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Non agire, pensa!

«È ora che diventi complesso anche il nostro pensiero perché possa comprendere in che tempi siamo capitati...» [Pier Luigi Fagan]

Non agire, pensa!
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21 Dicembre 2013 - 15.27


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di Pier Luigi Fagan

Non agire, pensa! Questo è l’invito categorico del torrenziale ed ubiquo S. Zizek [i]vedi video in fondo all”articolo[/i], che citiamo non per generale prossimità di pensiero con la philostar slovena, ma per correttezza di attribuzione dell’esortazione, che invece condividiamo tanto da volerci scrivere su un articolo.

Questo invito altro non è che un richiamo, un richiamo alla natura umana la quale ha la sua essenza (il punto proprio che la differenzia dalle altre forme naturali) in questa facoltà che potremmo chiamare “pensare al fare prima di farlo” o autocoscienza.

L’ultima volta che la riflessione filosofica si occupò dell’autocoscienza, in forma estesa, ovvero nell’estensione della sua relazione col Mondo, fu più centocinquanta anni fa, con G.W.F. Hegel. Questo coincise con un turning point della vicenda filosofica occidentale, che da quel momento in poi, si inabissò perdendo di vista questo argomento, il suo portatore (l’uomo interamente inteso) ed il motivo per cui ne è portatore (la relazione col Mondo).

Perché accadde? Perché l’attività umana di riflessione sul generale, divenne sempre più particolare e perché cominciò anche a teorizzare di sé, il divieto alle formulazioni generali ossia sistemiche, quasi che il contatto col Tutto potesse diventare come il contatto con una antimateria che annichiliva la consistenza del pensiero?

La nostra ipotesi è che si trattò di un momentaneo fallimento adattivo tra la funzione pensante riflettente che sommava, anzi sottraeva una forza ad una debolezza, e l’oggetto del suo riflettere, il Mondo. Un mondo (il maiuscolo è per il concetto, il minuscolo per l’oggetto in quanto tale) che, proprio a metà del XIX° secolo, iniziò la scalata di una impennata di complessità senza alcun precedente.

Se la complessità è, in prima istanza, la quantità di cose e la quantità e qualità delle loro interrelazioni, proprio nel XIX° secolo si andava producendo quell’inizio di massima inflazione di complessità, che è l’essenza propria dei tempi che ci è toccato in sorte di vivere. Tempi nei quali ci sentiamo smarriti, proprio perché non li capiamo e non li capiamo proprio perché la funzione riflettente (che poi è la filosofia) che dovrebbe comprenderli (com-prendere, prendere assieme nella loro interezza) ha avuto quel collasso adattivo che abbiamo posto in ipotetica tesi. Vediamo allora più da vicino quali debolezze e quali forze si sono scontrate nella vicenda filosofica, cominciando dalle forze.

Una forza ha agito nel pensiero, l’altra nel Mondo.

La forza del pensiero fu la scienza, la scienza che cominciò ad influire sull’agire sul Mondo era la tecnica.

La cosa origina dal XV° secolo e quindi, differentemente da come viene in genere raccontata anteponendo il pensiero (la scienza), all’azione (la tecnica), in realtà successe l’esatto contrario. Così in un ambiente ancora pre-scientifico, ad acerbe nozioni di medicina (alle prese con i devastanti effetti delle epidemie), di chimica (ai tempi talmente misteriose da esser ancora intrecciate con la filosofia, nell’alchimia) e di meccanica empirica (il macchinismo del ‘400), seguì un prodotto tecnico-ottico. Il che è anche una riconferma dell’antica parentela tra “vedere” e conoscere.

L’ottica aveva una ragion pratica e nell’ottica stessa si può osservare, il sorgere di quella relazione intrecciata tra una specie di pensiero (quello tecnico-scientifico) ed una specie di agire (quello economico) che sarà poi la seconda forza, quella che cominciò ad agire sul Mondo. Galileo era assai curioso di ciò che Kepler, Brahe e Kopernik stavano facendo e si noti che i tre erano tutti nord-europei che si avvalevano di quei nuovi prodigi dell’ottica che venivano prodotti dall’artigianato olandese fiorente intorno al porto di Amsterdam.

Amsterdam era il punto dal quale originava l’allora grande flotta della nascente potenza commerciale olandese, flotta che girovagando per coste sconosciute, osservava col cannocchiale i possibili approdi. Galileo si costruì il “suo” cannocchiale e lo rivolse lì dove non doveva perché era lì dove c’era Dio. Ne nacque il famoso problema del processo, della forzata abiura dell’evidenza, dei “domiciliari”, ma anche la prima riflessione su ciò che si era riflesso nelle lenti del cannocchiale. Nasceva così la scienza moderna. Poi arrivò Newton che sta alla scienza occidentale come Platone sta alla filosofia e da lì la vicenda scientifica si diffonde nel suo albero che proprio nel XIX° secolo arriva ad una “esplosione di conoscenze”.

