiero onirico della veglia”, ha dischiuso negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso la possibilità di effettuare un vero e proprio salto quantico nella comprensione della psiche e delle relazioni umane. Ferro riesce, con un linguaggio semplice e suggestivo, a sintetizzare la novità rivoluzionaria del pensiero bioniano. Se per Freud il sogno era solo quello notturno, via regia per accedere al mondo sotterraneo dell’inconscio svelandone faticosamente il linguaggio cifrato, per Bion noi sogniamo non solo di notte ma anche durante lo stato di veglia, sebbene questo lavorio incessante passi inosservato.
Freud e Bion, e con loro Antonino Ferro, condividono comunque una cosa: le immagini sono, per la mente umana, indispensabili. Le emozioni, i vissuti più intensi e le fantasie messe in moto dal desiderio, hanno bisogno, per generare coerenza, di esprimersi per immagini. Quest’ultime si configurano come una tappa intermedia nel processo di simbolizzazione che dagli affetti conduce alla parola e all’espressione verbale. La salute mentale dipende largamente da questo lavoro di graduale messa in forma, dalla capacità di personalizzare l’incontro con la realtà (interiore ed esterna) attivando un processo di metabolizzazione che consenta di comunicare ciò che proviamo ad almeno un altro essere umano, producendo dunque un significato condivisibile.
L’attività mentale è dunque compostadi passaggi che rendono operativa l’elaborazione dell’esperienza, la sua “digestione” sul piano simbolico e la possibilità di trasformarla in qualcosa di creativo. Vedremo tra poco che questi temi, lungi dal riguardare solo la vita dei singoli, hanno ricadute importanti sulla natura sistemica del vivere associato e sulla qualità della nostra partecipazione alla dimensione politica dell’esistenza. Prima però tenterò di descrivere, in modo necessariamente ultrasintetico, le coordinate delle riflessioni bioniane sul pensiero onirico.
La prospettiva che stiamo discutendo è intimamente relazionale. È stato detto, e a gran ragione, che per fare una mente ce ne vogliono due, ma aggiungerei che per fare una persona ce ne vogliono molte di più. Ciò significa – e questo ormai è un dato acquisito in ambito antropologico, filosofico e psicologico – che la soggettività si costruisce attraverso un lungo un processo di individuazione che vede funzionare la nostra mente in sintonia con altre menti umane.Possiamo cominciare a pensare solo perché acquisiamo una lingua storicamente determinata e perché i nostri simili ci insegnano, sul versante emotivo, a trasformare gli stimoli più informi in materia pensabile, in simboli utilizzabili.
Secondo questo modello il neonato imparerebbe dalla madre, e dalle figure di cura che esercitano una funzione affine, a contenere e riconoscere gradualmente quelle proto-sensazioni ed emozioni grezze (i cosiddetti elementi beta) che sono, per definizione, ingestibili, inesprimibili, non ancora pronte per essere tradotte in simboli che rendano possibile l’autocomprensione. Esisterebbe allora in ogni madre una misteriosa e fondamentale funzione psicologica che le consente di intuire e poi accogliere i contenuti emotivi che il bambino non riesce da solo ad assimilare e governare, fino al momento in cui potrà restituirglieli in una forma digeribile, meno indeterminata e minacciosa.
La funzione alfa – questo il nome scelto da Bion per definire la capacità mentale di trasformare l’impensato, di “convertire” gli elementi beta in elementi alfa – si sviluppa nel piccolo d’uomo solo dopo che un adulto della stessa specie ha accolto mentalmentei suoi malesseri, le paure, le angosce, ma anche i moti di gioia più intensi, e li ha metabolizzati per poi restituirli al bambino che, un po’ alla volta, imparerà a padroneggiarli. Questo processo di sintonizzazione e trasformazione è prevalentemente inconscio e presuppone la capacità dell’adulto di sognare in stato di veglia, di fantasticare, cogliendo a livello viscerale cosa sta provando il bambino e come può essere aiutato a farne esperienza. In parole semplici: non è possibile regolare il proprio mondo interiore, con le sue risposte agli stimoli endogeni ed esterni, senza il contributo di una persona amorevole sintonizzata empaticamente con noi fin dalla nascita.
Ora, però, consideriamo la funzione alfa e il suo ruolo decisivo nella costruzione del pensiero. Tale funzione assolve un compito ben preciso: trasformare continuamente gli stimoli sensoriali ed emozionali, suscitati dall’impatto con la realtà, in pittogrammi, cioè in immagini singole (visive, auditive, cenestesiche ecc.) che danno una prima forma, certo rudimentale, a ciò che è indefinito e perturbante ovvero alle proto-sensazioni e proto-emozioni prive di coerenza per il soggetto che le patisce.
