Città ribelli, resistenza urbana e capitalismo

La gente deve diventare attiva, uscire, muoversi. Dobbiamo dare una grande spinta se vogliamo vedere qualcosa di diverso nella nostra società. [D. Harvey]

Città ribelli, resistenza urbana e capitalismo
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8 Febbraio 2017 - 14.59


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di David Harvey e Vincent Emanuele

Emanuele: Inizi il tuo libro ‘Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution’ [i]Città ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana[/i] descrivendo la tua esperienza a Parigi negli anni ’70: “Alti edifici giganti, autostrade, edilizia popolare senz’anima e mercificazione monopolizzata nelle strade che minacciano di inghiottire la vecchia Parigi […] Parigi dagli anni ’60 in poi è stata chiaramente nel mezzo di una crisi esistenziale”. Nel 1967 Henry Lefebvre scrisse il suo fondamentale saggio “Del diritto alla città”. Puoi parlarci di quel periodo e dell’impulso a scrivere Rebel Cities?

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Harvey: Nel mondo gli anni ’60 sono spesso considerati, storicamente, un periodo di crisi urbana. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli anni ’60 furono un’epoca in cui molte città centrali finirono in fiamme. Ci furono rivolte e semi-rivoluzioni in città come Los Angeles, Detroit e naturalmente dopo l’assassinio del dottor Martin Luther King nel 1968 […] più di 120 città statunitensi subirono disordini e azioni di rivolta minori e grandi. Cito questo negli Stati Uniti perché ciò che in effetti stava accadendo era che la città veniva modernizzata. Era modernizzata intorno all’automobile; era modernizzata intorno alle periferie. A quel punto la Città Vecchia, o quello che era stato il centro politico, economico e culturale della città in tutti gli anni ’40 e ’50 era lasciata alle spalle. Ricorda, quelle tendenze avevano luogo in tutto il mondo capitalista avanzato. Dunque non si trattava solo degli Stati Uniti. Ci furono gravi problemi in Gran Bretagna e in Francia dove un vecchio stile di vita veniva smantellato, uno stile di vita di cui penso nessuno dovrebbe avere nostalgia, ma tale stile di vita era cacciato e sostituito da un nuovo stile di vita basato sulla mercificazione, sulla proprietà, sulla speculazione immobiliare, sulla costruzione di autostrade, sull’automobile, sulle periferie e con tutti questi cambiamenti abbiamo visto un’accresciuta disuguaglianza e disordini sociali.

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Secondo dove ci si trovava all’epoca c’erano disuguaglianze strettamente di classe o erano disuguaglianze di classe concentrate su specifici gruppi di minoranza. Ad esempio, ovviamente negli Stati Uniti si trattava della comunità afroamericana residente nei quartieri poveri che aveva pochissimo in termini di opportunità di occupazione o di risorse. Così gli anni ’60 furono definiti in termini di crisi urbana. Se si torna indietro e si guarda a tutte le commissioni che dagli anni ’60 stava esaminando che cosa fare riguardo alla crisi urbana, ci furono programmi governativi messi in atto dalla Gran Bretagna alla Francia, e anche negli Stati Uniti. Analogamente tutti tentavano di affrontare tale “crisi urbana”.

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Ho considerato questo un argomento affascinante di studio e un’esperienza traumatica da vivere. Sai, questi paesi che stavano diventando sempre più ricchi stavano lasciando indietro persone che erano rinchiuse in ghetti urbanizzati e trattate da esseri umani inesistenti. La crisi degli anni ’60 fu una crisi cruciale e penso che Lefebvre l’abbia compresa molto bene. Egli riteneva che le persone nelle aree urbane dovessero aver voce nel decidere come dovevano essere quelle aree, e quale processo di urbanizzazione dovesse aver luogo. Al tempo stesso quelli che si opponevano volevano invertire l’onda delle speculazioni immobiliari che stava cominciando a travolgere le aree urbane di tutti paesi capitalisti industrializzati.

