Io, non - io, perché proprio io?

'Il problema filosofico della conoscenza di sé dal razionalismo all''idealismo. [Sonia Caporossi]'

Io, non - io, perché proprio io?
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26 Dicembre 2014 - 22.53


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di Sonia Caporossi

Articolo precedentemente apparso su [url”Critica Impura”]criticaimpura.wordpress.com[/url] e in ebook su “Un Anno di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97.

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La conoscenza di sé, si dà per certo, è un impulso fra i più vivi dello schietto filosophein, fin dallo

gnòthi s’autòn socratico o pseudosocratico. Ex abrupto, problema non facile, corruccio umano che

specialmente dal Seicento all’Ottocento ha preso le variegate forme di un raziocinare in generale

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sul raziocinio in particolare, o anche, kantianamente, si è definito come indagine preferenziale sulla

primigenia istanza della possibilità di conoscenza in genere. La posizione criticista di Kant a questo

riguardo identificava, nella sua esigenza di analisi del sapere, l’anelito all’autoconoscenza a partire

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dal dato fondamentale della sua “rivoluzione copernicana” applicata all’Io, per cui esso, finalmente

e per la prima volta, com’è sempre stato detto con enunciati solenni e squilli di trombe, si trova al

centro del complesso sistema conoscitivo, come conoscente che non deve più adattarsi all’oggetto

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ma, al contrario, è quest’ultimo a doversi adattare agli schemi conoscitivi del soggetto

percipiente.

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Per il processarsi indefesso dello schematismo, che lavora per categorie e per giudizi, Kant

definisce chiaramente il presupposto fondamentale dell’atto conoscitivo: nessuna esperienza potrà

mai essere elaborata, attraverso le medesime categorie e giudizi, dalla nostra mente, se i dati che

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compongono la conoscenza sensibile non si trovano già predisposti, prima in senso logico e quindi,

anche, in senso cronologico, in essa.

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Per risolvere il difficile problema di che cosa sia, o in che cosa consista, questo fondamentale

basamento di senso assicurato, questo principio di determinazione cosciente che conforta il

crogiuolo dei nostri sensi percipienti dalla frammentazione schizofrenica della conoscenza del

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circostanziale circostante e, conseguentemente, dall’impietosa perdita di senso, Kant ricorre all’”Io

Penso”, ovvero alla coscienza e consapevolezza dell’atto conoscitivo; l’appercezione

trascendentale è questa coscienza garantita dal marchio di fabbrica del criticismo kantiano, che

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rende possibile la conoscenza ed il suo ordine intrinseco. E qui cominciano i primi dubbi.

A parte l’ovvia obiezione di ascendenza aristotelica, per la quale, se Kant mi dà un fondamento di

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“io penso” come base della coscienza, quell’”io penso” a sua volta dovrebbe poggiare, per avere

validità, su un altro pavimento, cotto o crudo che sia, come dire: su un altro “io penso”, aut aliud, e

così via all’infinito, in un regresso poco economico e, sinceramente, scomodo. Ma poi e per giunta, a

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ben vedere, sotto il sole di Königsberg non c’è neanche davvero nulla di nuovo.

Già per Renato Delle Carte, come sarebbe più opportuno traslitterare l’illustre geometra dell’

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intelletto francese, l’autocoscienza del “cogito, ergo sum” ci rendeva immediatamente certi dell’

esistenza dell’io cosciente, la res cogitans, ed in Cartesio l’anima cosciente era realtà diversa dal

suo contenuto, cioè dai processi che in essa hanno luogo. Inoltre, si potrebbe e dovrebbe notare l’

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insignificante particolare del fatto che, all’interno della formula “cogito, ergo sum”, la congiunzione

esplicativa ha un valore ben più profondo di quello semplicemente argomentativo – retorico. Essa in

realtà, per il valore semantico, per il senso del periodo insomma, potrebbe anche venire

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tranquillamente omessa. Nell’affermazione di una res cogitans che annuisce, che nega, che

condensa percezioni in forma disvelata, che, in un verbo solo, pensa, anche l’attività del sentire è

ricondotta giocoforza al pensiero stesso.

