‘di Sandro Vero
Un’immagine o una sequenza di immagini che suscita raccapriccio, ecco ciò che spesso funge da grimaldello con cui forzare i meccanismi emozionali del follower. La finalità è quasi sempre quella di garantirsi una forma speciale di identificazione con la vittima rappresentata: ciò che diviene amplificato quando questa è un bambino, vivo o morto che sia.
Il meccanismo funziona in modo che fra lo stimolo in arrivo e la risposta in uscita nulla posa frapporsi di significativo, nulla cioè che possa deviare la risposta, bloccarla, sospenderla, innescando invece un processo di pensiero.
Se lo stimolo in arrivo è una sequenza esplicita che riproduce un’esecuzione, mettiamo uno sgozzamento, la forza dirompente della visione inonderà – come una sorta di ictus – il recipiente simbolico del follower, privandolo di ogni capacità di discernimento, di analisi.
Intendiamoci: uno sgozzamento è cosa atroce qualunque sia il soggetto che lo compie e quello che lo subisce! Punto. Ma non comprendere la struttura del messaggio, non recuperare il suo target semiotico, insomma non capire il senso di ciò che si vede è indubbiamente uno degli elementi chiave che fanno parte della incessante produzione di storie con cui si manipolano le menti.
Per capire fino in fondo cosa stiamo dicendo è indispensabile fare una cosa improba: una sorta di ralenti del gesto riprodotto, rappresentato. Una procedura indispensabile alla comprensione del meccanismo.
Qual è il fine fondamentale di una costruzione semiotica di tale natura? Sembra piuttosto evidente: affermare, con la forza iconica del registro visuale, l’assoluta riconducibilità del gesto stesso, nella sua forma condensata, alla causa che l’ha prodotto, che lo ha reso possibile. Vale a dire alla motivazione ideologica, concettuale, spirituale, politica che dovrebbe dare un senso al gesto stesso.
Bene. Questo è il miracolo semiotico. Il gesto sembra impenetrabile, monolitico, totalmente governato da qualcosa che lo precede, che lo innesca, che tuttavia rimane, come una sorta di nervatura che lo attraversa, in ogni frame della sequenza. Esattamente ciò che serve per dimostrare, di volta in volta, l’assoluta implicazione reciproca che lega il gesto, tutto, al suo innesco, vale a dire la sua motivazione.
Ciò che viene totalmente celato da questa costruzione è un fatto clamoroso: un uomo che sgozza un altro uomo, o un bambino, o una donna, compie non UN gesto, un unico singolo gesto non analizzabile, non separabile, non penetrabile. Ne compie parecchi, concatenati fra di loro, in un rapporto sequenziale in cui ogni frame garantisce una quantità adeguata di energia al frame successivo, ne dirige la plasticità , ne detta la direzione. Fra – mettiamo – il momento in cui il prigioniero è fatto sdraiare a terra e il momento in cui il carnefice passa la lama sul suo collo si succedono una serie di “coseâ€, di microesperienze gestuali, cinestesiche, libidiche, durante le quali la causa iniziale, l’innesco, è molto probabilmente andato letteralmente a farsi fottere.
Questo non vuole dire, ovviamente, che l’innesco non sia importante: per sgozzare un uomo bisogna avere avuto (auto-prodotto) una qualche sorta di autorizzazione simbolica. Vuole dire invece che il discriminante che si vorrebbe far passare fra una “causa†e un’altra, fra una religione e un’altra, fra un’idea e un’altra, una totalmente malvagia, l’altra totalmente buona, è una frottola! Un trucco drammaturgico.
Il frame finale, quello del coltello che apre la gola della vittima, si nutre in grandissima parte dell’energia sprigionatasi dal frame immediatamente precedente, diciamo: quello del percepire la vittima totalmente alla propria mercè, nella postura imposta.
Risultato: semplice. Un imbecille è un’imbecille, anche se ha letto, o addirittura amato, Marx.
(7 settembre 2016)Infografica: elaborazione su immagine © L”immagine potrebbe essere soggetta a copyright.
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