Questi pittogrammi, che Ferro chiama “i mattoncini Lego” del pensiero, vengono mescolati, assemblati e trasposti in ordini narrativi grazie al pensiero onirico diurno. Ciò significa che, mentre siamo svegli e la nostra attenzione si dirige verso le normali incombenze quotidiane, la mente profonda continua ad elaborare e connettere fra loro tutti i pittogrammi che la funzione alfa produce istante dopo istante. Questo montaggio silenzioso e invisibile permette di dare un senso a quello che ci accade, liberando risorse cognitive e spazio psichico. Il sogno notturno, recuperando memorie e altri frammenti di immagini affettivamente investite, ricombinerà creativamentele narrazioni del giorno in cerca di soluzioni ai problemi della vita. Siamo quindi presi da un continuo processo di assemblaggio di immagini interne suscitate dalle cause più disparate, immagini che vengono disposte in trame di senso capaci di fornire un ordine minimo al caos che ci avvolge e compenetra. Seguendo questo modello, si capisce subito che i disturbi psichici e comportamentali hanno spesso a che fare con l’incapacità di sognare la nostra esperienza, di trasformarla in narrazioni implicite ed esplicite (cioè guidate dalla coscienza) indispensabili per orientarci nella vita e ampliare la nostra facoltà di “immaginare altrimenti” e di «[…] metabolizzare la brutalità del reale» (p. 119).
Prima che approdi in qualche misura alla sfera cosciente (e non sempre è utile che ciò accada), noi siamo – come ricorda Ferro (p. 62) – trascinati da «quel nastro di pensiero onirico della veglia che si va formando nella nostra mente senza che noi lo sappiamo». In noi «c’è un processo che continuamente trasforma i dati che ci arrivano dalla realtà, cosicché quest’ultima viene continuamente trasformata in una sequenza filmica all’interno della nostra mente» (p. 65-66).
Il cambio di paradigma nella psicoanalisi riguarda soprattutto la necessità, per il terapeuta, di lavorare con il paziente a questo livello, avvalendosi in modo consapevole e strategico del proprio pensiero onirico diurno (rêverie).
Al dogma freudiano, che si incentrava sul rendere conscio l’inconscio, segue un’indicazione ben diversa: la salute mentale si promuove rendendo inconscio ciò che percepiamo da svegli, al fine di metabolizzarlo, riconfigurarlo ed eventualmente portarlo alla coscienza come esito, più ricco e significativo, di un processo di narrazione che affiora al crocevia tra processi corporei e psichici.
I pittogrammi generati dalla misteriosa funzione alfa sono, come abbiamo detto, i mattoncini con cui costruiamo le nostre storie. Qui arriviamo a una questione che è (im)mediatamente culturale e politica. Mi domando se e quanto gli operatori attivi nel campo clinico e in quello formativo/educativo siano consapevoli del fatto che, nella società dello spettacolo e dell’ipermedialità, la funzione alfa adibita alla creazione dei pittogrammi necessari per pensare viene esercitata per noi proprio dai mass media e dai poteri che controllano e plasmano l’immaginario collettivo. Ferro ha parlato di una «sequenza filmica» nella nostra mente, e Maurizio Peciccia (psicoanalista anche lui) ha paragonato esplicitamente il lavoro onirico inconscio, caratterizzato dai processi di condensazione e spostamento, al morphing e alle tecniche di montaggio che si utilizzano nel cinema, in televisione e nella realizzazione di altri prodotti multimediali.
Quello che sogniamo (in veglia o durante il sonno) è dunque influenzato enormemente dalle immagini in movimento che riceviamo dai mass media e dal sistema di intrattenimento globale. Non utilizziamo forse spezzoni di film, immagini pubblicitarie e altri frammenti iconici pop, per esprimere nei nostri sogni le emozioni che ci agitano, i desideri trattenuti, le speranze deluse e le nuove possibilità di azione che potremmo attualizzare nella realtà condivisa? Se gli eventi storici – come una guerra, una crisi economica che si ripercuote sulla vita di molte persone, un disastro ecologico, una contesa politica, un’innovazione tecnologica che porta con sé non solo benefici ma anche rischi, ecc. – sono immediatamente filtrati dalla funzione alfa del potere, che crea pittogrammi e sequenze narrative accuratamente preconfezionate (cioè pre-montate intenzionalmente da una regia esterna); se insomma vediamo un po’ tutti il medesimo film che racconta la realtà secondo le direttive del pensiero unico (quello neoliberista al servizio del tecno-capitalismo), come potremo sognare creativamente la realtà, mettere in discussione i codici dominanti e le narrazioni mainstream? Non finiamo così per sognare sogni già sognati da altri?