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In sostanza, per Des Cartes, la certezza della propria esistenza era riportata alla consapevolezza

dell’atto del pensare, proprio di ciascun soggetto individuale ed indipendente. Naturalmente, era

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ancora netta la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensiero e corpo, tra abstrahens e

abstractum, e questa divisione manteneva bellamente in vita tutte le difficoltà, logiche e teoretiche,

su come costruire un ponte che, attraversandole da parte a parte, ne collegasse le essenze e le

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esistenze, altrimenti puramente e apoditticamente enunciate. Eulero dimostrò non essere possibile

passeggiare sui sette ponti di Königsberg passando una ed una sola volta per ognuno di essi.

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Problema ozioso, quello dei ponti della irridente cittadina russa, eppure evocatore, esemplificatore

e simbolo di una ben peggiore ed impedente paradossalità. Quale sorta di ponte pontificato ed

astratto avrebbe mai potuto indirizzare l’intelletto a sgranchirsi le gambe andando incontro alla sua

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incorporea corporeità? Quale medium nevralgico occorreva per uscire dall’empasse? E poi,

diciamocelo in sordina, quel regressus ad infinitum di aristotelica movenza, lo stesso che

avvelenava l’”io penso” di Kant, metteva indiscutibilmente in crisi, come si vedrà poco avanti, anche

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l’irascibile francese.

Quindi, tanto per esser chiari, in una veloce panoramica dei primi filosofi che hanno fornito un

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ordine metodico all’analisi della conoscenza nel pensiero moderno, Kant si trovava a dover

superare la staticità dell’immobile e crogiolatorio dubbio cartesiano, che scadeva ben presto nell’

indefesso scetticismo di Hume, o in un dogmatismo che mutilava il fecondo campo del conoscere

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falciandone le messi con enunciati castranti come quello, a mo’ di exemplum, in base al quale

“causa adeguata all’idea di Dio è solo Dio, quindi Dio esiste”.

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Per Hume, come la palla da biliardo non colpisce il boccino per necessità, neanche è necessario che

esista un io sovrastante ed astrattamente condensato in un uno, se non in forma di amalgama di

sensazioni delle quali non si può dire altro che, tolte impietosamente ad una ad una, alla fine di

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quell’io tanto paventato non rimane un bel nulla. Inutile dire che il nulla, in quanto tale, è pur

sempre qualcosa di per sé, perché in tal caso, bisognerebbe argomentare per chi potrebbe mai

rimanere pur tale. Sbucciato il carciofo dell’io, per usare una metafora gaddiana, al centro c’è solo

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un’ultima foglia: tolta quella, tolto l’io. E non in senso hegeliano, come auf – gehoben, bensì tolto

come eliminato, et voilà, punto e basta. Del resto, anche con Berkeley, il problema non era stato di

certo superato. Secondo il suo “esse est percipi”, noi non potremmo assolutamente dimostrare l’esistenza di una sostanza materiale indipendente dalle nostre percezioni. Egli affermava infatti l’esistenza di un intelletto autocosciente, consapevole di esistere e di percepire, ma, per garantire

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l’oggettività della conoscenza, Berkeley faceva risalire le idee a Dio, superiore entità

extracosciente, sovratemporale ed ultraspaziale, che invierebbe queste idee di origine divina a

tutti. Forse per e – mail. Forse tramite piccione viaggiatore. Chi lo sa.