La seconda forza, quella dell’agire pratico sul Mondo, fu l’economia moderna. Nata in Italia, dall’Italia dovette presto migrare perché ancora infante, venne repressa dalle condizioni culturali e politiche, imposta dalla Chiesa, ovvero dalla istituzione della ragion pratica, della ragion pura religiosa. Quando oggi ci si rallegra del fatto che il Papa si scagli con lucida ragione contro i danni ed i misfatti del capitalismo, si deve ricordare che il secondo è ciò che ha tolto la sovranità ordinativa del primo, ciò che creò la transizione tra Modernità e Medioevo. Certe cose, “loro”, non le dimenticano, essendo l’istituzione con la più lunga memoria storica al mondo.

Questo nuovo modo di stare al mondo, producendo e scambiando cose e servizi, più o meno utili alla vita individuale e collettiva, non era in sé, un modo nuovo. “Nuovo” era il ruolo che andava assumendo nella vita sociale e politica delle varie comunità, nei casi francesi, inglesi e spagnolo, organizzato in nazioni. Assunse infatti quel ruolo che nell’epoca precedente, il Medioevo, era svolto dalla religione, il ruolo di ordinatore, ordinatore di tutti gli altri principi (politico-militare-culturale-sociale-religioso).

La cosa avvenne proprio ad Amsterdam (a Genova, Venezia, nella Lega dell’Hansa baltica) per la prima volta ma quando passò da città a stati, da Amsterdam all’Inghilterra, per la prima legge del bistratto materialismo dialettico del povero Engels ovvero per il fatto che diverse quantità generano nuovi stati qualitativi (poi divenuta, anche e non solo, la legge dei “quanti” di Plank in fisica, la dinamica che porta i salti di stato tra scienza normale e scienza rivoluzionaria in T. Kuhn e la legge dell’evoluzione punteggiata nella paleontologia di S. J. Gould, conosciuta nel senso comune anche come “goccia che fa traboccare il vaso”), divenne un nuovo “sistema”.

Quel sistema che impropriamente chiamiamo “capitalismo”, impropriamente perché non è la sua regola interna a generarne l’essenza, ma la posizione che assume nel sistema generale del vivere umano associato. Quando Hegel dice che il vero e l’intero dice che è l’intero umano associato che dovremmo guardare per capire cosa portò una componente a scalzare il ruolo ordinativo della precedente ed assumere la funzione di nuovo perno e guida dell’intero sistema.

La ragione di questa novità non proviene dall’interno del principio ma dalla sua relazione con tutti gli altri e dalla relazione che i sistemi umani nazionali cominciarono ad avere tra loro in Europa e come Europa vs il mondo. Per questo motivo è molto improbabile che sia un economista, oggi, a dirci cosa sta succedendo, perché dall’interno del suo sistema egli vede solo ciò che lì dentro si riflette, non vede ciò che da fuori, modifica il suo sistema, la causa o cause gli rimangono ignote quali ignote erano le cause delle eclissi di sole per le culture che guardavano il mondo con le lenti del mito, visto che l’ottica scientifica non era ancora nata. Cause ignote portano a false attribuzioni di causa e queste mantengono ignote le cause reali.

Ma torniamo al nostro turning point. La forza pratica dell’agire economico ormai pervadeva la regolazione sia sociale, sia politica dell’umano vivere associato del XIX° secolo. Resistevano l’ Italia che era frantumata in costellazioni post-medioevali mantenute in vita dallo Stato Pontificio come ultima trincea resistente il nuovo modo di stare al mondo e resisteva la Germania, similmente frazionata in una quarantina di stati debolmente confederati, all’ombra di una potenza calante (l’Austria-Ungheria) ed una nascente (la Prussia), che al riparo dal capitalismo stato-nazionale, divenne culla dell’ultimo rinascimento filosofico propriamente detto, l’Idealismo-romantico.

Dopo, la ragion pratica del nascente capitalismo tedesco, creò la moneta comune (Vereinstaler) e poi un mercato comune (Zollverein). Poi capì che i sistemi non si fanno partendo dalle monete e dai mercati e fecero lo stato – nazione tedesco, un soggetto che non a caso gli altri europei avevano fatto di tutto perché non si formasse. La forma, non stato-nazionale di Italia e Germania ci dice quanto questa forma sia precondizione necessaria per la piena forma di ciò che chiamiamo “capitalismo”.

