Diciamocelo: gli oggetti sono proprio insopportabili. Dotati di una capacità di resistere alla volontà umana assolutamente irriducibile, seguono logiche aliene cui la mente umana non farà mai veramente l’abitudine.
Scivolano, si modificano, non rispondono mai immediatamente alle necessità di chi li manipola e tutto ciò, nell’era del computer personale, si è ulteriormente acuito in una sorta di delirio dell’oggetto: interi pomeriggi a tentare di venire a capo di una installazione software, di montare il nuovo palo per le tende, di riparare l’elettrodomestico appena acquistato. Quanti pensano che la garanzia degli acquisti andrebbe estesa anche ai chiodi, vengono guardati in modo obliquo ed etichettati come sfaticati incapaci di gestire il proprio spazio vitale.
È da chiedersi: quanto è bello il fatto che esistano mestieri, ognuno per ogni tipo di oggetto, che ti sollevano dall’onere di occupartene in prima persona? Naturalmente, ponendo come premessa che è meglio saperlo fare, comunque, anche se poi la piena dignità si raggiunge astenendosi dal farlo.
Persino le pinne, i fucili e gli occhiali – che dovrebbero rendere l’immersione più godibile – in realtà la peggiorano in maniera esponenziale: la loro indossabilità precaria, la loro immensa scomodità , l’ingombro, tutto complotta per trasformare il tuo bagno in una tragedia.
Una coltre di pregiudizio ammanta il rapporto con gli oggetti nella cultura contemporanea: quando sembra che in gioco vi sia il mondo naturale, dentro il quale il primitivo della Papuasia usa gli oggetti necessari per la sua sopravvivenza (e sono in gran parte gli stessi che lui sa anche creare), in realtà ciò che vi è in gioco è un mondo di segni, fra i quali fatichiamo a destreggiarci. Perché gli oggetti, nella contemporaneità , sono nient’altro che segni che stanno al posto di altri oggetti, in quella dimensione circolare ed effimera dentro la quale non manipoliamo più una cosa per vivere ma la manipoliamo per comunicare.
Pretendere di smontare il circuito anticalcare della lavatrice (magari mettendoci un intero pomeriggio…) fa i conti pesantemente con la necessità di dialogare con una parte di noi che si identifica nella “solvibilità †immediata, senza mediazione alcuna, del problema che l’incrostazione ci procura. L’urlo di guerra che lanciamo alla nostra inettitudine è pieno di una rabbia feroce verso l’oggetto, da cui distoglieremmo volentieri lo sguardo per godere di altro.
Si sono persino create delle iscrizioni segniche che suggellino questa disposizione: le donne non maneggiano, gli uomini maneggiano; i poeti e i filosofi non maneggiano, i geometri maneggiano; e così via fino alla fine di ogni classificazione possibile, laddove le differenze cominciano ad apparire per ciò che sono: delle incredibili sciocchezze, foraggiate dal bisogno di essere in riga con il partito dei “praticoniâ€, nell’amnesia quasi assoluta che è la necessità a rendere l’uomo capace e che non vi è necessità alcuna di smontare una lavatrice quando qualcuno lo può fare per voi (e questo è un altro elemento semiotico: mi rapporto agli oggetti per dirmi che sono solo!).
Ciò che sembra essere scotomizzato è qui il principio della dignità dell’astensione, che viene nevroticamente malinteso come sintomo di una inadempienza se non di un’assenza: ciò che non viene adeguatamente riconosciuto è – in altre parole – il principio storico dell’emancipazione umana dalla tirannia delle cose, che non è resa più innocua solo se si pretende compulsivamente di manipolarle, governarle, ridurle al bisogno umano. La storia della civiltà è un cammino che progressivamente ma inesorabilmente allontana l’uomo dall’asfissia degli oggetti, rendendolo libero di occuparsi d’altro.
Uno degli spot che resiste all’usura del tempo televisivo è quello dell’amaro Montenegro, rinomato per il suo possedere un sapore “veroâ€, il cui gioco rappresentativo insiste sull’equazione logica:
[center]uomini “veri†= amaro dal sapore “vero†[/center]
Ora, dalla logica formale ricordiamo qui appena la definizione di equivalenza logica nei termini del calcolo preposizionale:
[center]x = y : x se e solo se y[/center]
e dunque, facilmente, si apprezza il “vero†sapore se e solo se si è uomini veri, ma – ancora – quando si è uomini veri?
Quando e solo quando si fanno le cose descritte nello spot e cioè: salvare anfore, pianoforti impantanati nelle spiagge (con buona pace di Jane Campion e delle sue lezioni di piano), animali feriti e quant’altro, in un parossistico crescendo in cui si può persino immaginare che si faccia un volo di 200 Km solo per soccorrere una mosca la cui ala si è spezzata (e di cui ovviamente vi è giunta adeguata segnalazione), come d’altronde suggerisce il principio che una farfalla caduta a Pechino procuri una tempesta a Buenos Aires!
Chi non è mai stato tentato di chiedere – anche con una certa veemenza – ai nostri amici “veri†del Montenegro-Trophy se non hanno mai altro da fare che non sia impegnarsi in questa crociata per la salvezza delle cose, visto che noi non riusciamo a trovare il tempo neanche per leggere un buon libro…
Ecco: l’ambito semantico della prepotenza degli oggetti è tutta qui, nell’espressione diligente di questo spot per uomini veri che trasforma qualcosa che nella nostra tristezza quotidiana può persino essere insopportabile in qualcosa di eroico, indispensabile, una missione!
(11 dicembre 2016)Infografica: © Magritte, La Trahison des images (1928).
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