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2001: Odissea nello spazio. Solo uno spunto

Credo quindi che il monolite, nella sua presenza cupa e solenne, misteriosa e indefinita, apra a più possibilità. [Gianfranco La Grassa]

2001: Odissea nello spazio. Solo uno spunto
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20 Settembre 2015 - 05.54


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di Gianfranco La Grassa

Il film – 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick – mi serve solo da spunto per una serie di considerazioni mie personali e quello che mi interessa è per la verità tutt’altra questione. Seguirò brevemente un altro percorso interpretativo, senza pretesa di giungere al cuore dei problemi posti dal film, che dice quasi sicuramente altro rispetto a quanto qui svolgerò.

Parto dall’alba dell’uomo, dall’ominide quasi ancora una scimmia. Si vede come può essere preda di animali feroci, come non riesca facilmente a procurarsi la carne di animali per nutrirsi di questa; dato che l’uomo si mostra subito particolarmente carnivoro. E oggi, non a caso, è uno dei peggiori annientatori della vita animale sul pianeta. La ricrea anche (per allevamento), ma solo quella che piace a lui per mangiarsela. Comunque all’inizio, poveretto, doveva subire attacchi e non gli fu facile difendersi poiché nemmeno aveva alloggi appropriati per preservarsi dall’aggressione animale. Diciamo che, alla fine, si è vendicato, e con abbondanti interessi.

Ad un certo punto, e questo è cruciale per quanto mi riguarda, vi è l’incontro con il monolite (o monolito). Vi è un istintivo momento di perplessità (quasi rispettosa) e di sospensione. E’ forse un’attesa o un assorbimento di prime emozioni nascenti. Il monolite è una presenza a suo modo solenne, ma è anche un’assenza; non vi è un senso preciso per il suo apparire e non suscita nulla di definitivo in quegli uomini ancora quasi bestie. Eppure, senza che ciò appaia esplicito, si apre una scelta, del tutto inconsapevole ma non per questo meno decisiva, circa la via che verrà percorsa. E la scelta è una “scoperta”. Un osso dello scheletro d’un animale (uno di loro?), una tibia, viene usata a mo’ di martello e rompe altre ossa, ha potenza; sorge nel primitivo l’immagine di animali abbattuti picchiando con quello. E si ha un crescendo nell’infierire su altre ossa, e anche quelle di un cranio d’animale, onde mandarle in frantumi. Diventa una scoperta decisiva, un tornante che apre la strada ad una scelta prioritaria.

Non vi è solo la possibile difesa, ma ancor più l’offesa, nei confronti degli altri animali; si rende manifesta la crescente capacità di cacciarli e ucciderli per nutrirsi. Credo quindi che il monolite, nella sua presenza cupa e solenne, misteriosa e indefinita, apra a più possibilità. Non sembra indicare quale, né che lo possa “oggettivamente”. Occorre una scelta: sopperire principalmente alla necessità primordiale di nutrirsi (e riprodurre il proprio corpo) oppure aprirsi con eguale adesione ad altre prospettive? Mi sembra che gli ominidi, quasi ancora scimmie, restino affascinati, attoniti, per un po’ fermi; essi sembrano quasi pensosi, pur se non credo potessero esserlo se non in forme del tutto embrionali. La scelta definitiva è però presa quando la tribù, del primitivo con la tibia in mano, ne incontra un’altra con cui si accende l’ostilità, evidentemente territoriale. L’arma si abbatte sul cranio di un nemico che viene ucciso e poi su di lui si infierisce pure; ma con modalità (eccezionale la regia in questo) da cui si intuisce che si è perfino increduli del risultato ottenuto, ci si vuol meglio accertare d’esso.

L’altra tribù è spaventata, e soprattutto sembra depressa, quasi avvertisse quale passo fondamentale, e terribile nella sua lunga prosecuzione futura, si fosse compiuto. Si ritira, in fondo mogia e perfino incerta, forse incredula pur essa. Il “vincitore” si esalta, comincia ad emettere strida di trionfo e infine, in un empito somigliante alla gioia, lancia in alto la “nuova arma” che volteggia e… si trasforma nell’astronave. Tutto il tragitto dell’umanità da quei primi passi – lo ricordo, iniziati dall’“incontro” con il monolite (non casuale affatto, lo comprendiamo adesso) – fino all’era dei viaggi spaziali sintetizzato in quel volteggio durato decine di migliaia d’anni. Stupenda “trovata”, mirabile; e tuttavia, credo di dovermi staccare qui dal significato che mi sembra voglia essere attribuito all’evoluzione dell’uomo fino al suo genere di “homo sapiens sapiens”.

