Gico il lombrico: verme solo di fatto

'«Semplicemente avrebbe voluto essere in grado, ogni tanto, di riuscire a tenersi un po'' sollevato rispetto all''usuale suo stazionamento rasoterra...» [Franco Nova]'

Gico il lombrico: verme solo di fatto
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4 Ottobre 2015 - 07.22


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di Franco Nova

Riceviamo e pubblichiamo con piacere questo nuovo racconto di Franco Nova, che ringraziamo per la disponibilità a collaborare con noi. Il testo è uscito su [url”Poliscritture”]http://www.poliscritture.it/[/url], il 2 ottobre 2015. (pfdi)

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Gico il lombrico si aggirava triste triste su un terreno argilloso reso tutto melma per la troppa pioggia caduta in mattinata. Adesso spuntava un timido sole autunnale, c’era un po’ di caldo ma il fango era tutt’altro che rappreso e solidificato. Gico strisciava con grande difficoltà. Pensava sospirando a quegli animali che avevano almeno due zampe, non rendendosi tuttavia conto che anch’essi non camminavano affatto agevolmente su quel terreno così viscido e in cui dunque si sprofondava. Lui almeno era leggero e andava perciò incontro a brevi momenti di minimo affondamento. Semplicemente era il suo modo obbligato di procedere che rendeva arduo il compito. Sappiamo come devono fare i vermi. Per loro fortuna non hanno scheletro, tanto meno spina dorsale (e per questo sono sempre disprezzati dagli altri animali e in specie da quell’odioso dell’uomo); ci si deve adattare a raggomitolarsi e poi scattare in lunghezza, raggomitolarsi di nuovo e… insomma ci siamo capiti, una fatica continua e sfibrante.

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Era per sua fortuna un lombrico agile, coraggioso e assai poco verme d’animo; era però molto vigile e attento agli incontri che poteva fare. Trovare sulla sua strada un qualsiasi uccello (in specie però quei maledetti merli!) o anche un gallinaceo, insomma uno di quegli animalacci con lungo becco, spesso pure uncinato, sarebbe stato fatale; in pratica, non si sarebbe salvato, malgrado fosse tutto sommato veloce per essere così strisciante. Soffriva però nell’animo di dover procedere in quella guisa. Poteva accettare di essere verme di fatto; in fondo, erano forse migliori gli altri animali, erano più buoni, meno falsi? Spesso violenti invece, alcuni pronti a dichiararsi amici e a rivolgergli complimenti per la sua piacevole rotondità di tubicino in movimento con quella specie di ancheggiare un po’ femmineo; poi, non appena si era un po’ allontanato, sentiva benissimo il loro ridacchiare, il loro sparlare e pettegolare. Che schifo questi esseri animati, pieni di arie, mentre durano così poco, ad esempio, in rapporto a quella pietrona incontrata poco prima.

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Semplicemente avrebbe voluto essere in grado, ogni tanto, di riuscire a tenersi un po’ sollevato rispetto all’usuale suo stazionamento rasoterra. Non riusciva a vedere bene davanti a sé; proprio per le sue dimensioni, era appena, ma proprio appena, al di sopra delle formiche che pure hanno le loro sottili zampette. Non vedere quasi niente più avanti era fastidioso. Quello che però lo faceva sospirare di cocente rammarico era quel suo dover restare di continuo attaccato alla terra, doverla sempre accarezzare anche quando l’avrebbe volentieri presa a calci; ed essere sempre sporcato da essa, perché poi nemmeno riusciva, come altri animali, a leccarsi e pulirsi il corpo. Già, leccarsi; una parola, senza lingua. Nemmeno quella gli era stata fornita, Natura infame! Senza zampe, senza spina dorsale, senza lingua. Si può vivere così e non avere nemmeno qualche attimo di felicità, qualche momento di pacificazione con il mondo; quella fresca serenità che, per quanto di breve durata, ti riconforta e ti consente rinnovati sprazzi di energia? Rimuginava in questo modo apparentemente doloroso, ma si sentiva contento d’essere vivo e di girare tutt’intorno, sia pure senza sollevarsi da terra.