Emanuele: Tu scrivi: “La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo, quali relazioni con la natura apprezziamo, quale stile di vita desideriamo o quali valori estetici coltiviamo”. Citi anche la Comune di Parigi come evento storico per analizzare e forse aiutarci a concettualizzare come potrebbe essere il “diritto alla città”. Ci sono altri esempi storici sui quali dovremmo riflettere?

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Harvey: Quale tipo di città desideriamo costruire dovrebbe riflettere i nostri desideri e bisogni personali. Il nostro ambiente sociale, culturale, economico, politico e urbano è molto importante. Come sviluppiamo questi atteggiamenti e tendenze? Questo è importante. Dunque, vivendo in una città come New York ci si deve muovere attraverso la città, spostarsi e trattare con altre persone in un modo molto specifico. Come tutti sanno, gli abitanti di New York tendono a essere freddi e sbrigativi tra di loro. Ciò non significa che non si aiutino a vicenda, ma al fine di far fronte alla velocità quotidiana delle cose, e alla grande quantità di persone nelle strade e nelle metropolitane, si deve affrontare la città in un determinato modo. Allo stesso modo, vivendo in una comunità chiusa dei sobborghi conduce a determinati modi di pensare riguardo a in che cosa dovrebbe consistere la vita quotidiana. E queste cose evolvono in atteggiamenti politici differenti, che spesso includono mantenere certe comunità chiuse ed esclusive, al costo di ciò che avviene nella periferia. Creiamo questi atteggiamenti e ambienti politici.

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Le reazioni rivoluzionarie all’ambiente urbano hanno molti precedenti storici. A Parigi nel 1871 c’era un tipo di atteggiamento per cui la gente voleva un tipo diverso di urbanizzazione; voleva che vi vivesse un tipo diverso di persone; era una reazione allo sviluppo dell’alta società, speculativo consumistico che stava avendo luogo all’epoca. Dunque ci fu una rivolta che chiedeva generi diversi di relazioni: relazioni sociali, relazioni di genere e relazioni di classe. In conseguenza se si vuole costruire una città in cui le donne si sentano a loro agio, ad esempio, si costruisce una città molto diversa da quelle che normalmente abbiamo. Tutte queste questioni sono legate alla domanda riguardante in quale genere di città vogliamo vivere. Non possiamo separarla dal tipo di persone che vogliamo essere; quale tipo di relazioni di genere, quale tipo di relazioni di classe, e simili. Per me il progetto di costruire la città in un modo diverso, con una filosofia diversa, con scopi diversi, è un’idea molto importante. Occasionalmente tale idea è stata raccolta da movimenti rivoluzionari, come la Comune di Parigi. E ci sono molti altri esempi che potremmo citare, come lo Sciopero Generale di Seattle circa nel 1919. L’intera città fu presa dalla gente ed essa cominciò a costruire strutture comunitarie.

A Buenos Aires queste stesse cose stavano accadendo nel 2001. A El Alto, 2003, c’è stato un altro tipo di esplosione. In Francia, abbiamo visto le aree suburbane dissolversi in rivolte e movimenti rivoluzionari negli ultimi 20-30 anni. In Gran Bretagna abbiamo visto questo genere di sommosse e rivolte di tanto in tanto, che sono realmente una protesta contro il modo in cui si vive la vita quotidiana. Per essere chiari, i movimenti rivoluzionari nelle aree urbane si sviluppano molto lentamente. Non si può cambiare l’intera città dall’oggi al domani. Quella che vediamo, tuttavia, è una trasformazione nello stile dell’urbanizzazione nel periodo neoliberista. Prima, diciamo a metà degli anni ’70, l’urbanizzazione era caratterizzata da proteste; c’era molta segregazione; e la risposta a molte di tali proteste è stata, in effetti, la riprogettazione della città coerentemente con i principi neoliberisti di autosufficienza, di assunzione di responsabilità di sé stessi, di competizione, di frammentazione della città in comunità chiuse e spazi privilegiati.

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Così, per me la riprogettazione della città è un progetto di lungo termine. Per fortuna le persone sono costrette a immaginare qualche forma di trasformazione rivoluzionaria, che si verifica in un particolare momento del tempo, come a Buenos Aires nel 2001, quanto ci sono stati movimenti che hanno guidato la presa delle fabbriche e hanno tenuto assemblee. Sono stati in grado di imporre, in molti modi, come la città andava organizzata e hanno cominciato a porre domande serie: chi vogliamo essere? Come dovremmo relazionarci con la natura? Quale tipo di urbanizzazione vogliamo?