L’uomo è stato spesso definito “a tool-making animal”. In realtà, si è constatato che anche altri animali fabbricano rudimentali strumenti. Le scimmie (alcune) ovviamente, ma anche corvi e altri uccelli, perfino le api, ecc. Tuttavia, non esageriamo nel non voler essere soli in certe attitudini. In definitiva, il vero fabbricatore di strumenti, con uno sviluppo incredibile della tecnologia, ecc. è l’uomo; appunto, dalla tibia (strumento trovato e solo utilizzato in un dato modo) all’astronave. Si è anche detto che l’uomo si è potuto sviluppare dal primitivo animale qual era poiché era dotato della mano, il suo primo vero strumento. Tutti quelli artificiali sono prolungamento di questo primo; almeno fino alla “rivoluzione industriale”, perché con essa gli strumenti sono divenuti macchine, il cui movimento combinato è indotto da dati meccanismi artificialmente creati e utilizzanti infine energia non umana. Tutti bei discorsi, che comunque hanno un fondo comune: si parla dello sviluppo umano troppo spesso privilegiando lo strumento. Si ammette che questo è in fondo mosso da un cervello speciale. Tuttavia, in definitiva, il cervello muove uno strumento, si prolunga in questo. Non solo: si è sovente pensato che il cervello stesso si è evoluto in seguito all’utilizzazione di strumenti via via diversi. Questo, almeno per me, è frutto di materialismo ingenuo.

Anche i rapporti sociali si sono pensati come trasformati in base allo sviluppo delle tecnologie strumentali. “Il mulino a braccia vi darà la società con il signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale” (Marx, “Miseria della filosofia”). In realtà, anche per Marx (lo si evince da una frase messa dopo poche pagine dalla citazione appena fatta) i due tipi di mulino (o anche le due tipologie strumentali del tutto diverse) vogliono essere più che altro INDICE di rapporti sociali differenti. Tuttavia, già questo fatto indirizza verso quella concezione per cui la sfera economica (produttiva) è fondamentale nel definire una data forma di rapporti sociali, da cui deriverà la decisività del potere di disporre o meno dei mezzi di produzione, quindi la cruciale rilevanza del confronto tra gruppi (definiti classi) sociali nella sfera produttiva; e poi, nella costruzione teorica, si pensa al progressivo formarsi dell’insieme dei produttori associati cui verrà oggettivamente (e dunque ineluttabilmente) assegnata la funzione di creare la futura società comunista, ecc. Tutte cose da me trattate, e ampiamente rimesse in discussione, in centinaia di pagine; per cui sorvolo.

2. E’ a questo punto indispensabile una abbastanza lunga digressione. Desidero spendere due parole intorno alle concezioni affermatesi soprattutto a partire dal XVIII secolo; e che ancor oggi, tutto sommato, fanno parte del liber(al)ismo. Seguirò però un percorso tutto particolare, non proprio filosofico. Semmai discuterò la scelta dell’economia politica, fin dalla sua effettiva nascita con Adam Smith, scelta però del tutto fissata nei suoi canoni definitivi dall’economia neoclassica (o marginalistica). Tutti conoscono bene la questione del Robinson (Crusoe, eroe del romanzo di Defoe), che secondo questa concezione è il fulcro del formarsi della società a partire dai bisogni individuali, il cui soddisfacimento trova limiti nella scarsità dei mezzi a disposizione per essere adibiti ad usi alternativi, fra cui bisogna scegliere.

Da qui prende avvio l’ampio dispiegarsi delle teorie fondate su questo primo passo, con grande sfoggio di matematiche, ecc. In tale concezione, sembrano decisive le scelte prese dai diversi individui componenti la società; e le cui relazioni si stabiliscono progressivamente nello scambio dei beni da ognuno d’essi prodotti, scambio che verrà poi reso più facile, e “lubrificato”, dall’utilizzazione dell’“equivalente generale”, il denaro, nelle sue varie figure monetarie. E sempre da qui si sviluppa poi tutta la tematica della competizione (mercantile) dei vari Robinson, ognuno dei quali si specializza nella produzione di uno dei beni di cui si avverte il bisogno; e infine essi se li scambiano. Di conseguenza, la produzione (e offerta) dei beni trova il suo impulso iniziale (dunque la causa) nel bisogno, da cui discende la domanda e il consumo che trainano tutto il resto della sfera economica: la parte produttiva e quella che fornisce il mezzo liquido “lubrificante”.

Lo scambio (di merci) è al centro di tutto, con i suoi annessi competitivi; dunque, allora, è pure fondamentale per questa competizione la strumentazione tecnologica, mediante la quale si abbassano i costi di produzione e quindi i prezzi. E’ sempre lo strumento in primo piano, pur se mosso da questa competizione mercantile (concorrenza). Non mi sembra sia così. In realtà, è il conflitto (“territoriale”, ma nel senso ormai lato e sempre più ampio che prende tale termine man mano che la società umana si sviluppa) ad essere al primo posto, la vera causa del mutare dei rapporti sociali fra gli uomini. Niente più studio del Robinson con i suoi bisogni e i mezzi limitati per soddisfarli. Meglio andare a Von Clausevitz, Sun Tzu e via dicendo. Nella lotta, condotta in base a strategie razionali e non certamente improvvisata alla carlona, si stabiliscono i rapporti sociali e le loro più o meno radicali trasformazioni d’epoca in epoca.

