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Giovanni Arrighi e l'eterno ritorno del Capitale

Crisi, capitalismo e finanza, sono termini che devono essere tratti fuori da quello stato di invisibilità dovuto alla “troppa visibilità”. [Fabio Milazzo]

Giovanni Arrighi e l'eterno ritorno del Capitale
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22 Settembre 2013 - 08.53


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di Fabio Milazzo I Cicli di accumulazione del Capitale.

“Crisi” è uno di quei termini che quotidianamente vengono fatti rimbombare nelle nostre orecchie e che, proprio per questo, spesso diventano “impercettibili” alle nostre strutture cognitive. Assumendo lo statuto di “rumore di fondo” non li si discrimina più percettivamente e cognitivamente.

Porre sotto attenzione questo “silenzio del rumore” equivale a significarlo, a riscoprirlo, ad indagarlo nelle sue componenti troppo spesso celate nelle pieghe dell’abitudine.

Crisi, capitalismo e finanza, sono termini che devono essere tratti fuori da quello stato di invisibilità dovuto alla “troppa visibilità”. Al pari della “lettera” di E.A. Poe queste parole ci si celano proprio perché ci stanno sempre davanti.

Quando Giovanni Arrighi (foto), per anni docente di sociologia alla prestigiosa Johns Hopkins University di Baltimora, iniziò ad indagare l’oggetto “crisi economica”, le sue lenti di osservazione si diressero verso la stasi degli anni 70; questo nella consapevolezza che la comprensione del fenomeno passasse per un’analitica di ampio respiro che traesse fuori l’evento dalla contingenza per relazionarlo alla congiuntura di riferimento, quella del “lungo secolo XX”.

La crisi veniva percepita come: “il terzo e conclusivo momento di un singolo processo storico, definito dall’ascesa, dalla piena espansione e dal declino del sistema statunitense di accumulazione del capitale su scala mondiale.”(Arrighi 2003, p.9)

Un ciclo di sviluppo sul medio-lungo periodo destinato ad una implosione immediatamente preceduta da un periodo di “accumulazione finanziaria“. Quest’ultima fase si delineò chiaramente durante l’età del “Presidente attore”, Reagan.

Arrighi, facendo sua la lezione Braudeliana contenuta nei tre volumi di [i]Civilisation matérielle[/i], comprese che la finanziarizzazione del capitale non era una delle possibili soluzioni all’impasse economica degli anni 70 ma il suo esito scontato, così come avvenuto più volte in passato allorquando si delineava una ristrutturazione del ciclo. Il capitale finanziario segnala la transizione da un “regime di accumulazione su scala mondiale ad un altro.” (Arrighi 2003, p.10)

La ormai “classica” ricostruzione di Giovanni Arrighi, docente presso il Dipartimento di Sociologia di Baltimora, sviluppata nel fortunatissimo (e troppo poco letto) [i]Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo[/i] (Il Saggiatore 2003), individua 3 fasi utili per spiegare le dinamiche entro le quali si situano le crisi economiche novecentesche:

1) una prima fase, situata alla fine del XIX secolo coincide con il passaggio di supremazia dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti post Guerra di Secessione;

2) una seconda fase, successiva al secondo conflitto mondiale, contraddistinto dall’espansione dei commerci e dalla conseguente accumulazione capitalistica;

3) una terza fase, contraddistinta dal “capitale finanziario” in cui si dovrebbe definire la transizione ad un nuovo “stato di cose”.

L’espansione finanziaria, con il prevalere dei flussi virtuali di denaro cartolarizzato, a noi così tristemente attuale, rappresenterebbe non il momento eccezionale di un sisma che richiede costruzioni solide in grado di sopportare l’urto ma la normale fase di accumulazione finanziaria alla fine di quello che Arrighi ha definito un “ciclo sistemico di accumulazione”.

Le attuali politiche di austerity, imposte dai tecnocrati bocconiani in Italia, non hanno, in tale ottica, alcun senso, visto che, secondo quest’ipotesi, siamo ad un passaggio di rotta: obbligato, necessario, strutturale.

Non ha senso in una prospettiva di longue durée, lo ha in ordine al progetto di congelare i rapporti di forza strutturati in questo ciclo sistemico. In altre parole ciò che le attuali politiche economiche vogliono ottenere è l’ibernazione dell’insieme delle relazioni di potere così come si sono strutturate in questo ciclo. È un tentativo disperato, perpetrato a spese delle conquiste sociali degli ultimi due secoli, di salvaguardare un certo ordine.