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Emanuele: Puoi parlarci di alcuni di questi termini? Ad esempio, puoi discutere della sub-urbanizzazione come conseguenza di “un modo di assorbire il surplus di prodotto e in tal modo risolvere il problema dell’assorbimento del surplus di capitale?” In altri termini, perché le nostre città sono state svuotate in questo modo particolare? Questa questione è particolarmente preveggente per i nostri ascoltatori locali nella regione dell’industria manifatturiera in crisi, che è stata completamente devastata negli ultimi 30-40 anni.

Harvey: Di nuovo, questo è processo lungo, che si trascina. Fammi tornare agli anni ’30 e alla Grande Depressione. Poniamo la domanda: Come siamo usciti dalla Grande Depressione? E quale era il problema durante la Grande Depressione?

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Uno dei grandi problemi durante la Grande Depressione era un mercato debole. La capacità produttiva c’era. Ma non c’erano flussi di reddito da sfruttare, per dir così. Dunque c’era un surplus di capitale in giro senza un possibile impiego. Ora, in tutti gli anni ’30 ci furono tentativi frenetici di trovare un modo per spendere quel surplus di capitale. Ci furono cose come il “Programma di opere pubbliche” di Roosevelt. Sai, costruire autostrade e roba del genere. Cioè impiegare il surplus di capitale e il surplus di lavoro in giro all’epoca.

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Negli anni ’30 non fu trovata alcuna soluzione reale, fino a quando non arrivò la seconda guerra mondiale. A quel punto tutto il surplus fu immediatamente assorbito dallo sforzo bellico: produrre munizioni e via dicendo. Molti si arruolarono nell’esercito; una quantità di manodopera fu assorbita in quel modo. Dunque la seconda guerra mondiale, apparentemente, risolse il problema della Grande Depressione. A quel punto sorse la domanda del dopo 1945: che cosa sarebbe successo una volta finita la guerra? Che cosa sarebbe successo a tutto quel capitale extra? Beh, a quel punto si ebbe la sub-urbanizzazione degli Stati Uniti. In effetti la costruzione delle periferie, a quel punto era la costruzione di periferie ricche, divenne il modo in cui fu impiegato il capitale in surplus. Prima fu costruito il sistema autostradale; a quel punto tutti dovevano avere un’automobile; poi l’abitazione suburbana divenne una specie di “castello” per la popolazione della classe lavoratrice. Tutto questo ebbe luogo abbandonando le comunità impoverite dei quartieri poveri. Questo fu lo schema dell’urbanizzazione che ebbe luogo negli anni ’50 e ’60.

I surplus, che il capitale produce sempre, funzionano così: i capitalisti cominciano la giornata con una certa quantità di denaro. A sera finiscono con più soldi. Sorge la domanda: che cosa fanno i capitalisti con i loro soldi alla fine della giornata? Beh, devono trovare qualche posto in cui investirli: espansione. I capitalisti hanno sempre questo problema: dove stanno l’espansione e le occasioni di fare più soldi? Una delle grandi occasioni di espansione dopo la seconda guerra mondiale fu l’urbanizzazione. C’erano altre occasioni, quali il complesso industriale-militare, e così via. Ma fu principalmente mediante la sub-urbanizzazione che i surplus furono assorbiti. Ora, questo creò molti problemi, quali la crisi urbana dei tardi anni ’60. A quel punto hai una situazione in cui il capitale torna di fatto nelle città centrali e successivamente rioccupa i quartieri poveri. A quel punto inverte lo schema. Così un numero sempre maggiore di comunità impoverite è cacciato nella periferia, mentre la popolazione ricca ritorna nel centro della città.