Tuttavia – se proprio si vuole a tutti i costi trovare l’“eroe” individuale isolato da cui prendere le mosse per immaginare il formarsi del complesso societario – non ha senso partire da Robinson, bensì da Tarzan. Certo, la vicenda di Tarzan è raccontata a fine ‘800, quella di Robinson nella seconda metà del ‘600. L’economia neoclassica nasce nel 1870 (Walras, Menger, Jevons) e resta sempre attaccata a Robinson o giù di lì. Errore a mio avviso decisivo. Non potevano correggerlo i fondatori del marginalismo (sono venuti prima); ma almeno nel ‘900 questo sarebbe stato possibile. Bisognava sostituire Tarzan a Robinson; ma ci si sarebbe mai riusciti? Queste mie poche pagine, uno sfizio in fondo, intendono comunque dimostrare il non senso del riferimento a Robinson; mentre con Tarzan sarebbe almeno sussistito un minor grado di “irrealtà”.

Vediamo brevemente chi è l’eroe dei romanzi di Edgar Rice Burroughs. Sempre un naufragio all’origine della storia. E sempre degli inglesi in primo piano; anzi due appartenenti alla nobiltà. Essi vengono sbattuti in un’isola per l’ammutinamento dell’equipaggio della nave su cui viaggiavano. Un’isola con folte foreste abitate da varie specie animali, dalla tigre (regina della foresta) ad una folta tribù di scimmie particolarmente aggressive, comandata dal feroce Kerchak, in cui si trova Kala (una scimmia sul tenero femminile), che ha perso da poco lo scimmiottino suo figlio. I due esseri umani, grazie alla loro superiore intelligenza, anche semplicemente strumentale, costruiscono una capanna dalla quale escono in determinate ore del giorno per procurarsi il cibo, ma possono trincerarvisi in modo perfettamente difendibile da ogni assalto animale. La donna è indebolita, malata, dà infine alla luce un bimbo; quando questi ha un anno, la madre muore. Il marito è affranto, si scorda di mettere in moto i meccanismi di difesa e, nella notte, la pestifera tribù scimmiesca penetra nella capanna e il feroce Kerchak lo uccide. Sarebbe ucciso anche il neonato se Kala non avvertisse – in senso veramente materno – lo spontaneo bisogno di difenderlo e addirittura di adottarlo al posto del figlio morto; con l’avversione del compagno Tublat, che tenterà più volte di far del male a Tarzan (questi poi, “da grande”, lo ucciderà e alla fine ucciderà anche Kerchak venendo dichiarato “Re delle scimmie”).

Dall’adozione del bimbo di un anno da parte di Kala inizia la vera storia del sedicente uomo/scimmia, che viene chiamato in un’ipotetica lingua animale Tarzan. Questi cresce credendosi figlio della scimmia, ma sempre in sordo antagonismo con il “patrigno” Tublat, che avverte la sua diversità ed è geloso dell’enorme affetto della sua femmina, tuttavia capace di difendere il “figlio” più e più volte dalla selvaggia ira del suo compagno. Tarzan avverte una diversità rispetto a quelli che crede suoi simili, ma non se la spiega. Torna spesso nella capanna dei genitori (di cui non conosce l’esistenza), rimasta intatta perché nulla vi era che interessasse a degli animali privi di ragione e di abilità strumentale. Egli trova lì un coltello. Sintomatico no? Sempre uno strumento difensivo/offensivo come la tibia dell’ominide in “Odissea nello spazio”. E sempre si pone in luce come possa usarlo al meglio (una bestia della sua tribù non avrebbe potuto) per la maneggevolezza della…… sua mano, che si muove, si articola, ha capacità prensili più evolute di quella scimmiesca. Egli trova anche libri, diari (scritti a mano dai genitori); e comincia a fissarsi sulla scrittura come sui disegni, impadronendosi pian piano di un linguaggio che non è quello animale. Solo scritto però, non ancora parlato. Per parlarlo dovrà arrivare un’altra nave che porterà esseri umani e darà una svolta alla storia.