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A questo punto, si rende evidente una cosa: il problema principale, al succedersi dei filosofi,

continuava ad essere, come anche per Spinoza, quello lasciato insoluto da Cartesio nei vari

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tentativi di risoluzione dell’improbabile nesso tra res cogitans e res extensa, per risolvere il quale il

gallico in fuga aveva tirato in ballo la ghiandolina pineale che risiede, quieta quieta in quanto ipofisi,

alla base del cervelletto. Ma, e l’obiezione è ovvia e risibile: come poteva e come può un grumo di

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carne, per sua natura di sostanza materiale, fungere da ponte e medium tra anima e corpo,

facendo lei stessa parte del campo semantico e concreto di una delle due medesime res?

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Anche Spinoza confermava bel bello che noi possiamo conoscere soltanto due cose: pensiero ed

estensione. E dico per l’appunto cose, in quanto esse, riguardo al loro statuto ontologico, non

risiedono più neanche in noi, bensì sono attributi di Dio, ambedue modi di essere di quell’unica

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sostanza, che concede forma alla materia ed alla forma, alla prassi e alla teoresi, nella più perfetta,

ed estraniante, identità con la sostanza divina in quanto tale. Ma siccome tutto è Dio, si deve

arguire che allora stanno anche in noi. Altro che tutto è Dio, altro che Deus sive natura! Se tutto è

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Dio, allora niente è Dio, allora niente è Io. Non si risolve delegando al Titano l’unificazione del becco

del rapace metafisico e della carnea materialità del fegato. Ma c’è di più.

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Se Dio è questa totalità unificata, se Dio è l’unica sostanza razionalizzata in attributi che si

modificano, lo è, appunto, in quanto c’è qualcuno dal di fuori che razionalizza questo modificarsi,

che individua con la mente questo incessante divino unificarsi. Il pensiero è un attributo di Dio, ergo

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a pensar non sono io, ergo è Dio che pensa se stesso; allora io, che pure penso, sono Dio o vi

partecipo? Se sono Dio, sto da capo a dodici, perché non mi spiego un bel nulla: cambio solo

prospettiva ontologica, ma devo comunque poter essere in grado di argomentarmi come io conosca

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alcunché. Sono un Dio individuato, e ciò non mi esenta dal ricercare il modo del mio conoscere. E se

invece partecipo semplicemente della sostanza divina, non sono, daccapo e a maggior ragione,

proprio per questo mio parteciparvi, di per me, un individuo individuato, non foss’altro che da me

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stesso?

Comunque, si dirà, sono pur sempre un Io, perché penso tutto questo. L’io sembra quasi

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appropriarsi dell’ontologia fenomenologica di un Dio senza dentale sonora. Ma in tutto questo

carnascialesco altalenarsi di consonanti e vocali, il due, numero del perenne conflitto insoluto,

marito e moglie che litigano senza pace, senza posa, senza fluire dinamico tra l’uno e l’altra,

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permane a impedimento, persiste a paradosso. Nessuna risoluzione, nemmeno un divorzio

definitivo. Anima e corpo come Sandra e Raimondo. All’infinito.

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Occorre notare, per tornare a Kant, che la sua concezione della conoscenza di sé, creata per

superare l’empasse secolare del diviso e del diverso, non è, per la verità, né eccessivamente

originale, in quanto appunto deriva da una rielaborazione in chiave criticistica di tutta la letteratura

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precedente sull’argomento, almeno da Cartesio in poi; né tantomeno risolutiva, poiché, volendo

anche partire da essa come presupposto fondamentale a tutta la possibilità di conoscenza in

genere, non risolve affatto, come non lo risolveva Spinoza, il problema della divisione tra soggetto

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e cosa in sé. Persiste in Kant, infatti, un seppur brevissimo, in senso logico, istante passivo del

soggetto in cui esso subisce l’influsso dell’oggetto quando questo si fa conoscere. Perciò, si può

tranquillamente porre in discussione anche l’apparentemente certa conoscenza di sé di

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ascendenza kantiana.

