‘
di Daniela Boi.
Ero una bambina quando nel 1979 vidi per caso un video trasmesso da una tv locale.
Si chiamava “DJâ€: nel video un uomo in impermeabile dalla figura androgina, affascinante ma allo stesso tempo enigmatica, quasi indecifrabile, cantava “I am a DJ, I am what I playâ€. Sono un DJ, sono quello che suono.
Non sapevo niente di chi fosse quell’uomo, né della sua fama planetaria o delle sue mirabolanti e trasformistiche identità precedenti, da Ziggy Stardust a Aladdin Sane sino al Thin White Duke. Tutte cose che avrei scoperto più avanti, nel tempo.
Ma ricordo bene che rimasi folgorata all”istante, quasi turbata, da quella figura così carismatica.
Poi venne l’adolescenza, gli anni ’80, erano gli anni del post punk e della new wave: i Joy Division, i New Order, i Depeche Mode, i Cure, i Japan. Erano anche gli anni dei Duran Duran e degli Spandau Ballet.
Poi arrivarono gli anni ’90 con il loro carico dirompente: i Nirvana, i Radiohead, i Nine Inch Nails. E dopo ancora i fantomatici anni Zero e gli asettici anni Dieci.
Eppure, in tutti gli anni trascorsi dopo quel primo incontro, lui è stato sempre presente, e tutto ciò che è venuto (mi) ha sempre, in qualche modo, riportato inevitabilmente a lui.
Oppure, più semplicemente, tutto è stato plasmato da lui?
Grazie di tutto, David.
[GotoHome_Torna alla Home Page]‘