Pensate bene all’intelligenza di questa indicazione. Lentamente, con fatica, Tarzan riesce ad afferrare il senso di quanto vede vergato con segni strani (le parole) e con disegni. Non riesce però bene ad inquadrare il posto che ha questo senso nello spazio/tempo della sua vita all’interno della tribù scimmiesca e nell’ambiente “naturale” in cui questa si svolge. Non sa nemmeno come si possa comunicare a voce quel senso e scambiarsi impressioni e pensieri (che nella sua testa cominciano a fiorire) con altri esseri animati; egli conosce soltanto quelli della tribù di scimmie e degli altri animali della foresta. Con questi bisogna continuare nello scambio di suoni gutturali e inarticolati, di gesti con parti del corpo, ecc. Solo quando incontrerà altri animali come lui, già facenti parte di una società in qualche modo evoluta, imparerà l’uso di quei segni anche nell’articolazione dei suoni ad essi associati; imparerà il senso del linguaggio parlato.

3. L’odioso, micragnoso Robinson, sa invece già tutto. Non sente il bisogno di comunicare con nessuno. Solo gli farà comodo incontrare lo schiavetto cui darà il nome di Venerdì. A lui basta centellinare le sue forze per procurarsi il massimo possibile con il minimo sforzo possibile. L’economia neoclassica lo prende come l’emblema stesso del comportamento razionale in quanto puro portato, per lei, della singola individualità. Invece, Robinson si trova isolato per vicenda eccezionale, ma esce da un preciso contesto sociale, è un portato esclusivo di quel contesto. Non può esistere un Robinson se non come concentrato della mentalità e cultura formatasi con l’ormai avvenuta trasformazione integrale del feudalesimo in società capitalistica. Pensare al comportamento del Robinson, trarne tutte le presunte leggi del “consumatore” razionale che, con le sue scelte, mette in moto anche il procacciamento dei beni, cioè la loro produzione, è la più grossa banalità, vero supremo salto nell’assurdo della mentalità tipica di certa economia; una pretesa scienza, tutta intrisa di ideologia pesante e mistificatoria. A meno che non la si interpreti, molto più semplicemente (e allora con una sua precisa giustificazione) quale “teoria delle scelte”; di un individuo però, e già inserito in un preciso contesto rappresentato appunto dalla struttura dei rapporti della formazione sociale capitalistica.

Invece, è solo dopo aver tratto dal comportamento di questo “concentrato sociale”, preso per individuo, tutte le pretese leggi fondamentali dell’“homo oeconomicus”, che l’“economica” (un nome inteso a scimmiottare quello della fisica, della chimica, ecc.) fa il salto alla società in quanto incontro tra i vari Robinson, prima saldi nella loro individualità. Ed è solo allora che nella testa di simili scienziati si forma il mercato come interazione tra questi individui “razionali”. E l’unica imperfezione scoperta da un premio Nobel per l’economia (Simon) – sbagliando, a mio avviso, per scarsa attitudine all’astrazione teorica, cardine di ogni pensiero scientifico – è che la loro razionalità è limitata perché l’individuo non può conoscere adeguatamente tutte le variabili in gioco, da prendere in considerazione. E’ come se criticassimo Galilei per aver individuato le leggi del moto rettilineo uniforme, non tenendo conto degli attriti che sempre ci sono. Un bello scienziato! E una “giusta” attribuzione del Nobel! E del resto, pure altri come Coase e più tardi Williamson hanno considerato l’impresa – struttura organizzativa complessa – come se fosse in fondo riconducibile ad una rete mercantile. Un bell’uso della “Ragione”, non c’è che dire.

Tarzan no, ha un DNA (allora sconosciuto) diverso da quello della scimmia da cui spesso si dice derivi l’uomo. E’ però inserito in un mondo di scimmie; avverte la sua differenza, ma non si orienta, è a volte perplesso diremmo oggi. Impara quei segni scritti che trova nei libri e diari dei genitori, di cui non sa l’esistenza (si crede puro figlio di scimmie), ma non può parlare quel linguaggio perché manca il rapporto sociale di tipo umano. I ragionamenti che può fare sono proprio quelli del vero “primo uomo” da prendersi singolarmente, individualmente. E quindi il suo comportamento indica con precisione laddove l’INDIVIDUO, del tipo homo sapiens sapiens, si distacca da quello degli altri animali. Da qui il liber(al)ismo, tanto innamorato dell’individualismo, della libertà di ogni singolo essere umano, avrebbe dovuto prendere le mosse. Non da Robinson, un risultato del più puro egoismo ed egocentrismo della società capitalistica.