Stiamo attenti: il problema non è quindi economico, non si tratta del capitalismo in quanto tale (qualsiasi cosa sia ha molto probabilmente i “secoli contati” per rubare la battuta di Ruffolo), oggetto dalla fisionomia vaga, quasi trascendente, ma politico, e quindi economico, solo che riguarda un ambito che non è più quello del governo degli stati ma della gestione del “sistema mondo”.

La tesi che anima Arrighi nel “Lungo XX secolo” è che “nella storia dell’economia-mondo capitalista, i lunghi periodi di crisi, ristrutturazione e riorganizzazione – in breve, di cambiamento discontinuo – sono stati molto più comuni dei brevi momenti di espansione generalizzata lungo un ben definito percorso di sviluppo […]” (Arrighi 2003, p. 17).

Sono fasi che preparano “trasformazioni nell’organizzazione dei processi di produzione e di scambio” (p. 18). Senza peccare di faciloneria interpretativa direi, sulla scia di diversi autori (cfr. Sassen , The mobility of labor and capital: a study in international investment and labor flow, 1988), che la crisi è strutturale.

Queste trasformazioni ci sono sempre state, fanno parte della geometria del capitalismo fin dai suoi albori. Arrighi, hegelianamente diremmo, non sottolinea il contenuto contingente, storico, delle diverse crisi ma la struttura logica entro la quale queste (crisi) si ripropongono con cadenze ripetitive: un eterno ritorno dell’uguale.

David Harvey, per molti versi situa le proprie analitiche interpretative (cfr. D.Harvey, La crisi della modernità, Il saggiatore 1993, p.213 e segg.) nell’orbita Braudeliana ma si concentra maggiormente sul carattere epocale delle trasformazioni attuali così come sviluppatesi a partire dagli anni 70 del XX° secolo.

Egli ritiene che da quel momento si sono poste in essere le linee guida di una transizione dal fordismo-keynesismo a una galassia “nuova” che concettualizza con il sintagma “accumulazione-flessibile”: una sorta di dimensione fluida, sviluppatasi per superare l’impasse causata dalla rigidità del sistema anglo-americano. Questo, negli anni 70, non riusciva più a districarsi tra le tendenze inflazionistiche e le fughe di capitali verso lidi sempre meno identificabili, verso mercati finanziari non soggetti alle geometrie delle consolidate relazioni di potere. Da qui la necessità di trasformare il mercato facendolo veramente globale, in termini di coordinamento finanziario entro un “regime emergente di accumulazione-flessibile”(Harvey 1993, pp. 235-245).

In altre parole, secondo Harvey, il regime di “accumulazione flessibile”, è la soluzione che gli attori politico-finanziari hanno escogitato per oltrepassare le rigidità di una crisi strutturale che rischiava di far collassare un certo “ordine delle cose”. Banalizzando direi che è stata la soluzione pensata globalmente per risolvere i problemi in cui si era inceppato il regime di accumulazione anglo-americano. Questa soluzione, ridefinire globalmente il capitalismo impedendo la transizione verso nuove contingenze politico-finanziarie, è il classico “coniglio estratto dal cilindro” dell’Impero (nel senso di Negri & Hardt di commistione di un certo numero di poteri politico-finanziari).

Arrighi, pur ritenendo interessanti le tesi di Harvey, è molto più prudente, in questo diremmo che il suo senso storico è più affinato e lo rende meno disposto alle predizioni. Ricollegandosi alla lezione Braudeliana sostiene che analizzando il lungo periodo, estendendo l’orizzonte spazio-temporale, le “tendenze che apparivano originali e imprevedibili cominciano ad apparire familiari” (Arrighi 2003, p.21).

L’argomento centrale che anima le analisi di “Nanni” Arrighi è che il capitalismo ha una logica, per diversi aspetti individuabile, incentrata su due elementi: “plasticità” ed “eclettismo”. Sono queste due caratteristiche ad organizzare il percorso evolutivo del capitalismo al di là della sua concretizzazione contingente. Detto diversamente: il capitalismo è flessibile in quanto tale; mutano le contingenze non la logica dell’accumulazione, sia che questa risulti essere il frutto della finanziarizzazione della rendita virtuale, sia che risulti essere il risultato di politiche coordinate di produzione industriale (nel senso ampio).

In alcune fasi il capitalismo si specializza e produce ricchezza attraverso “macchine e dispositivi” ben individuabili; in altre si oblia e la ricchezza diventa allora invisibile, frutto di un’effervescenza finanziaria che, lungi dal rappresentare una semplice flessione del sistema, lo esalta determinando quelle fasi di espansione finanziarie in cui il denaro produce immediatamente, senza passare attraverso la mediazione della merce. È come se in questi “momenti” le possibilità di scelta del capitalismo fossero più ampie, flessibili, plastiche, meno vincolate dalle costrizioni produttive delle merci e dalla loro necessaria allocazione.