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Era assorto in questi pensieri; e si risvegliò subitamente d’istinto per non trovarsi magari, senza nemmeno accorgersene, in presenza di un animale vermivoro. Cosa si presentava davanti a lui a distanza che non sapeva calcolare? Una sorta di cupola color marroncino scuro con alcune strisce di tonalità più chiara, perfino quasi bianche. Si moveva con un quasi impercettibile dondolio e si avvicinava poiché procedeva proprio in senso contrario al suo. Alla fine fu in grado di avvistare sotto quella cupola un animaletto assai grazioso, pur esso strisciante e con due lunghe antenne su quella che sembrava proprio essere una testa. Era strano non l’avesse mai incontrato prima. E’ evidente che Gico era molto giovane e forse un po’ troppo pigro; aveva certamente girato poco il mondo, anche perché sempre preoccupato di fermarsi e nascondersi appena trovava ciuffi d’erba folta onde non farsi scorgere dagli animali con becco.

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L’animaletto l’aveva già scorto da tempo e quando fu vicino si fermò; e più o meno nello stesso momento s’arrestò anche Gico. Si osservarono, l’altro non sembrava molto vivace e nemmeno avere gran voglia di parlare; Gico non sapeva che era soltanto un po’ lento di riflessi e tardivo nelle sue reazioni. Parlò lui allora e chiese al nuovo venuto chi fosse. Almeno una decina di secondi di silenzio e poi con voce lenta e quasi sonnolenta arrivò la risposta: “sono la lumaca, a dir la verità più precisamente una chiocciola”. Gico restò curioso quanto prima, comunque azzardò: “allora sei una femmina?”; “beh, più o meno diciamo così”. Ancora silenzio e le due antenne in testa all’animale continuavano a ondeggiare. “Perché quelle antenne sulla testa? E soprattutto perché ti sei caricata quel peso enorme sul corpo?”. La chiocciola sembrò esitare, ma sol perché era veramente poco sveglia e il senso delle parole arrivava al… boh come chiamarlo?… con un ritardo impressionante, almeno per Gico che era un lombrico di rara prontezza. “Non sono antenne, sono i miei occhi; e non chiedermi come fanno tutti perché li ho così, non saprei risponderti. So però che sono comodi, guardo abbastanza tutt’intorno e vedo anche dietro se mi fanno ‘scherzi’ alle spalle. Quella che mi porto sul corpo è la mia casetta, assai comoda. Quando voglio riposare o anche quando c’è qualche pericolo mi ci ritiro e me ne resto lì quatta quatta finché voglio. Ha un colore che si confonde bene con il terreno e anche con il colore delle foglie secche che stanno adesso cadendo”.

Gico era ammirato della beltà della femminuccia, avvertiva qualche sensazione nuova anche se comprendeva che doveva essere tutt’altro che sveglia e veloce di comprendonio; diciamo pure un po’ scema. Tuttavia, era tanto carina, aveva un corpicino morbido e teneruccio, avrebbe avuto voglia di strofinarsi e carezzarlo. L’unica cosa che lo schifava un po’ era una schiumetta biancastra che essa aveva lasciato dietro di sé; non si permise di chiedere cosa fosse e perché perdesse le bave (questa era la sensazione). Domandò invece del suo nome; lei tentennò (sempre per la sua incorreggibile lentezza di reazione): “Forlotta” rispose. Che brutto nome per una animaletta così bellina pensò Gico: “potrei chiamarti Oricellina?”; “E perché? Nemmeno per sogno, il mio nome è quello di una vecchia lumaca di tempi assai lontani, che è stata all’origine di una nobile dinastia da cui sembra derivi anch’io. Erano lumache estremamente apprezzate dagli uomini che le cucinavano in tutti i modi possibili. Sono molto orgogliosa di questo e ci tengo dunque al mio nome”.

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Gico restò allibito; era orgogliosa di essere mangiata da quegli schifosi esseri, crudeli oltre ogni dire?! Egli era ben felice che questi infami non apprezzassero i vermi. Almeno non gli uomini civilizzati che abitavano in quella zona; aveva udito raccontare storie diverse di altri uomini in lande selvagge, dove perfino lui sarebbe finito nella loro pancia di animalacci non pennuti e non dotati di becco. Cambiò comunque discorso e chiese se non fosse anche lei infastidita dal non avere zampe ed essere costretta a strisciare. Forlotta divaricò e arcuò un po’ le antenne occhialute, che sembra sia il segno di sorpresa della sua specie: “Perché mai? E’ molto riposante, non debbo nemmeno sollevare e poi riporre a terra la mia casetta, me la trascino così bella attaccata al corpo e non subisce alcuna scossa che magari potrebbe un po’ danneggiarla. E poi quando piove e il terreno è tutto impregnato d’acqua, che godimento scorrere su di esso, morbido e pantanoso. Se vuoi che andiamo d’accordo non farmi mai venire in mente che potrei avere quegli orrendi piloni su cui brancolano gli animali peggiori del mondo”. “Mi sembrava che tu apprezzassi gli uomini, che in fatto di zampacce non stanno per nulla male”. “Ma quelli hanno il buon gusto di apprezzarci e di cucinarci con tanta premura e con grande inventiva, condendoci in tutti i modi possibili. In questo sono molto raffinati e quindi all’altezza della nobile dinastia forlottiana da cui discendo. Non fare confusione tra questi ghiotti mangiatori di lumache e gli altri animali, molti dei quali ci mangiano così, crude e un po’ viscide quali siamo, rozzi e incivili che non sono altro”.