Quello di Tarzan è dunque il vero salto in uno spazio diverso, con un differente senso della temporalità. E allora seguiamolo, pur solo per cenni, nella sua crescita. Per certi versi egli usa l’istinto animale (quello detto tale, non so se propriamente; non sono in grado di deciderlo). Quando insegue una preda – in genere pure lui, come ogni altro animale, per nutrirsi – procede avvertendo da dove tira il vento e posizionandosi in modo che il suo odore non arrivi ad essa, altrimenti quella fugge. Inoltre, spesso non tocca terra; procede per aria passando di albero in albero utilizzando le liane. Sa però tendere le trappole, sa attendere un tempo considerevole affinché maturino condizioni più favorevoli. Considera assai meglio i rispettivi rapporti di forza; affronta la prima volta la tigre in modo “ingenuo”, ne viene ferito e a momenti ci rimette la pelle, ma impara bene la lezione e poi si ritrae sempre da scontri troppo diretti fin quando questa non è invecchiata. A quel punto è lei che non tiene conto del suo indebolirsi e Tarzan, usando anche dello strumento coltello trovato anni prima nella capanna, la uccide. Insomma, fa uso dell’“istinto”, ma anche di un pensiero che si articola in modo nettamente più complesso rispetto agli altri animali.

Ho voluto consentirmi questo sfizio su Tarzan solo per mostrare il limite e una qualche ingenuità dell’economica liberale e, credo, in generale di tutta questa corrente di pensiero. L’homo sapiens sapiens non nasce, in ogni caso, quale singolo individuo che poi scopre la sua socievole umanità… quando entra in contatto con un gruppo di individui già socializzati; e sempre appartenenti alla nuova società capitalistica ben affermata, visto che la vicenda si snoda a fine secolo XIX. L’ipotesi più accreditata è quella di una serie di mutazioni genetiche che, alla fine, hanno sparato il colpo giusto: la nascita dell’uomo da noi conosciuto e tanto esaltato o vituperato a seconda del carattere e dell’umore di chi lo prende in considerazione.

Questa specie umana, detta evoluta e dotata di quello che chiamiamo pensiero o ragione, ecc. è già, fin dall’inizio della sua presenza sulla Terra, un gruppo sociale, magari un’orda. Non è mai esistito un individuo isolato, bensì sempre un insieme associato di singolarità, certamente all’inizio assai poco dotate di vera individualità salvo quella dei loro corpi animali. Per quanto primitivi, per quanto fondati su una iniziale probabile scarsa differenziazione dei singoli membri dell’orda, esiste comunque questa; e dunque, pur se embrionali e poco afferrabili, sussistono già dei rapporti sociali tra questi singoli. Ognuno di loro non è semplicemente un individuo, è un condensato di tali rapporti e della comune, per quanto rozza e primitiva, visione del mondo che essi si formano nella loro vita associata.

4. In definitiva, quindi, voi capite perché – pur essendo arrivato alla conclusione di gravi manchevolezze nel marxismo; conclusione cui giungo con il ben noto “senno di poi” – ritengo che da questa concezione si debba tuttavia partire per una pur radicale revisione della teoria della società (in particolare di quella capitalistica, anzi di QUELLE CAPITALISTICHE). In Marx esiste da subito il rapporto sociale, la sua indagine da lì parte. Leggete quanto scritto già nella Prefazione a “Il Capitale”: “Qui si tratta delle ‘persone’ soltanto in quanto sono la ‘personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi.’ Il mio punto di vista… può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”. E’ chiaro, falsificatori del pensiero di Marx, falsificazione cui si sono dedicati non solo gli antimarxisti ma pure alcuni arroganti “sessantottardi ultrarivoluzionari” che hanno poi figliato e oggi “nipotato” altri ancora peggiori?!

Come vedete, in Marx l’essere umano d’ultima specie è soprattutto una personificazione, un condensato, di rapporti sociali; è ovvio che possiede pure caratteristiche individuali, e sempre più durante la millenaria evoluzione della società umana. Quindi nessuno scandalo per la necessità di difendere alcuni bastioni dell’individualità di questi esseri sociali. Nessun desiderio che si torni tutti alle casacche maoiste o a quella presa in giro della rotazione delle mansioni: con un Ciu-en-lai che si fa vedere per cinque minuti a porre una pietra nella lastricazione della strada, mentre non si è potuto mostrare nessun manovale che impartisce ordini in una riunione del Consiglio di amministrazione di una grande impresa; ancor meno si è potuto mostrare un elettricista che svolge lezioni di fisica quantistica. E di sicuro non si sarebbe trovato nessun muratore in grado di assolvere i compiti di Ministro degli Esteri della Cina. Basta con questa vergogna dell’umiliazione delle prerogative e capacità individuali. Siamo diversi; e in modi diversi, come diceva Marx, possiamo “elevarci soggettivamente al di sopra dei rapporti di cui siamo socialmente creature”! E queste differenze individuali vanno difese dagli appiattimenti predicati dai mediocri, o anche semplicemente da chi ha avuto minori possibilità. Piaccia o non piaccia, è così: i rapporti sociali creano individui d’alto valore intellettuale e morale e dei mediocri, conformisti, abituati alla routine!