Il caso attuale dei mutui e dei finanziamenti “tossici”, in grado di produrre ricchezza sonante attraverso il filtro del “debito”, rientra pienamente in queste dinamiche. Non un momento di debolezza della costellazione di poteri che regge la fase capitalistica, quanto il ricorrente sviluppo legato ad un consolidamento dei rapporti di forze.

Arrighi riporta i casi, ormai classici, di Genova, dell’Olanda e dell’Inghilterra. I primi nel corso del XVI secolo divennero i banchieri dei sovrani spagnoli (in verità non da soli) abbandonando quelle rotte commerciali tanto battute nei due secoli precedenti e sostituendo, nel processo di accumulazione, le merci con il debito.

Gli olandesi fecero lo stesso e nel XVIII secolo divennero i “banchieri d’Europa”. Gli inglesi, alla fine dell’età Vittoriana, ripercorsero le stesse strade investendo in prestiti le ricchezze accumulate grazie al proprio Impero coloniale. L’analisi storica di Braudel (Civiltà materiale, economia e capitalismo, vol 3, pp.230-240) ripresa da Arrighi, mostra il ripetersi secondo schemi consolidati di un’avventura in cui mutano gli attori in campo non le logiche soggiacenti.

Il discorso di Arrighi non vuole essere un semplice resoconto di un dipanarsi consolidato, quanto un’analitica tendente a portare ala luce quel “rimosso” organizzante le logiche dell’inconscio capitalista. Il fine è quello di valutare le eventuali peculiarità di una fase, quella attuale, per molti versi simile, per altri forse unica, della storia pluri-secolare del capitalismo.

In ragione di ciò, mi sembra particolarmente interessante sottolineare l’uso che Arrighi stesso fa della nota formula marxiana D-M-D+; questa non viene legata soltanto al percorso di accumulazione mediato dalla produzione di merce ma alla logica globale del ciclo sistemico. Una serie costituita da segmenti spazio-temporali in cui prevale una modalità di accumulazione piuttosto che un’altra.

Nella fase D-M il capitale serve alla produzione di merce che a sua volta determina l’arricchimento degli “agenti del capitale”. Nella fase M-D+, o sarebbe meglio dire D-D+, la merce è soltanto il punto di partenza per un arricchimento dovuto a “forme più flessibili di capitale” che fanno a meno delle merci stesse e tendono a trarre ricchezza dal denaro attraverso gli investimenti finanziari. L’insieme dei momenti costituisce un “ciclo sistemico di occupazione” come Arrighi afferma nell’introduzione del suo “Lungo XX secolo” (p. 23).

Quanto detto dovrebbe aver chiarito almeno 3 elementi:

1) Il ciclo sistemico non è un costrutto empirico ma uno strumento analitico che fa riferimento alla struttura formale entro la quale si sviluppa il capitalismo; non riguarda le forme contingenti che assume (il capitalismo) nel suo darsi storico.

2) Ogni ciclo ha una durata variabile; i casi assurti a paradigma, Genova, Olanda e Inghilterra si dipanano su un “lungo secolo”: il XVI, il XVII, etc.

3) Le fasi che costituiscono il ciclo sono ricorrenti; si transita da una all’altra nel momento in cui una modalità di creazione di ricchezza non assolve più il proprio compito (espansione materiale delle merci o finanziarizzazione).

L’edificio di Braudel.

Il capitalismo, secondo Braudel, è un sistema complesso organizzato su tre macro-livelli:

1) quello sotterraneo dei bisogni primari e della vita materiale;

2) quello ulteriore dell’economia di mercato, caratterizzato da un certo meccanicismo tra domanda e offerta, costi, prezzi;

3) il livello superiore del contromercato, lo spazio “senza regole” entro cui si determinano le fisionomie e il darsi delle contingenze dei piani inferiori. Ciò che veramente plasma l’economia-mondo avviene in quest’ultimo piano che è anche quello entro cui si organizzano le costellazioni cui facevo riferimento.

Ogni transizione da un ciclo all’altro avviene allorquando mutano i rapporti di forza tra i poteri politico-economici che detenevano le “chiavi d’accesso” a questo piano superiore, banalmente diremmo a questa “stanza dei bottoni”.

Braudel, nei tre volumi della Civiltà, chiarì che ciò che contraddistingue un ciclo capitalistico è la produzione di ricchezza, al di là delle modalità contingenti attraverso le quali ciò avviene. L’accumulazione del capitale si sviluppa per mezzo di strategie flessibili che si originano creativamente nel momento in cui una certa forma di incremento della ricchezza non riesce a garantire il saggio di arricchimento. Lo ribadiamo: la produzione industriale, il commercio o la rendita finanziaria attraverso flussi di ricchezza virtuale sono equivalenti per tale ottica, ciò che si sviluppa, in forme continue, è l’insieme economia-mondo. Il sistema muta per essenza avendo come unico fine l’arricchimento.