A dispetto infatti della descrizione di sistema che ne danno i cantori (i liberali) e i critici ufficiali (i marxisti), il sistema in oggetto è politico-economico, la questione economica è necessaria ma non sufficiente, la condizione sufficiente è quella politica. L’umano vivere associato quindi, divenne sempre più ordinato dall’agire economico a sua volta connesso con l’agire politico, mentre la comprensione del mondo era affidata alla scienza.

La filosofia capì sempre meno di economia, di politica, di Mondo e rimase ammutolita ed impotente non capendo l’Impero, non capendo le nuove stato-nazionalità, non capendo la Prima guerra mondiale, lo shock degli anni ’30, la Seconda guerra mondiale, si meravigliò e si autoaccusò in un momento di rara lucidità riflessiva sul come era potuta accadere una cosa come Auschwitz (Adorno), poi continuò a non capire i boom post-bellici e tutto ciò che conseguì. Il pensiero occidentale si fratturò lungo lo stretto che divide gli anglosassoni dai continentali. I primi a rincorrere la scienza, i secondi ad interrogarsi sull’ombelico. La filosofia perse la sua ragione, il vero (ipotetico), perché non più in grado di com-prendere l’Intero.

A questa perdita dell’Intero diede un grande contributo la speciazione scientifica, un sapere che si rese competitivo ed assai più efficace di quello filosofico. Certo intrecciato con la ragion pratica economica, ma dotato realmente, di enormi capacità di comprensione ravvicinata delle cose che sono, della loro “oggettività”. Questa vicinanza alle cose portava due effetti: il primo era la sufficiente certezza, l’oggettivo (il certo, il vero); il secondo al frazionamento del sapere le cose, un sapere che posto al seguito di tanti e diversi oggetti ne rifletteva la molteplicità in un sapere tanto e diverso, diviso in discipline sempre più ravvicinate (specialismi) accumunate solo da un metodo (per altro non poi così “unico” come si sostenne). Massima intensione, minima estensione. La cosa poi mimava l’efficienza della divisione del lavoro che razionalizzava la ragion economica e quindi si appoggiava anche all’effetto “imitazione di ciò che funziona”.

Insomma, il modo di stare al mondo politico-economico funzionava, il sapere il mondo non nel suo vago intero, ma nel suo specifico molteplice concreto, funzionava. Funzionava al punto da divenire paradigma della conoscenza, talmente attrattivo da succhiare alla filosofia, come la stella più densa fa con quella meno densa nei sistemi stellari binari, tutti i saperi non solo del mondo naturale, ma anche di quello umano. Una lunga bava scintillante di energia intellettuale, abbandonò la astratta vaghezza filosofica attratta dalle magnetiche certezze della Scienza (qui, come concetto): psicologia, sociologia, pedagogia, antropologia, archeologia, etnologia, economia, politica, linguistica, informazione etc., divennero “scienze umane”.

L’economia funzionava perché trasformava la nuova complessità del mondo in utilità per lo standard di vita occidentale, la politica funzionava perché garantiva all’economia le sue condizioni di possibilità e le imponeva con il fattore militare al mondo domandone la complessità. Funzionava la scienza non perché aiutasse a domare l’Intero complesso, tutt’altro, ma perché ne comprendeva le parti, in consonanza con i successi politico-economici che ordinavano il sistema. Un Intero che era sistema che funzionava e quindi non necessitava di alcuna riflessione.

Difficile districarsi nella relazione causa effetto tra queste due forze crescenti, la scienza-tecnica e la politica-economia e la descrescenza di pregnanza dello sguardo filosofico, capire chi o cosa causò cosa. Sta il fatto che la vicenda filosofica, culminò sincronicamente a queste ascensioni di potenza cognitiva e realizzativa, nell’ultima sfarzosa festa di corte dell’ aristocrazia del pensiero, come i Romanov fecero alla vigilia della Rivoluzione russa, ignari.

Il dipinto di questa “ultima festa prima della fine”, fine non già della Storia ma della Metafisica classica, fu l’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche di Hegel. Lì dove si compie l’ultimo tentativo sistemico di cercar di capire cos’è Io (la coscienza, l’autocoscienza), cos’è Mondo (la Storia, la Natura, il Diritto, la Religione, l’Arte etc.) e quali sono le loro interrelazioni (lo Spirito, per giunta “Assoluto”). Il tutto sovraordinato da una legge dell’io pensante e del Mondo (lo Spirito assoluto) che si riflette nel suo pensare che si diceva essere una “dialettica”, in versione trinitaria.