Difendiamo le nostre prerogative individuali, ma proprio perché esse sono differenze nate nell’ambito di singole condensazioni dei rapporti sociali. Mai è esistito il singolo individuo della specie umana al di fuori del rapporto sociale. Da qui si deve partire anche quando si vogliano valutare, difendere, proteggere, ecc. le differenze individuali. Comunque, questo mio breve sfizio voleva solo dimostrare che, se proprio ci volessimo intestardire nel costruire i rapporti interazionali della società a partire da un singolo, è necessario riferirsi a Tarzan, non a Robinson. Quest’ultimo è già una creazione di rapporti sociali; e per di più, guardate bene, nemmeno “si eleva al di sopra dei rapporti di cui è socialmente creatura”. No, vi rimane dentro con tutta la sua micragnosità di “homo oeconomicus”. E coloro che hanno creduto di aggiungervi ulteriori elementi umani più realistici hanno solo pensato come quei banali che affermassero: non ci sono le leggi del moto rettilineo uniforme, ci sono gli attriti.

Tarzan è – sia pure soltanto nella supposizione di un evento del tutto particolare: ammutinamento dell’equipaggio e abbandono dei due coniugi in un’isola deserta – un individuo isolato della specie umana (frutto cioè di una mutazione genetica) che vive in mezzo ad esseri animali delle specie precedenti. E quella geniale notazione del linguaggio scritto – che riesce ad apprendere e anche usare in quella forma, ma che poi deve imparare a parlare quando arrivano altri esseri umani – è molto bella e significativa. Prima di tutto il rapporto sociale, che ci rende “sue creature”. Poi la nostra diversità e capacità – DIFFERENTE DA INDIVIDUO A INDIVIDUO – di riuscire talvolta ad “ergerci al di sopra del rapporto di cui siamo creature”.

5. Fatta questa digressione un po’ lunga – ricordo comunque che il film è per me solo un pungolo a considerazioni che non lo rispettano poi tanto – riprendo dal discorso dello strumento usato dall’uomo in quanto preteso “tool-making animal”. Secondo la mia opinione non è stata l’utilizzazione prolungata di strumenti, con la modifica delle caratteristiche della mano, a produrre quei mutamenti che hanno condotto alla cosiddetta razionalità (del pensiero, ecc.), facendo di quest’animale l’homo sapiens sapiens. Preferirei pensare perfino all’intervento della “mano di Dio”; credo, tuttavia, che ci si possa indirizzare verso la mutazione genetica. Questa è indotta da una prolungata pratica dell’animale in un dato ambiente? Non mi sembra che si tratti dell’ipotesi oggi più accreditata.

In ogni caso, qual è la vera caratteristica fondamentale dell’animale denominato uomo? A mio avviso è la riflessione, quella che si rischia oggi magari (forse) di perdere con tutti gli strumenti a disposizione in campo elettronico. L’uomo, come lo conosciamo, non nasce per il suo reiterato colpire gli oggetti con la tibia, apprendendo che quest’azione ha effetti di rottura di ossa e oggetti; e poi della testa dell’avversario. Vi è sempre una prima considerazione nata certo dall’osservazione di quanto accade in seguito alla propria azione nei confronti dell’ambiente esterno. Si ha quindi una prima acquisizione di ciò che è accaduto “in realtà”. Non si ripete però in continuazione ed ossessivamente la prima operazione, il primo intervento sulla “realtà esterna”. Ci si riflette sopra, ci si sforza di capire che cosa si è verificato, qual è la sequenza di tutti gli atti, i loro effetti consecutivi, la loro connessione; e le eventuali differenze negli effetti se l’atto viene compiuto con modalità diverse. E si studia e valuta la possibilità di modalità differenti, se ne raccolgono e immagazzinano i risultati, li si studia e valuta ancora e ci si riflette ulteriormente; e così via fino ad una relativa stabilizzazione.

In definitiva, dalla prima esperienza (nata dallo stimolo/risposta/sommaria presa d’atto del risultato di questa) si passa a considerazioni molto più complesse e con lunghe catene di rilevazione (del risultato/successiva modifica dell’azione/ulteriore analisi del risultato) finché non si giunga a quella che si ritiene la migliore modalità per eseguire quell’azione. E tuttavia, ciò non basta ancora. Si deve tener conto della posizione, del terreno; in definitiva delle varie contingenze spazio-temporali in cui l’azione viene compiuta e si realizzano quei dati risultati. E via dicendo.

Insomma, siamo in presenza della riflessione del pensiero, che compie diversi “viaggi” dal gesto attivo alle sue conseguenze e viceversa. Gli altri animali non seguono lo stesso iter mediante le esperienze incontrate nella loro vita, non hanno le stesse attitudini di pensiero dell’uomo. Non mi consta che si possa spiegare la nascita delle modalità dell’agire umano dalla sola esperienza pratica in grado di imprimere al cervello di un animale precedente (anche un ominide) quel movimento atto a consentirgli successive e sempre più complesse acquisizioni. O c’è l’intervento di Dio o si verifica una mutazione del tutto speciale. Inutile raccontarsi che basta la modifica della mano, la costruzione di strumenti, ecc. per iniziare un processo indirizzato alla formazione delle particolari capacità del pensare umano.