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Decisamente è scema, pensò Gico; e quel sentimento un po’ tenero che aveva iniziato ad insinuarsi nel suo lungo corpo si attenuò, e di molto. Tuttavia, anche lui, come ogni animale, aveva una certa dose di opportunismo. In fondo la lumaca aveva quegli occhi ben levati in alto e poteva avvistare prima i pericoli. Inoltre, strisciava proprio bene sul terreno e, andando appunto avanti, poteva spianarglielo un poco. Veramente c’era quella striscia di bavetta che lasciava dietro di sé; ma insomma c’è mai qualcosa di perfetto in questo “porco mondo”? Le chiese quindi se poteva accompagnarsi ad essa nel prosieguo del cammino. “Veramente andiamo in direzioni opposte” obiettò Forlotta, “però certo mi piacerebbe che tu venissi con me, è tanto tempo che sono sola. Ma come facciamo? Io in genere vado sempre dritta, e poi devo ogni tanto fermarmi, riposarmi in casetta e infine riprendere il cammino nella stessa direzione. Difficile per me cambiare abitudini. Non sono come quelle sporcaccione delle mie cugine, le limacce (non ne conoscerai mica, spero!), che girano dappertutto impestando i terreni e distruggendo gli orti degli uomini, che le accoppano a centinaia e nemmeno le mangiano da tanto fanno schifo”.

“Oh – rispose Gico – io non ho nessun luogo preciso dove andare, giro in qualsiasi direzione e anch’io mi fermo volentieri ogni tanto perché questo mio convulso procedere mi stanca”. Finalmente Forlotta diede la sensazione di una qualche reazione meno tarda: “Sono contenta allora, muoviamoci e andiamo insieme”.

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Saranno riusciti a fare una ventina di metri? L’andatura di Forlotta mal si conciliava con quella veloce e schizzante di Gico; procedeva lemme lemme che una qualsiasi tartaruga già in letargo o quasi l’avrebbe raggiunta d’un balzo. Gico soffriva molto per quella lentezza, ma vi si adattava; ormai glielo aveva chiesto lui e lei si era lasciata convincere di buon grado e con molta gentilezza e quasi grazia. Comunque, in quasi mezzora più di venti metri non avevano fatto. Ed ecco una lunga e fitta striscia di formiche marcianti, tutte ben allineate e che non lasciavano spazio per passare. Erano tutte intente alla marcia e sembrava che ci fosse qualcuno a segnare il passo da tanto erano ordinate e prive di qualsiasi incertezza od ondeggiamento. Ne videro una appena appena un po’ distratta dal loro sopraggiungere e le chiesero dove andassero così militarmente organizzate.

La formica si fece ripetere la domanda e poi rispose che un cretino di bambino maniaco e un po’ fuori di zucca aveva distrutto un po’ più a valle il loro nido, aveva sparso della benzina e dato fuoco bruciando un bel po’ di loro. Erano scappate in gran disordine ed era strano che essi le considerassero organizzate; evidentemente non avevano mai visto vere trasmigrazioni di formiche, in specie quelle rosse come lei, piccoline e ubbidienti agli ordini superiori. Da dove arrivassero questi ordini i due non lo capirono, ma lasciarono perdere interrogazioni in tal senso. Gico pensò che esseri meno autonomi di queste formiche non potevano esistere, visto che procedevano “in disordine” come fossero ad una parata militare; e per di più senza nemmeno un vertice di comando, ma soltanto, evidentemente, delle prime file che erano fuggite davanti alla furia del bambino in una qualche direzione, e tutte le altre dietro come si trattasse dei loro capi. Che teste di rapa pensò il nostro.