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Ad esempio nella New York di intorno al 1970 si poteva ottenere una casa nel centro di Manhattan quasi per nulla, perché c’era un enorme surplus di proprietà; nessuno voleva vivere in città. Ma ciò è completamente cambiato: la città è diventata il centro del consumismo e della finanza. Come hai citato, costa tanto un tetto per la tua auto quanto un tetto per una persona. Questa è la trasformazione che si è verificata. In breve, questo processo di urbanizzazione ha luogo in tutti gli anni ’40 estendendosi agli anni ’70. Dopo gli anni ’70 il centro della città diventa estremamente ricco. Di fatto, Manhattan passò dall’essere un luogo accessibile negli anni ’70 a diventare una vasta comunità chiusa negli anni 2000 riservata agli estremamente ricchi e potenti. Nel frattempo gli impoveriti, spesso comunità minoritarie, sono cacciate nella periferia della città. O, nel caso di New York, la gente è fuggita in cittadine del nord dello stato di New York o in Pennsylvania.

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Questo schema generale di urbanizzazione ha a che fare con questa domanda di dove si trovano occasioni redditizie di investire il capitale. Come abbiamo visto nel corso degli anni, le occasioni redditizie sono scarseggiate negli ultimi quindici anni, o giù di lì. In tale periodo un’enorme quantità di denaro è stata riversata nel mercato residenziale, nella costruzione di case e in tutto il resto. Poi abbiamo visto quello che è successo nell’autunno del 2008 con lo scoppio della bolla immobiliare. Dunque si deve guardare all’urbanizzazione come a un prodotto della ricerca di modi con cui assorbire la produttività e la produzione accresciute di una società capitalista molto dinamica che deve crescere a un tasso del 3% di crescita composta se vuole sopravvivere. Questa è la domanda per me: come assorbiremo questa crescita composta del 3% nei prossimi anni in modo da evitare i dilemmi urbanizzazione/sub-urbanizzazione del passato? E’ interessante concettualizzare come potrebbe andare.

Emanuele: Tu parli della distribuzione geografica delle crisi economiche. Cioè come le crisi economiche si diffondono da una parte del globo all’altra. Citi anche il fatto che la gente non avrebbe dovuto essere sorpresa dal crollo economico del 2008. Ad esempio oggi abbiamo la crisi economica della zona UE e del Nord America, e tuttavia tu citi l’esplosione della crescita del PIL in Turchia e in varie parte dell’Asia, particolarmente in Cina. Ma citi anche un grande paradosso: in Cina, anche se è stato attraversato un enorme processo di urbanizzazione negli ultimi venti anni, quegli stessi processi industriali che hanno prodotto grandi profitti hanno cacciato milioni di cinesi e distrutto l’ambiente naturale. Contemporaneamente intere città rimangono totalmente vuote, poiché solo una piccola percentuale della popolazione cinese può permettersi tali lussi e abitazioni.

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Harvey: Beh, la Cina sta ripetendo il modo in cui gli Stati Uniti uscirono dalla Grande Depressione: mediante la sub-urbanizzazione dopo la seconda guerra mondiale. Penso che i cinesi, quando si trovarono posti di fronte alla domanda su che cosa dovevano fare, particolarmente in un declino economico globale e alla luce dei fiacchi risultati economici di circa il 2007-2008, decisero che sarebbero usciti dalle loro difficoltà economiche mediante programmi urbanistici e infrastrutturali: ferrovie ad alta velocità, autostrade, grattacieli e così via. Quelli divennero i mezzi attraverso i quali fu assorbito il surplus di capitale. Naturalmente tutti quelli che fornivano la Cina di materie prime se la passarono molto bene, poiché la domanda cinese era molto elevata.