Dunque, la presenza del monolito – con la sua misteriosità non facilmente sondabile – è essenziale; non nasce l’uomo senza il suo intervento, che sia soltanto “stimolo” al (mutazione del) pensiero riflettente o creazione di quest’ultimo. E questo monolito continua a riapparire di volta in volta nel film. Ad es. nell’incontro umano con quello lunare; e quando gli astronauti tentano di riprendersi filmicamente assieme ad esso sono assordati da un fischio lacerante. E poi alla fine, quando l’uomo è vecchissimo, steso morente nel letto, esso incombe sempre sulla sua esistenza ormai alla fine. E si vede il nascituro nel grembo che volteggia assieme alla Terra. Vuol significare la possibilità di un nuovo inizio, di una storia aperta a soluzioni diverse da quelle avute nel corso dello sviluppo dell’umanità da noi conosciuta? Non lo so, non mi ci soffermo adesso. Anche perché, in ogni caso, non credo ad un nuovo inizio, non per l’essere umano. Per il momento, in assenza di precisi sintomi in altre direzioni, riteniamoci un punto d’arrivo… che non si sa bene dove andrà a finire. Nulla sappiamo e secondo me nulla dobbiamo sapere, salvo il fatto che dovremo sempre “adattarci”.

Cos’è, tuttavia, questo adattarsi? All’ambiente che sempre muta? E per il fatto che si pensa a mutazioni in alcune sue coordinate essenziali – a mio avviso non quelle principali come sempre credono gli “ambientalisti catastrofisti” – in quanto sottoposto alla nostra stessa azione? Personalmente, non sono per nulla convinto che quest’ultima sia così determinante. Ammetto, per carità, la possibilità di sbagliarmi e di essere forse ancora troppo poco pessimista. Tuttavia, il mio pessimismo si riversa su altri problemi. Ho la sensazione che anche il monolito si sia stufato di noi; in fondo ci ha dato il pensiero riflettente. L’uomo primitivo – del genere precedente il sapiens – era troppo spinto dai bisogni più immediati per la vita nei suoi aspetti animali; e non è stato in grado di interpretare correttamente ciò che esso voleva dirci. Ha pensato che ci insegnasse semplicemente a usare mano e braccio per impugnare uno strumento e perfezionarlo sempre più inseguendo finalità sia distruttive (ad es. l’eliminazione del nemico) sia costruttive (ad es. l’avanzamento tecnologico). Esso voleva invece insegnarci di più a riflettere, a restare perplessi, incerti, fermi in meditazione di fronte a quanto sta accadendo intorno a noi (e IN NOI). E via via, è questa capacità che abbiamo acquisito, ma forse troppo inconsapevolmente; per cui adesso stiamo un po’ perdendo quel carattere così cruciale che è la riflessione.

Il monolito ci presentava (alla riflessione appunto) una realtà, e non credo trascendente; solo non rilevabile con i nostri sensi, che ingannano più spesso di quanto non si creda. Molti sono sicuri che nella pratica immediata noi conosciamo la vera realtà; errore madornale. Tuttavia, anche chi non cade in questo semplicismo si illude però di coglierla in modo via via più approssimato precisamente tramite la riflessione, che ci spinge non a caso a progressive acquisizioni “conoscitive” per nulla affatto poste sempre in una sorta di progressione continua e per piccole aggiunte; si procede invece spesso per “rivoluzioni”, per scatti che modificano con notevole radicalità il quadro precedente. Tuttavia, alcuni continuano appunto a pensare che ci avviciniamo in ogni caso alla conoscenza della vera realtà. Dobbiamo al contrario abituarci a pensare, e ad accettare questo pensiero indubbiamente poco entusiasmante, che la realtà non è conoscibile tramite quelli che sono in effetti meri “escamotages” del nostro pensiero mirante all’azione.

Procediamo sempre, necessariamente, immobilizzando la realtà, mentre essa fluisce costantemente. Sarebbe inoltre buona abitudine accettare che il carattere da noi attribuito a questo flusso – continuo, discreto, granulare o altro – è frutto di ipotesi. Teniamo soprattutto fermo che la realtà comunque fluisce e ci spiazza, pur se noi siamo convinti di accumulare man mano una sua sempre più ampia e profonda conoscenza. Questa è la nostra sensazione: che la accumuliamo. Invece, semplicemente la fermiamo nel suo fluire (per attimi o per secoli a seconda degli ambiti in cui sviluppiamo la “conoscenza” d’essa); a volte falliamo subito, altre volte otteniamo dei successi momentanei (e anche questi momenti sono di ben diversa lunghezza in ambiti differenti). Poi siamo obbligati a mutare visione d’essa, dobbiamo immaginarla diversa almeno in parte, con nuovi caratteri prima impensati. E ogni volta diciamo orgogliosi: adesso ci siamo, siamo ormai al traguardo o almeno prossimi. Poi… beh ci siamo capiti!