Il boccoluto vince, ma non convince. E non convince, occorre ribadirlo, per il pensiero filosofico dell’

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idealismo tedesco successivo, da Fichte a Schelling, che tesero a superare in varie forme lo scoglio

insopprimibile della cosa in sé, la quale, ad occhi attenti, riduceva ad un palese dualismo

cartesiano, semplicemente mutato di segno, l’intera critica della Ragion Pura; e tentavano di

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ovviare all’empasse, gli idealisti, vestendo di un nuovo significato la stessa autoconsapevolezza,

traendola fuori dal suo costume sterile ed irrancidito, infarcendone la grazia e la compostezza di un

Io rinnovato e antistatico, che si scrollava di dosso la polvere e l’ombra di quel dualismo cartesiano,

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spinoziano e kantiano, imbalsamato ed irrisolto.

Per Fichte, ad esempio, la cosa in sé non è affatto al di fuori dell’Io. Nel rapporto fra Io conoscente

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e oggetto, l’Io si pone di fronte ad esso, percependo ogni oggetto al di fuori di sé e qualificandolo

come non – io. Fichte pone così una distinzione idealistica tra io empirico, ovvero la conoscenza

individuale, ed io assoluto, id est, lo spirito in generale; essi, eureka!, hanno la stessa identica

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natura spirituale. Nel processo conoscitivo che porta alla determinazione, da parte dell’io, della

natura come non – io, in un rapporto di opposizione apparentemente ancora una volta ravvolto dal

sudario intristente del dualismo, necessario e fondamentale è il primo passo: l’Io che pone se

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stesso ed, in quanto tale, in seconda istanza logica, pone il mondo fuori di sé. Quest’io si delinea

così come attività fondante la conoscenza stessa, ed in sé unità di coscienza ed autocoscienza:

atto puro, come avrebbe detto poi il fascistissimo Gentile, che in Fichte è colorato a tinte forti dalla

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tavolozza protoromantica della fiducia riposta nell’attività stessa, come indipendenza dell’

autocoscienza di fronte al mondo del freddo oggettualismo ostentato; streben umano, affatto

sovrumano!; sforzo dell’Io a trovare se stesso come Io che pone fiduciosamente il mondo, un

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ripostiglio cosmico non spiritualizzato, spirituale, spiritato d’attivismo quasi tantrico, senza infamia e

senza lode.

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La condanna indirizzata dal teutonico verso qualsiasi dogmatismo è evidente: Fichte accusa questa

corrente ricolma di spifferi sinistri di far risalire alla cosa l’origine stessa del pensiero il quale, in

questa maniera, non sarebbe altro che una cosa esso stesso. Il pensiero, per Fichte, è invece per

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se stesso, e l’oggetto è, invece, per il pensiero. Successivamente l’io, attraverso un percorso

metodologico antitetico, svilupperà la conoscenza, partendo sempre, pur tuttavia, dal principio

basilare di identità. Anche nella concezione politica fichtiana ha peso questa concezione di identità

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ed autocoscienza. I popoli si riconoscono infatti come realtà spirituali; gli io empirici, cioè i singoli

uomini, gli individui presi di per sé insomma, conoscendosi e riconoscendosi, decidono di collaborare

e di dare forma e luogo alla struttura statale, la quale diviene per l’umanità ciò che l’Io Assoluto è

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per l’io empirico. Fichte dunque, avvia la contestazione del criticismo, ma per una carrellata

romanticamente soggettivistica, storicistica e naturalistica, avremmo dovuto aspettare all’orizzonte

la comparsa della figura di Schelling come primo attore.