Sorpassiamo le ovvie, possibili, considerazioni sulla validità di un sistema che ontologicamente manca di un’anima identificabile e che ha un solo movente, al pari della “volontà” Schophenhauriana, la perpetuazione di se stesso. La metastasi capitalista si estende senza una meta prefissata con l’unico fine della riproduzione indefinita attraverso l’accumulazione.

Per evitare una possibile lettura banalizzante del processo dobbiamo sottolineare che le modalità di sviluppo del ciclo vengono organizzate, entro una certa misura, da costellazioni di potere flessibili. Ciò che importa è la cristallizzazione di una galassia di relazioni tra il potere economico e quello politico. La particolarità dell’analisi braudeliana, ripresa e fatta propria da Arrighi, consiste nel non porre politica ed economia in antitesi ma nel sottolinearne la complementarità: l’economia-mondo si sviluppa grazie alle strategie poste in essere da questi due poli dialettici. La sintesi, diremmo hegelianamente, è l’arricchimento. Contrariamente a tante tesi progressiste attuali, la crisi non è la conseguenza della latitanza della politica, quanto il segnale di un riuscito coordinamento tra forme di potere diverse ma necessarie le une alle altre.

Crescita, sviluppo, splendore e implosione preceduta da una Belle Epoque contraddistinta da accumulazione finanziaria. Queste le tappe ricorrenti della logica del capitalismo secondo “Nanni” Arrighi. Così è avvenuto per le Province Unite nel XVII-XVIII secolo, per l’Inghilterra nel XVIII-XX secolo e, in misura meno chiara, per le “repubbliche” genovese e veneziana agli albori del capitalismo, secondo la descrizione sviluppata ne “Il lungo XX secolo”.

Gli USA, la potenza dominante dell’ultimo ciclo del capitalismo globale, “stazionerebbero” nella fase di “accumulazione” pre-implosione, una sorta di “colpo di coda” annunciante la “fine”.

L’interrogativo che si pone riguarda, però, nell’attuale economia-mondo, la possibilità che una nuova costellazione di poteri raggiunga quel livello entro il quale si determina la fisionomia del ciclo successivo. In questo stato di cose è pensabile che la crisi determini un nuovo assetto geo-politico-economico?

Queste domande vennero proposte da “Nanni” negli ultimi lavori pubblicati prima della scomparsa, soprattutto in [b]Adam Smith a Pechino[/b] (Feltrinelli), un testo lucido, chiaro e preveggente. Qui Arrighi mostra alcune “contingenze obbligate” del capitalismo: necessità strutturale delle crisi, ruolo della “guerra”, della “carta-moneta” e prospettive sul futuro. Direzioni obbligate che, insieme al concetto “Gramsciano” di “Egemonia“, declinato secondo l’accezione privilegiante il ruolo culturale svolto dalla “nazione dominante” il ciclo capitalista, gli sembravano tendere verso l’Asia cinese.

Se la comunità guida della fase capitalista in atto non deve il proprio ruolo soltanto alla forza militare ma anche, e soprattutto, alla capacità di “significante Maestro” (per dirla con Lacan) rivestita all’interno della società globale, il successo dello “spirito” orientale deve significare qualcosa.

Attualmente gli USA non avrebbero più questa “egemonia” culturale, ma manterrebbero “soltanto” quella militare. Una forza che non è più capace di convincere, che non è più capace di offrirsi come punto di riferimento. Questo, forse, il segnale più chiaro dell’imminente sostituzione di quella che potremmo definire una “costellazione sistemica” con un’altra “guidata” da un’altra “potenza”?

Una realtà asiatica si chiedeva retoricamente prima di morire Arrighi?

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Bibliografia

G.Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 2003.

G.Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008.

G.Arrighi, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2006

F.Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Einaudi, Torino 1987.

D.Harvey, La crisi della modernità, Il saggiatore, mIlano 1993.

D.Harvey, Breve storia del neoliberismo, Feltrinelli, Milano 2007.

S.Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Piccola Biblioteca Enaudi, Torino, 2008.

C.Tilly, Conflitto e democrazia in Europa, Bruno Mondadori, Milano2007.

V.Castronovo, Le rivoluzioni del capitalismo, Laterza,Roma-Ba 1996.

T.Negri-M.Hardt, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002.

T.Negri-M-Hardt, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004.

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