6. In questo senso, il monolito non ci abbandona. Non c’è però alcun nuovo inizio; tutto continua come sempre. Dove nasce la “novità” che ci sembra di constatare nelle varie concezioni che, nel corso dei secoli, sono state via via formulate intorno al “mondo”? Dal fatto che fermiamo il flusso della “realtà” e la pensiamo secondo date modalità: sempre identica a se stessa o invece in divenire; e lo spazio-tempo di quest’ultimo è ritenuto, come già detto, continuo, discreto, granulare, ecc. Grazie alle mutazioni indotte dalla nostra capacità di riflessione, attribuiamo alla “realtà” nuove immagini, che spesso ci consentono di incidere con successo nel mondo a noi esterno (naturale, sociale, psicologico o altro; sissignore, scusatemi, ma tratto da “esterno” anche quello psicologico, poiché anche di questo, mi sembra, ci formiamo idee atte a creare la stabilità nei connotati di “un mondo” soggetto esso stesso al fluire incessante e squilibrante).

Il monolito non ci abbandona, ma ci segnala ad un certo punto che la “visione del mondo” formatasi da tempo è imprecisa, non funziona più, ci conduce ad insuccessi e addirittura ad assurdità sempre più evidenti. Quel campo di stabilità, che ci eravamo creati e che aveva funzionato per un determinato periodo, si frantuma in pezzi sempre più sconnessi fra loro. Tentiamo di riappiccicare i cocci, di trovare nuove relazioni tra essi e nuove funzioni di queste relazioni. Alla fine arriva “qualcuno” che dice: basta, è ora di rivedere tutto, le relazioni e connesse funzioni sono proprio differenti da quelle finora pensate, teorizzate. Prova e riprova, riapplica a pieno ritmo la riflessione e infine ristruttura l’intero campo, ne immagina uno del tutto nuovo, con nuove parti e nuove relazioni fra di esse; e orgoglioso annuncia che infine è stato compiuto un ulteriore passo verso il totale disvelamento del mondo: naturale, sociale, ecc. Diciamo ancora: balle, balle colossali!

E allora? Dobbiamo arrenderci o cadere in forme di relativismo estremo, frustrante, che rende di fatto inattivi e sempre incerti sulla scelta da compiere? No, non credo proprio. Quando abbiamo costruito un campo di stabilità che sembra garantire dati successi in quel dato contesto spazio-temporale del flusso in questione, dobbiamo batterci per la sua affermazione teorica, per superare l’attardarsi su campi precedenti e ormai evidentemente obsoleti, seguiti da ristrette minoranze di “dogmatici”, di credenti dalla mentalità ossificata. L’importante è sapere che dobbiamo batterci, e anche con estrema durezza e violenza più spesso di quanto non si voglia, dobbiamo a volte rischiare perfino la pelle per affermare il “nuovo”. Non possiamo fare lo stupido discorso: tanto, se poi infine pure questo verrà superato, perché battersi, perdere tempo e la propria vita? Se uno ragiona così, per favore, si suicidi e si tolga di mezzo, non intralci il cammino di questo “strano” animale dotato della capacità di almeno cogliere che la “realtà” fluisce.

Null’altro che questo: cogliere il fluire. E rendersi conto del suo produrre continui squilibri, ribaltamenti, instabilità, che rendono complicata l’azione dell’animale in questione. Quest’ultimo che deve allora fare se intende agire, e non per “istinto” seguendo solo il semplice riflesso stimolo/risposta? Deve sforzarsi – con la sua capacità di riflessione, diversa dal subitaneo riflesso – di costruire dei campi di relazioni tra parti diverse con la loro specifica funzionalità, campi in cui egli possa svolgere la propria azione fingendo la loro stabilità. Quest’animale deve solo rendersi consapevole che l’eventuale “buona prova” fornita da detti campi e dalla loro pensata stabilità (ripeto: di relazioni e funzioni) è temporanea. Per quanto durerà il loro successo? Nulla ci è detto in proposito e sempre saremo in ritardo nell’afferrare il momento in cui essi cominciano a svolgere malamente il loro compito.

Non pretendo affatto d’aver risolto un così complicato problema. L’ho solo posto, ho solo cercato alla bell’e meglio di precisare come mi sembra dovrebbe essere affrontato. Più di questo non so fare.

L”articolo è stato pubblicato su [url”Conflitti e strategie”]http://www.conflittiestrategie.it/[/url], il 17 settembre 2015.

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