La vicenda filosofica arrivò a capire la natura del problema ma non capì il problema e pagò il fallimento che ovviamente è nella storia del pensiero precedente ad Hegel e di cui Hegel fu solo il prodotto maturo, un prodotto che intuì la forma del problema principale ma che fallì del tutto la sua com-prensione. Purtroppo, non solo ne fallì la comprensione, ma creando un assai presuntuoso sistema chiuso, omnicomprensivo ed omniesplicativo, creò una sorta di crisi di rigetto olistico non solo dei contenuti, ma anche della forma e del metodo.

Ne seguì l’invocazione al fare collettivo (Marx) ma senza ricette per le osterie dell’avvenire, cosa che poi venne scontata nel fallimento di coloro che provarono ad aprire quel tipo di osterie (un caso di fede nella razionalità di una Storia ordinata dalla meccanica dialettica, fede del tutto malriposta come verifichiamo da centocinquant’anni); alla potenza individuale (Nietzsche) ribelle ad ogni religione, soprattutto metafisica; al comprendersi delfico (“conosci te stesso” attualizzato da Freud nella vertiginosa vista della voragini interne all’Io) e tutta una serie di pensieri in ordine sparso, frammenti di riflessione, diaspora dell’autocoscienza frantumata, dall’esistenza al linguaggio, dalla logica all’interpretazione. Come disse Esenin al termine del suo pre-suicidio, reso poesia nell’[b]Uomo nero[/b] “…sono solo e lo specchio infranto”.

E il mondo?

Il mondo occidentale visse convinto di essere la regia dell’Esistente almeno fino a gli anni ’60. Poi si accorse non certo con profonda autocoscienza, vista la cecità provvisoria della sua facoltà di riflessione, del venire a trovarsi sempre più piccolo in un globale caotico ed imperiosamente crescente. Reagì come reagì il papato della Controriforma, non riflettendo il cambiamento su se stesso, ma continuando a fare in ogni modo possibile, sempre di più, sempre più ostinatamente ed a dispetto dei crescenti segnali di impossibilità concreta, quello che aveva sempre fatto nella Modernità, la lunga “golden age” dell’Occidente.

Inventò il capitale che crea se stesso (il capitale “autocosciente” che alcuni fedeli hegeliani chiamano infatti “capitalismo assoluto”, poiché il meccanismo di riproduzione è quel “causa sui” con cui si pensò Dio già nell’antichità) non potendo più far affidamento sulla vecchia versione. Quella in cui il capitale anticipa se stesso per attivare tramite l’idea, l’investimento ed il lavoro, cioè la produzione e scambio, la sua stessa riproduzione. Ma questa ultima invenzione tutt’ora in auge, ebbe a che fare più con i trucchi per coprire l’imbarazzo sulla non più completa efficienza ed efficacia del meccanismo idolatrato come “modo occidentale di stare al mondo”, che con l’adattamento sistemico alla nuova Grande Complessità.

Non avendo a fondo capito come e perché funzionava il meccanismo, quanto il meccanismo dipendesse da ingressi (di materie ed energie) e da uscite, entrambe sparse su tutto il globo asservito allo sfarzo della galassia centrale, non si capì che la non più centralità della galassia retroagiva sulla galassia stessa, sul suo sfarzo, sulla sua compattezza, sulle orbite di tutte le sue componenti, sul suo stesso “senso” o come si dice il filosofia: essenza.

Il “lungo addio” della Modernità che accompagna tristemente la perdita di senso dell’Occidente nato in una “Gloriosa rivoluzione” (Inghilterra 1688-89) e terminante in una lunga e dilaniante, ingloriosa involuzione, si riflette in un pensiero espresso con linguaggi sempre più oracolari od elitari (cosa meglio della “forma” per occultare l’assenza di “sostanza”?), in conventicole accademiche sempre più “scolastiche”, rigidità canoniche ed ortodosse accanto a liquidità indistinguibili (in cui non si riesce a distinguere acqua da acqua), denominazioni sempre più sconcertate che si appellano solo a ciò che non è più (i vari “post-qualsiasi-cosa” che sembrano gli unici abitanti di quello che ormai è il post-pensiero) e il sesto senso della fine di qualcosa-ma-non-saprei-bene-dire-cosa, gli “endismi” ovvero le annuncianti “fine” della storia, della verità, del senso, del linguaggio, dell’arte, della religione (questa magari era di moda nell’800, ora “guarda un po’” sembra tornare al grido-lamento di “solo un dio ci può salvare”), dell’uomo, del mondo, che campeggiano su copertine di libri che si ricorderanno per la loro inutilità irriflessiva, cronache del sentimento di paura e dispiacere per ciò che sta finendo. Non sappiamo bene cosa, come e quanto tempo impiegherà a finire, ma di certo sta finendo…

Che fare? Pensare!