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La Cina assorbe metà dell’offerta mondiale di acciaio. Così se si produce minerale di ferro o di altri metalli, come fa l’Australia, allora naturalmente l’Australia se la passa molto bene perché non ha subito una gran crisi negli ultimi sette anni. I cinesi hanno, in effetti, preso una pagina dal libro della storia economica degli Stati Uniti replicando il programma di sviluppo economico post 1945 degli Stati Uniti. In poche parole, la Cina ha immaginato di potersi salvare con lo stesso tipo di strategia e di evitare la stagnazione o il declino economico. Sai, gli Stati Uniti e l’Europa sono impantanati in una crescita molto bassa, rispetto ai cinesi che hanno goduto tassi di crescita molto rapidi. Ma, di nuovo, si tratta di assorbire il surplus di capitale in modi che siano produttivi. Quella è la domanda; lo dico speranzosamente, perché non sappiamo se il boom cinese finirà a gambe all’aria. Se il boom cinese andrà a rotoli, come i mercati immobiliare e finanziario negli USA nel 2008, allora il capitalismo globale si troverà in guai seri. Oggi i cinesi stanno cercando di limitare il loro tasso di crescita. Così, invece di mirare a un tasso di crescita del 10 per cento del PIL, stanno puntando a una crescita del 7-8 per cento nei prossimi anni. Cercheranno di darsi una calmata. Voglio dire, via!, i cinesi hanno più di quattro città vuote. Riesci a crederlo? Città completamente vuote. Cosa succederà nei prossimi anni? Queste città diventeranno aree urbane produttive? Resteranno semplicemente lì a marcire? Nel qual caso andrebbe perso un mucchio di denaro e una grande depressione colpirebbe anche la Cina. In tal caso sarebbero prese alcune decisioni politiche molto sgradevoli, e certamente potremmo aspettarci agitazioni sociali tra la classe lavoratrice e tra i poveri cinesi.

Il mondo appare molto diverso secondo qual è la parte del mondo in cui si vive. Ad esempio, sono appena stato a Istanbul, Turchia: ci sono gru edili dappertutto. La Turchia sta crescendo a un ritmo del 7 per cento l’anno, dunque oggi (2013) è un luogo molto dinamico. Quando sei in Turchia è davvero difficile immaginare che il resto del mondo sia in crisi. Poi ho fatto un volo di due ore e mezza fino ad Atene, Grecia; non occorre che vi dica cosa succede là. La Grecia è come entrare in una zona disastrata dove tutto si è fermato. Tutti i negozi sono chiusi e non ci sono cantieri in corso in nessun luogo della città. Abbiamo qui due città distanti seicento miglia l’una dall’altra e tuttavia sono due luoghi totalmente differenti. Questo è ciò che ci si aspetterebbe di vedere nell’economia globale: alcuni luoghi prosperano, altri vanno in bancarotta. C’è sempre uno sviluppo disuguale delle crisi economiche. Per me questa è una storia molto affascinante da raccontare.

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Emanuele: Nel capitolo due, “Le radici urbane della crisi”, discuti del collegamento tra la crisi economica e gli Stati Uniti, la proprietà e i diritti individuali di proprietà, che sono entrambi componenti ideologici importanti del Sogno Americano ma anche ti affretti a segnalare che tali valori culturali diventano molto rilevanti quando sussidiati da politiche statali. Puoi spiegare tali politiche?

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Harvey: Beh, se risali agli anni ’30 scoprirai che meno del 40 per cento degli statunitensi era proprietario della sua casa. Così circa il 60 per cento della popolazione degli Stati Uniti viveva in affitto. Era particolarmente così nel caso della classe inferiore, o della classe media. Normalmente vivevano in affitto. Ora queste popolazioni erano piuttosto irrequiete. Così era sorta l’idea di renderle filocapitaliste e a favore del sistema aprendo loro la possibilità di divenire proprietari. Così c’è stata una quantità di sostegno statale per quelle che chiamavano istituzioni di depositi e prestiti, che erano separate dalle banche. Erano luoghi in cui la gente depositava i propri risparmi e tali risparmi erano utilizzati per promuovere la proprietà per popolazioni a basso reddito. La stessa cosa valeva per la “Building Society” britannica. Negli anni ’80 si avvia tale tendenza con la classe imprenditoriale che si chiedeva come rendere la popolazione a basso reddito meno insofferente. C’era una magnifica frase che la classe imprenditoriale era solita utilizzare: “I proprietari di case non scioperano”.