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Allo stesso modo in cui Fichte sostiene, novello Atlante, la teoria fenomenologica del soggettivismo

come unica via da tollere sulle forti spalle, così Schelling teorizza il naturalismo come soluzione

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finale. Ed è tutto un gioco di punti di vista differenziati, di rimproveri e di ritorsioni, come sempre

accade nell’aia in cui troppi galli beccano il miglio dallo stesso scifo. Schelling rimprovera a Fichte,

com’era prevedibile, la sussistenza della divisione tra soggetto e cosa in sé nell’opposizione

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mantenuta tra io e non – io. Per Schelling, tale rapporto deve essere di profonda affinità, immersa

in una realtà assoluta di concetti filosofici fin troppo astratti. Soggetto ed oggetto assumono così la

stessa valenza; viene determinata ulteriormente l’unità di spirito e natura, ma, beninteso,

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diversamente da Spinoza il quale, com’è stato detto, aveva categorizzato una realtà in definitiva

statica nella quale tutto è in Dio; e pure diversamente da Hegel, che darà luogo ad un unicum

logico, Assoluto – Infinito – Reale – Idea, in cui la concretezza della sfera razionale e la razionalità

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della sfera concreta si chiuderanno in circolo virtuoso dinamico e non mai impedente, dove la

riduzione a dialettica è elevazione a potenza della possibilità della conoscenza stessa dell’umanità

in quanto Spirito.

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In Schelling, tanto per tornare a monte, al contrario l’io ha consapevolmente un grado di spiritualità

differente ed in qualche modo più, come dire… sveglio, rispetto allo spirito addormentato e silente

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della natura. Nella concezione della filosofia come scienza dell’Assoluto, l’autocoscienza si identifica

con una conciliazione perfetta dell’aspetto realistico e di quello idealistico del pensiero. Nasce così

la concezione dell’idealrealismo che dovrà ricostruire la storia ideale dell’Assoluto. L’uomo, in

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questa visione, risulta essere una manifestazione dell’Assoluto stesso, non morale, bensì in quanto

unità di io e non – io, per cui, riconoscendo questa medesima identità, l’uomo non deve far altro

che lasciarsi vivere contemplativamente: egli è l’artista, colui che è supremamente consapevole,

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giacché l’arte viene interpretata da Schelling come capacità d’intuizione dell’unità tra spirito e

materia. Non v’è chi conosce se stesso più dell’artista, anzi, meglio ancora: è solo l’artista a

conoscere veramente se stesso. E gli altri, i contadini, i manovali, i metallurgici, le casalinghe di

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Voghera, che fine fanno? Rinascono, dissoluti e dissolti nel soggetto, come Aforismi di Minima

Moralia, qualche brutto tempo dopo.

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Kant, Fichte e Schelling, per continuare l’andazzo, sono ben lontani dal teorizzare un semplicistico

innatismo virtuale alla maniera di Leibniz, per il quale la mente è già predisposta alla conoscenza

per fatti suoi. Il problema insoluto dei tre, tuttavia, continua ad essere l’esistenza di Dio, che non

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viene sufficientemente giustificata da Kant e risulta così essere tirata in ballo in modo esteriore,

confusionario e contraddittorio da Fichte e da Schelling. Questo problemaccio epocale, a ben

vedere, c’entra con l’io, c’entra molto, talmente tanto che finisce per compromettere la validità della

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concezione della conoscenza di sé in tutti e tre i casi. Non solo perché si è ricorso troppo spesso

all’idea di Dio come ponte fra anima e corpo, fra io e non – io, fra spirito e materia. Ma anche

perché, come dovrei potere e sapere parlare di Dio, se ammetto anche solo la possibilità di questa

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stessa esistenza, in quanto parlarne è, in qualche modo, un conoscerne pur qualche modo od

attributo, alla stessa maniera dovrei poter conoscere me stesso. Conoscere l’io e conoscere Dio

sono processi intellettivi che si fondano sulla medesima struttura fondante. Ma come e perché?

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Kant aveva inserito nella conoscenza di sé anche la rigida sfera morale, basata sulla ritrovata

validità di una metafisica non in quanto scienza, ma in quanto regolamentazione della condotta

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umana nel suo dipanarsi pratico ed attivo. L’uomo deve infatti rendersi conto di essere

contemporaneamente empirico, cioè condizionato dalla causalità temporale, e libero, intendendo la

libertà, sui generis, come obbedienza al Grande Fratello dell’imperativo categorico. Anche al di qua

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della ragion pratica, però, Kant dà l’impressione di ambire ad un perfetto equilibrio di pensiero. Ad

esempio, nella concezione di spazio e tempo come dimensioni fondamentali per l’esistenza e la

conoscenza dei fenomeni, egli tende a rifiutare una tesi estremistica come quella di Locke.