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Allora chiesero se almeno fosse possibile interrompere la sfilata per mezzo minuto in modo da lasciarli passare oltre: lungo la loro via pur essa segnata – pensò malinconicamente Gico – dalla scarsa fantasia e passiva abitudine della sua compagna. La formica li guardò inorridita mentre continuava la marcia e, allontanandosi, gridò: “siete matti, se viene lasciato anche un ‘fiat’ di interruzione, tutto il seguito poi si disperde, non sa più dove andare”. Gico scosse la testa (per quanto può farlo un verme) e disse a Forlotta che animali più cretini e privi di autonomia di quelli non ne potevano esistere al mondo. Lei sospirò e lui fraintese pensando all’approvazione di quel che aveva detto; no, lei nemmeno aveva afferrato il senso delle sue parole. Passiamoci sopra. Il vero fatto è che dovettero attendere un’altra mezzora prima che il gran corteo avesse finito di sfilare in “fuga disordinata”. E iniziavano le prime oscurità dell’imbrunire.

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Un’altra mezzora, e anche meno, ed ecco un piccolo stagno, invero poco più di una pozzanghera d’acqua. Tuttavia, era tutto un gracidare di rane, brutte da far venire un colpo, tronfie nel loro gridare al mondo l’inconcepibile gioia di esserci e vivere. Cosa avevano da essere felici quelle sciocche, non si capiva! O forse soltanto lo sembravano per la vanità del loro gonfiare il petto (ma che petto! Un ventre orrendo: quello vedeva Gico) per emettere strida che per loro erano evidentemente suoni armoniosi, tali da allietare il creato, mentre al povero verme si accapponava la pelle (ammesso che ciò fosse possibile, e non può essere ammesso). Forlotta si voltò e disse: “come sono simpatiche, vero?”. “Eh, come no, lo pensavo anch’io” rispose Gico; e si sentì ancora più estraneo a quell’animale che pure strisciava come lui. Che testa poteva mai avere? E che gusti! Così graziosa, tutta per benino (a parte la bavetta che continuava a lasciare dietro a sé e che lo schifava un poco), appartenente – così aveva riferito – ad una nobile dinastia passata; ma, quanto a cervello, non più acuto di quello delle formiche.

Era però triste Gico nel fare simili considerazioni sconsolate; non avrebbe voluto pensare in siffatto modo, ma lei si tirava dietro le critiche come le noccioline che avrebbero dovuto essere tirate dal pubblico ad un comizio di Beccamorto, il presuntuoso tacchino “democratico” (con tanto di ruota), incontrato per caso un paio di giorni prima nel recinto ove stazionavano galline chioccianti e galletti petulanti, sempre però assenzienti alle stronzate del garrulo oratore. Eppure Forlotta apparteneva alla sua stessa “classe” di esseri striscianti, ci sarebbe dovuta essere una vicinanza di pensieri, convinzioni, gusti, solidarietà contro i pennuti alati con becco che vengono a sopprimerti se appena possono; e che si rischiava fossero richiamati da quel frastuono osceno delle rane. Evidentemente – pensò Gico – basta che lo strisciante abbia quella gracile casupola (da lui stoltamente ritenuta un solido rifugio di fronte al becco aguzzo dell’alato) e subito si differenzia e si sente vicino alle schiere dei gracidanti e annunciatori di possibili aggressioni.

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Infatti, Forlotta si fermò, attese la solita decina di secondi e poi emise la sua voce dolce e insinuante, e tanto debole: “qui c’è un bel po’ d’acqua e poi queste sirene mi cantano la ninna nanna. Io mi fermerei qui. Tu cosa decidi?”; “Io continuo la marcia perché qui non mi sento per nulla sicuro; vedo non lontano folti ciuffi d’erba dove starò egualmente fresco e per di più nascosto e riparato dai nemici. E’ stato un piacere conoscerti, spero ci rincontreremo presto”. La parte finale del suo corpo tubiforme si aggrovigliò un attimo, che è il modo in cui i vermi fanno le corna e, se appena un po’ più attorcigliato, il gesto dell’ombrello. La lumaca mosse le antenne e anch’essa le incrociò, che è però il loro modo di sorridere. Gico provò un attimo di rimorso per l’ipocrita saluto appena fatto e pensò che, dopo tutto, la lumachina era solo un po’ indietro di cervello ma non cattiva. La salutò di nuovo e con sincerità, e si allontanò senza però più voltarsi indietro.