Ricorda, ci si doveva indebitare per diventare proprietari. Questo è il meccanismo di controllo. In generale questo sistema era molto debole in tutti gli anni ’20 e fino agli anni ’30, quando il governo statunitense e le classi imprenditoriali decisero di rafforzarlo. Tanto per cominciare, quando sottoscrivevi un mutuo negli anni ’20 potevi solitamente ottenerlo solo per circa tre anni, poi avresti dovuto rinnovarlo o rinegoziarlo. Poi, negli anni ’30, le banche crearono i mutui trentennali. Ma per ottenere tali mutui essi dovevano essere garantiti in qualche modo. Così ciò portò alla creazione di istituzioni statali che avrebbero garantito i mutui. Ciò condusse all’Amministrazione Federale degli Alloggi. Contemporaneamente le banche avevano necessità di trasferire i mutui a qualcun altro, così crearono questa organizzazione chiamata Fanny May.

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Per tutto quel periodo organizzazioni statali furono usate per incoraggiare e garantire la proprietà della casa, particolarmente a favore delle classi inferiori, il che naturalmente scoraggiò tali persone dallo scioperare e dallo sgarrare. Ora sono indebitate. Quelle istituzioni decollarono realmente dopo la seconda guerra mondiale. In quel periodo c’era una quantità di propaganda riguardo al “Sogno Americano” e a che cosa significava essere statunitensi. Entrò in gioco la deduzione fiscale dei mutui che consentiva di dedurre gli interessi sul mutuo. Ricorda, questo è un grande sussidio alla proprietà della casa. C’erano sussidi statali alla proprietà della casa; c’erano istituzioni statali che promuovevano la proprietà. Così tutto questo diventa cruciale quando collegato alla Legge GI, che diede diritti privilegiati di proprietà della casa e incentivi ai soldati reduci dalla seconda guerra mondiale. Ci fu un’incredibile spinta da parte dell’apparato statale a incoraggiare e garantire la proprietà della casa.

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Ricorda, tutto questo stava accadendo nel contesto della sub-urbanizzazione. Quelle istituzioni divennero molto cruciali per il mercato immobiliare e naturalmente continuano a esistere. Tutti parlavano di come Fanny May e la nuova, Freddy Mac, erano gestite dal governo e tuttavia parzialmente di proprietà privata. Nel tempo, in essenza, sono divenute nazionalizzate. Così nel tempo il governo ha promosso la proprietà della casa e ha avuto un ruolo enorme nel creare questi mutui sub-prime. Ciò è stato fatto durante l’amministrazione Clinton, a partire dal 1995, mentre tentavano di promuovere la proprietà della casa tra le popolazioni minoritarie degli Stati Uniti. Lo sviluppo della “crisi dei sub-prime” è stato in larga misura collegato sia a ciò che stava facendo il settore privato, sia anche a ciò che le politiche governative garantivano.

Per me questo è un aspetto cruciale della vita statunitense, in cui si passa dal 60 per cento della popolazione in affitto al punto più alto del 2007-2008 in cui più del 70 per cento della popolazione diventa proprietario di casa. Questo, naturalmente, crea un genere diverso di atmosfera politica; un’atmosfera politica in cui la difesa dei diritti di proprietà e dei valori della proprietà diventa molto importante. Poi hai i movimenti di quartiere in cui la gente cerca di tenere certe persone fuori dal quartiere per le percepisce come causa della riduzione del valore della proprietà. Hai un genere diverso di politica perché la casa diventa una forma di risparmio per le famiglie della classe media e di quella lavoratrice. Naturalmente la gente attinge a quel risparmio per rifinanziare la propria casa.

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C’è stata una quantità di rifinanziamenti in corso durante il boom della proprietà negli USA. Molte persone hanno approfittato degli alti prezzi delle case. Questa promozione della proprietà della casa è ora trattata come se fosse un antico sogno di quelli che vivono negli Stati Uniti. Tuttavia, di certo, c’è sempre stata questa specie di idea negli Stati Uniti presso le popolazioni dei lavoratori immigrati, che se ottieni un pezzo di terra, ci fai crescere qualcosa, e così via, potresti alla fine avere una vita piacevole. Sì, questo faceva parte del sogno degli immigrati. Ma questo è stato trasformato in proprietà suburbana, che non riguarda l’avere mucche e polli in cortile; riguarda avere tutto attorno a te simboli del consumismo.