Ci tocca ripensare tutto ed il Tutto. Ci tocca ripristinare l’unica funzione umana che ha dato l’essenza della specie, quel “pensiero che pensa se stesso” che Aristotele camuffò da definizione di dio e che Hegel osò come ultima definizione della filosofia stessa.

Il pensiero filosofico deve sforzarsi di reincorporare, quello che i pensieri specifici, scientifico-naturali e scientifico-umani, hanno pensato sull’Io, sul Mondo, sulla loro relazione. Rendere questi pensati dei concetti e trovarne la possibile relazione sistemica in un pensiero generale che funga da “voler essere” da cui scaturire il “dover fare” dell’azione politica.

Per conoscere l’Io, il Mondo, le loro interrelazioni, ci tocca ripensare l’Intero e lo stesso come pensiamo ciò che pensiamo. Non sarebbe male una veloce ed esplosiva purga scettica generalizzata (Sesto Empirico) che abbia in oggetto tutto e il suo contrario.

Forse dovremmo cominciare a criticare la stessa funzione critica, accorpare la diade Bene e Male con la quale abbiamo categorizzato il Mondo ed i nostri giudizi sino ad oggi. Se finisce il sistema occidentale, finisce anche la sua negazione determinata, non è meccanico che la fine della Tesi porti l’Antitesi a farsi razionale levatrice della Storia, perché di soluzioni propriamente dette, il passato secolo e mezzo di pensiero critico, ne ha pensate poche, a sprazzi e non coordinandole a sistema. Tant’è che la crisi del Grande Male (il capitalismo occidentale) non sta beneficiando affatto il Grande Bene (il comunismo? il socialismo?), da cui quel problema inverso malposto che traendo leggi dai fatti, sanziona ispirato “non c’è più (e quindi non deve esserci) la diade destra-sinistra”.

La crisi della politica è la mancanza dell’idea di un posto possibile, in cui portare le persone alla cui azione ci si appella. Fino a che non avremo una teoria compiuta di un nuovo modo di stare al mondo, possibile non solo per la ragion pura, ma soprattutto per quella pratica, l’unica politica sarà l’oscillazione tra cartelli del “contro”, cartelli del “pro” all’esistente magari da riformare-riformando-le riforme, nel mezzo di una generalizzata apatia involuta.

Ripensare tutto ed il Tutto implica nuovo metodo, nuove categorie e nuovi concetti, pensiero che recuperi anche metodi, categorie e concetti vecchi da assemblare però in nuovi sistemi in grado di pensare l’Intero. Ci serve un nuovo punto di vista, un nuovo “se” da cui trarre “allora” che non abbiamo ancora pensato.

Il candidato naturale al “se” da cui origina il pensiero ed un nuovo modo di pensare è la Complessità, il concetto lungamente rimosso. Rimosso dall’agire pratico politico-economico che ha allungato il tempo della nostra presa di coscienza poiché “funzionava”, rimosso dalla scienza dura e morbida che ha seguito le parti perdendosi il Tutto, concentrandosi sulle varietà a scapito delle relazioni, rimosso dalla cecità e dall’afasia di una autocoscienza filosofica che non essendo in grado di autoriformarsi, è finita al margine dell’utilità umana.

Una filosofia dell’avvenire, secondo chi scrive, dovrebbe dichiarare terminata la prima parte della filosofia occidentale iniziata da una dichiarazione di Platone “prima di affrontare i problemi grandi e difficili, bisogna risolvere quelli piccoli e facili” (Sofista, 218d, dichiarazione poi ripresa da Cartesio all’inizio della Modernità) e porsi il problema grande e difficile, che è quello che abbiamo e non comprendiamo: la complessità.

La specie si è fondata sull’autocoscienza per sviluppare quello straordinario adattamento che abbiamo scambiato per evoluzione, il mondo è diventato complesso, così l’Io e così le loro interrelazioni.

È ora che diventi complesso anche il nostro pensiero perché possa comprendere in che tempi siamo capitati e possa ordinarci, susseguenti soluzioni adattative. Prima di agire, pensiamoci! Solo il pensiero può salvarci…

Slavoj Zizek – No actúes. Solo piensa!

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