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Non si sentiva del tutto soddisfatto; quell’incontro non lo aveva molto rassicurato circa la bellezza dello stare al mondo. Si accorse che, in fondo, si era aspettato di più da quell’animaletto così carino e con quel modo di procedere assai grazioso e senza scosse; e privo di ancheggiamenti, molto serio e misurato. Tuttavia, la forma era ben diversa dalla sostanza. Lei era certamente un tipo fine, sembrava modesta; quei suoi occhi antennati testimoniavano però il contrario e la sua intelligenza non corrispondeva all’aspetto seducente. Inoltre quel suo orgoglio di essere apprezzata come cibo dagli uomini, e da questi essere cucinata in mille pietanze diverse, metteva in mostra un servilismo portato all’annientamento di ogni sua dignità pur di entrare a far parte del pranzo dei potenti. No, era molto dispiaciuto di quell’incontro e delle belle sensazioni che inizialmente gli aveva indotto.

Si ricordò allora dell’incontro del giorno prima, con una farfalla; e questa sì, bella senza alcuna riserva da opporre. E nel contempo intelligente e stimolante. Gli aveva detto: “Non essere così rattristato o timoroso per non avere né ali né zampe. Certo, madre Natura non ti ha molto favorito, ma si attende proprio per questo da te un di più di orgoglio, non il senso di vergogna. Tu ti raccogli in te stesso quando ti raggomitoli per poi scattare in avanti. E procedi comunque, e avanzi ogni volta di un bel po’ tenuto conto della scala delle tue dimensioni. Se avessi spina dorsale non potresti ottenere questo risultato. Non preoccuparti quindi dell’irrisione di cui ti fanno oggetto per questa carenza, come se si trattasse di debolezza, di asservimento al più forte. Non è vero, dipende soltanto da come si guarda il fatto in sé, da come ci si pone di fronte al potente, che è in fondo un pre-potente!”.

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Brava la farfalla, tanto bella quanto dotata di cervello! Con la spina dorsale non avrebbe potuto raggomitolarsi, che era un vero raccogliersi in se stesso. Infatti, egli pensava alla posizione già raggiunta e la prendeva totalmente in carico con il suo corpo ripiegato; e poi studiava in un attimo il terreno dove si sarebbe situato con il suo scatto. Inoltre non proseguiva sempre o quasi in una direzione come la chiocciolina, ma mutava a seconda delle circostanze, del luogo che gli pareva più opportuno raggiungere. Certamente, a volte anche per paura dei possibili nemici divoratori e per scappare dunque da loro; forse che aver paura – ma non farsi prendere dal terrore né procedere a casaccio – è sempre disdicevole? Avere coraggio quando non ci si può opporre al più forte è solo da sciocchi (che poi passano a volte per eroi); avere intelligenza e consapevolezza dei pericoli non è essere vermi senza nerbo, non è piegarsi in ogni occasione al più forte. Così aveva fatto il tacchino oratore; aveva concionato nel recinto, con le galline a scuotere sempre la testa per approvare e poi, una volta arrivato l’uomo, a lui si era consegnato. E aveva perfino tentato di scaricare la voglia mangereccia di costui sulle sue misere ascoltatrici; almeno per quella volta gli era andata male e il prevaricatore aveva fatto la festa a lui!

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Si sentiva meno lieto che al mattino quando faceva finta di brontolare per la sua condizione di verme ed era in fondo contento di vivere. Non era scontento nemmeno adesso, ma certamente più consapevole che questo mondo è veramente, e abbastanza spesso, un “porco mondo”. Tutto lì. Bisogna prenderne atto. Se proprio, arrivati ad un certo punto, non ce la si fa più, ci si consegnerà al primo predatore che si mostrerà all’orizzonte. Tuttavia, se si stringono i denti (beh, maledizione, nemmeno questi aveva, ma insomma…. ci siamo capiti), si può ben essere vermi senza affatto perdere in dignità. Sono pochissimi i vermi che si salvano in tal senso; Gico sentiva che lui non si sarebbe piegato ai prepotenti. E Forlotta? Non la ricordava già più, il suo posto era ormai stato prepotentemente preso dalla farfalla. Chissà come si chiamava, non glielo aveva chiesto; accidenti, e come ritrovarla? Niente, un bel ricordo, è già qualcosa. Avanti: un raggomitolarsi ed un guizzo, un altro raggomitolarsi e un altro guizzo… sempre nuove postazioni. E poi? Si crepa, come vuoi che vada a finire? Come tutti gli altri, vermi o non vermi!

(2 ottobre 2015) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.es/[/url]
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