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Emanuele: Parliamo di queste tendenze in un ambito ideologico. Affermi che dovremmo andare oltre Marx. Tuttavia insisti che dovremmo utilizzare le sue intuizioni più preveggenti. Come possiamo andare oltre Marx? Che cosa intendi, esattamente?

Harvey: Ora, il motivo per cui Marx è importante in tutto questo è che Marx ebbe un’acuta comprensione di come funziona l’accumulazione capitalista. Egli comprese che questa perpetua macchina di crescita contiene molte contraddizioni interne. Ad esempio, una delle contraddizioni di fondo di cui parla Marx è tra il valore d’uso e il valore di scambio. Puoi constatare molto chiaramente come questo abbia operato nella situazione degli alloggi. Qual è il valore d’uso di una casa? Beh, è una forma di rifugio, uno spazio di vita privata, dove uno può farsi una vita di famiglia. Possiamo elencare altri valori d’uso della casa, ma la casa ha anche un valore di scambio. Ricorda, quando affitti la casa, stai semplicemente affittando la casa per quel che serve. Ma quando acquisti la casa, a quel punto consideri la casa come una forma di risparmio, e dopo un po’ usi la casa come una forma di speculazione.

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In conseguenza i prezzi delle case cominciano a salire. Così, in tale contesto, il valore di scambio comincia a dominare il valore d’uso della casa. Il rapporto tra valore di scambio e valore d’uso comincia a sfuggire di mano. Quindi, quando il mercato immobiliare crolla, improvvisamente cinque milioni di persone perdono la casa e il valore d’uso scompare. Marx parla di questa contraddizione ed è una contraddizione importante. Dobbiamo porre la domanda: che cosa dovremmo fare a proposito degli alloggi? Che cosa dovremmo fare riguardo all’assistenza sanitaria? Che cosa stiamo facendo riguardo all’istruzione? Non dovremmo promuovere il valore d’uso dell’istruzione? O dovremmo promuovere il valore di scambio di queste cose? Perché le necessità della vita dovrebbero essere distribuite attraverso il sistema del valore di scambio? Ovviamente dovremmo rigettare il sistema del valore di scambio che è preda dell’attività speculativa, dello sciacallaggio, e di fatto perturba i modi in cui possiamo acquistare prodotti e servizi necessari. Questo era il genere di contraddizioni di cui Marx era consapevole.

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Emanuele: Nel terzo capitolo, “La creazione dei beni comuni urbani”, tu riconcettualizzi come potrebbero essere i “beni comuni” nel prossimo secolo. Prosegui facendo riferimento al lavoro di Tony Negri e Michael Hardt in tutto il libro. Ho intervistato Michael Hardt in passato e ho trovato molto del suo lavoro molto acuto e molto interessante. Come tutti voi citate nel vostro lavoro: dobbiamo cominciare a concepire come trasferire, promuovere, sviluppare e utilizzare i beni comuni. Ciò comprende anche effetti culturali: immagini, significati, simboli, eccetera. Prosegui citando il lavoro di Murray Bookchin: idee di ordine, processi, gerarchie sociali e così via diventano molto importanti quando si tenta di ideare alternative. Anche Christian Parenti ha recentemente scritto un testo notevole a proposito dello stato e dell’ambiente. Quali sono alcune delle tue idee su come potremmo riconcettualizzare i beni comuni?

Harvey: Beh, la concezione dei beni comuni, da quel che ho visto e letto, è di dimensioni piuttosto ridotte. Così una quantità di scritti sui beni comuni si è occupata dei beni comuni a livello micro. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò; avere un orto comunitario nel tuo quartiere è una bella cosa. Tuttavia mi pare che dobbiamo cominciare a interessarci e a parlare di temi di vasta portata riguardo ai beni comuni, quali l’habitat di un’intera bio-regione. Ad esempio, come cominciamo a concepire come dovrebbe essere la sostenibilità nell’intero nord-est degli Stati Uniti? Come gestiamo cose come le risorse idriche a livello nazionale? E globalmente? Le risorse idriche dovrebbero essere considerate una risorsa di proprietà comune, ma spesso ci sono richieste di acqua pulita in conflitto tra loro: urbanizzazione, agricoltura industriale e ogni sorta di altre tutele dell’habitat e cose simili.