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Secondo l’autore del Saggio sull’Intelletto Umano, se Dio è infinito, dove l’idea di infinito si ottiene

estendendo al massimo grado le idee di spazio e di tempo, ne consegue che possiamo con i nostri

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soli mezzi pensare l’infinito; di conseguenza, una prova ontologica di Dio non occorre, nel senso

che si esclude la considerazione stessa, il concetto dell’esistenza necessaria o, peggio, dell’idea

innata di Dio. Sensazione e riflessione che cosa c’entrano con l’idea di Dio? Egli è un’idea complessa

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ed in quanto tale oscura, a cui non corrisponde nulla nel reale, e di cui non possiamo identificare

conoscitivamente la sostanza. L’uomo non può andare a trovare il luogo di residenza dell’essenza,

può affidarsi solo alla mappatura topografica delle idee chiare, può conoscere con certezza soltanto

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i fenomeni. Un bel colpaccio contro la metafisica, calibrato con estrema perizia balistica fra capo e

collo. Maxima theoretica, di nuovo, e minima moralia. La parola d’ordine in Inghilterra è: empiria. Ma

allora, come può l’uomo conoscere se stesso? Possiede forse di sé idee chiare e distinte, e

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basterebbero i sensi a farcele in qualche modo avere?

Del resto, Kant si rifiuta anche di scendere a patti con il leibnizianesimo selvaggio in base al quale

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Dio può essere dimostrato a priori o a posteriori, in quanto unico essere in cui l’essenza richiede

necessariamente l’esistenza. Gaunilone, in questo senso, ancora ride in faccia ad Anselmo d’Aosta:

non si passa così facilmente dal dominio logico, tout court, a quello ontologico, essendo questi due

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campi ben distinti, anche riguardo il campo di applicazione. Per Kant è evidentemente una

sciocchezza affermare, come Leibniz sembra pago di fare, che Dio è possibile a livello logico –

razionale, quindi esiste. Salvo poi intortarsi da solo, il fine criticista, rigettando al centro della pista

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da ballo, nella sfera morale stroboscopica da discoteca in cui ci si agita sulle note di ricorrenti oldies

but goldies, quella stessa metafisica derisa nella fisica, derisa dalla fisica. La sua ricerca dell’

equilibrio del pensiero crolla poco spavaldamente di fronte alle critiche successive.

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In Kant l’imperfezione consiste nella persistenza del noumeno. Inutile negarlo o tentarne un

postmoderno recupero. Come giustificare, infatti, una perfetta e fenomenica conoscenza di sé, se a

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rigor di logica non si può affermare una conoscenza del mondo, certissima perché dichiarata tale,

ovvero dei fenomeni stessi, giacché nulla a rigore vieta al noumeno stesso di essere, esso stesso,

il mondo, o anche solo una porzione di esso? Noi cosa siamo? Anzi, io stesso cosa sono: fenomeno

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o noumeno? L’ombra nefanda e nefasta del gran genio di Hume oscurava di nuovo il sole

opacizzato della razionalità, proprio quando Fichte e Schelling facevano la loro comparsa sulla

scena del dramma filosofico moderno e, nei ripensamenti successivi, anche contemporaneo.