I problemi epocali che stiamo vivendo – l’entrata della politica mondiale in una nuova e complessa fase multipolare, l’emergenza climatica e ambientale già oltre i livelli di guardia, la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri, l’epidemia del disagio esistenziale e delle malattie mentali, la difficile domesticazione delle tecnologie digitali che stanno alterando i nostri modi di vivere, pensare, emozionarci – non richiedono forse lo sviluppo di una creatività inedita? Non abbiamo bisogno di un pensiero intuitivo e complesso che faccia fronte alla tempesta che si profila all’orizzonte? Non sono semplicemente le ideologie, con le loro grandi narrazioni, ad essere morte. È la capacità collettiva di sognare che risulta profondamente inibita, mentre quasi ovunque si afferma l’unica narrazione consentita (quella del totalitarismo economico e tecnoscientifico: esito ultimo del progetto modernista). Questa resa diffusa – sintetizzata dall’introiezione del veleno “TINA” Thereis no alternative – è dovuta a mille motivi “strutturali” e di “classe”, ma non possiamo trascurare la conquista dell’immaginario collettivo come banco di prova per qualsiasi potere che ambisca non solo a dominare, ma a farsi desiderare. L’immaginario, diversamente da quanto credettero i marxisti ortodossi, è intensamente e immediatamente produttivo. Esso veicola e riproduce, in ogni mondo umano, le logiche culturali che lo sorreggono. Attraverso le immagini si mobilitano aspirazioni, valori, emozioni, difese psicologiche più o meno arcaiche. Ecco perché dobbiamo aver cura del pensiero e conoscerne i funzionamenti di base.
L’educazione/formazione al linguaggio dei media, l’attenta analisi dei dispositivi di controllo istituiti dai centri di potere della società dello spettacolo, una produzione artistica gioiosamente critica, sono forme di azione politica tanto più necessarie per decolonizzare l’immaginario contemporaneo e, su un piano psicologico, liberare la funzione alfa e il pensiero onirico dai codici culturali che li mettono subito al servizio dell’accumulazione economica, del conformismo di massa, del consumismo, del culto della forza e della competizione. Una rivoluzione culturale, che preceda e affianchi la resistenza quotidiana al tecno-capitalismo e alla sua necropolitica, non può che operare là dove l’inconscio costruisce le sue matrici di comprensione e creazione del reale, dove maturano scenari alternativi a quelli già dati. Ecco perché la lotta per la democratizzazione del web e degli spazi televisivi, insieme a un ripensamento accurato del nostro modo di abitare l’era digitale, rappresentano gli avamposti per mettere in discussione il discorso dominante, quel “discorso del capitalista” che Lacan riconobbe come intriso di implicazioni psichiche profonde e pervasive.
Di queste pieghe politiche chi legge non troverà alcuna traccia nell’interessante volume di Ferro, il quale – preferendo restare dentro il recinto del ruolo professionale – insiste nel rimarcare che l’unica realtà a cui si interessa la psicoanalisi è quella emergente nel campo psichico che, durante la seduta terapeutica, si sviluppa a partire dalle interazioni tra paziente e analista. La realtà esterna, quella storica, materiale e spirituale, va lasciata fuori dal setting perché, in fondo, la psicoanalisi è e deve restare semplicemente una cura della sofferenza psichica. Da anni, invece, coltivo con altri l’idea che la psicoanalisi offra strumenti di comprensione interessanti e fecondi anche per chi sogna (appunto) una cura della vita collettiva, una terapia per il nostro immaginario maniaco-depressivo, uno stimolo per trasformare – con l’aiuto della filosofia, della spiritualità non dogmatica, delle arti, della politica e delle altre scienze – i nostri stili di vita e di pensiero al crocevia tra vita del singolo e della comunità.
Voglio concludere queste riflessioni, inevitabilmente acerbe, con una frase che mi è rimasta impressa, marcata a fuoco nella memoria. L’ho vista alcuni anni fa su un muro di città. Una mano sconosciuta aveva lasciato in eredità ai cittadini distratti questa dicitura, breve e performativa:“Create più che potete!”. Mi pare ancora oggi lo slogan politico più bello e significativo che abbia avuto modo di leggere. Per creare dobbiamo fidarci delle nostre risorse più nascoste, armonizzare coscienza e inconscio, sognare la realtà nonostante la sua brutalità. Per farlo, però, non lasciamo che siano gli altri a scegliere i “mattoncini” al posto nostro e a fare per noi il lavoro di “montaggio”. Le sfide dei prossimi trent’anni hanno bisogno di registi, attori e sceneggiatori più coraggiosi, ma soprattutto di un pensiero all’altezza della transizione che ci aspetta. La battaglia, quella vera, non si gioca tanto nelle sezioni di partito, e ancor meno nelle adunate virtuali 2.0, ma là dove individui, coppie, famiglie e collettivi lavorano per riconoscere le emozioni del proprio tempo e per imparare a trasformarle consapevolmente.
* Paolo Bartolini, analista biografico a orientamento filosofico, formatore, collaboratore di Megachip.