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Per Fichte e Schelling, il problema, di ascendenza platonica, è la convivenza millenaria dell’uno e del

molteplice. Ed è stato molto comodo per i due, nella fase finale della loro filosofia, affidarsi all’atto

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creativo di Dio per giustificare la metexis, il passaggio, il ponteggio comunicativo dell’io monadico e

del reale multiforme fenomenico. Ma insomma, ovunque risieda una soluzione pur sperata, o meglio

una semplice e semplicistica risoluzione di natura religiosa, non si vede dove sia la reale possibilità

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di una piena conoscenza di sé, laddove noi stessi, in quanto individui, risultiamo essere figli di una

creazione superiore ed imposta che ci domina dall’alto. Logicissimo si rivela essere, invece, il

ragionamento comune di Cartesio e di Hobbes, in questo convergenti nonostante le opposte e

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lontanissime concezioni filosofiche: essi vedevano nella matematica la necessaria base della loro

filosofia.

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Opportuno appariva, ora come allora, ricercare una perfetta conoscenza, possibile ed effettiva,

nonché effettuale, in ciò che è la mente stessa a creare, nella pura mathesis astratta ed astraente,

la quale, in quanto fervido parto dell’intelletto umano, senza impurità di sorta dall’esterno, consiste

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in quell’armonia di coscienza e conoscenza, eternamente auspicata e mai raggiunta, che l’uomo

tutt’oggi ricerca ancora per se stesso fuori di sé, e che non troverà mai al proprio interno, non solo

se fosse vero che Dio esiste, ma anche, e proprio in quanto, di fatto, Egli sussiste, nella mente che

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pure unicamente lo pensa, come terza persona singolare, pensandolo essa fuori, in alio, in alteris,

in Natura non sicut in Deo, sed sicut Deus ipse.

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L’esistenza dell’idea di Dio o, diciamo, l’invenzione di essa da parte della mente umana che le rende

ragione nella coscienza, determina in definitiva il senso di angoscia kierkegaardiano e di

oppressione in cui versa l’umanità da millenni; uno stato di prostrazione, psicologico in senso

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filosofico, filosofico in senso psicologico, proprio di chi trova ostacoli sul proprio cammino, e poi si

accorge, o si ricorda, di averceli disposti accuratamente egli stesso, per darsi il suo daffare, per

occupare un po’ di tempo. Dio non è né conforto né salvezza, bensì un ostacolo etico,

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deliberatamente creato dalla mente del singolo individuo per trascorrere i nostri settant’anni medi

immersi in una qualche occupazione che fornisca un senso alle ore che passano, come accade ai

bambini quando di notte, nel buio dell’insonnia, inventano un mostro preferito con cui

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fantasticare.

Si potrebbe obiettare che, se fosse valido il caso in cui è la mente stessa a creare Dio, Egli, in

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quanto idea, sarebbe perfettamente conoscibile come i principi matematici, e, di conseguenza,

avremmo anche una perfetta conoscenza di noi stessi; basterebbe a tale scopo, come nel caso di

Dio, porsi. Ebbene, mefistofelicamente, noi poniamo di fatto noi stessi, e perciò ci conosciamo alla

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perfezione; ma ci poniamo in quanto imperfetti, così come, e il caso non è fuori di realtà, noi

abbiamo posto coscientemente l’idea di Dio come di un inconoscibile, ed in quanto tale, tutto ciò

che se ne può sapere è, per l’appunto, il fatto stesso che Dio è inconoscibile: e questo, per l’

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appunto, ribadisco se non fosse chiaro, è tutto ciò che se ne può sapere; quindi, e proprio per ciò,

ne sappiamo tutto! Ergo, dov’è il problema?

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La vita del pensiero, il percorso fuorviante ed astruso della conoscenza di sé è, probabilmente, solo

questo lungo ed inenarrabile processo fatigante, che consiste nel conficcare, filosoficamente e nel

concreto della prassi, una lunga fila di chiodi nel muro dell’intelletto; una parete così specialmente

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sottile che, passando attraverso, un chiodo da una parte scaccia l’altro dalla parte opposta, tale

che, nella storia della filosofia, appendere quadri non è mai stato il reale scopo, consistendo questo

stesso, bensì, nel continuare a martellare e a fare buchi, nel sudare dietro al proprio indaffararsi:

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nel lavorare allargando il vuoto.

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