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Mi fa piacere che tu abbia citato il saggio di Christian Parenti, perché il cambiamento climatico dovrebbe farci riconcepire i beni comuni globali. Come gestire questo problema? E come possiamo gestire questi temi nel futuro? E’ fuori questione che abbiamo bisogno di meccanismi di imposizione tra stati nazione al fine di combattere queste tendenze e prevenire minacce future. Che cosa succede ai trattati internazionali se i governi vanno a pezzi? Chi impedirà ad altri stati di immettere anidride carbonica nell’atmosfera? Lo si può fare indicendo assemblee collettive o quel che passa il convento. I confronti riguardo a se trasformare un pezzo di terra in un orto comunitario non combatteranno i problemi che affrontiamo come specie. Dobbiamo concepire i beni comuni come esistenti su una scala diversa.

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Sono interessato alla dimensione metropolitana-regionale. Come si organizza la gente in tali regioni per difendere i diritti della proprietà comune su scale diverse? Beh, questo livello di potenziale organizzativo non si realizzerà attraverso assemblee o altre forme di organizzazione che la gente utilizza oggi. Il problema è inventarsi un modo democratico di rispondere alle opinioni di vasti strati della popolazione in tutto il pianeta al fine di amministrare i diritti alle risorse di proprietà comune. Ciò includerebbe cose come qualità dell’aria e dell’acqua nell’intera regione. Includerebbe anche la sostenibilità bioregionale.

Queste cose non si realizzano mediante assemblee e solo perché c’è chi inventa qualche grande piano a livello locale, ciò non significa che tale piano funzioni a livello regionale o su scala globale. Così, mi piacerebbe introdurre il concetto di “scale” differenti di organizzazione nel nostro confronto collettivo sullo sviluppo, la sostenibilità e l’urbanizzazione. Dobbiamo sviluppare organizzazioni, meccanismi, vocabolari e apparti capaci di far fronte a questi problemi su scala globale. Non credo ci dia alcun vantaggio il discutere dei “beni comuni” se non siamo specifici riguardo alla scala di cui stiamo discutendo. Parliamo del mondo? In tal caso dobbiamo parlare dell’apparato statale e delle sue funzioni, particolarmente a livello bio-regionale e globale.

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Emanuele: Pare che le sole persone disposte a considerare questi temi su scala globale siano gli scienziati del clima, gli oceanografi, i biologi, gli ecologisti, con pochissimi intellettuali, per non parlare di attivisti o della più vasta popolazione in generale che discutono dell’ambiente naturale globale. Alcuni scienziati suggeriscono che entro il 2048 quasi tutti i grandi pesci saranno estinti. Al minimo gli scienziati ci dicono di aspettarsi un aumento di due gradi Celsius della temperatura del globo entro la fine del secolo. Queste predizioni sono inquietanti, a dir poco. Anche se possiamo organizzarci efficacemente, diciamo, a livello bio-regionale, che cosa succede se altre regioni si rifiutano? Non avremo bisogno di un apparato globale per chiamare le nazioni a rispondere? A me questo sembra uno dei problemi più grandi del nostro tempo.

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Harvey: Beh, ci sono alcuni modi in cui una prassi può diventare egemone: uno è mediante coercizione, cosa che nessuno di noi vuole ma che può ben essere una necessità. Poi c’è il consenso, che è quello che vediamo in queste conferenze sul cambiamento climatico ma, come vediamo, anche questo non funziona. Il terzo è quello che potremmo chiamare “mediante esempio”. E’ per questo che penso che una regione come la Cascadia sia così interessante, tra i motivi che hai citato, perché la Cascadia mette in atto alcune politiche molto, molto progressiste. Ad esempio, la California lo ha fatto riguardo a numerosi aspetti della legislazione ambientale. Su scala locale la California ha cominciato a imporre cose come il chilometraggio o la capacità del serbatoio obbligatori per le auto, e questo è un piccolo esempio.

In modo interessante, può anche essere dimostrato che non si finirà a pezzi, economicamente, se gli stati attueranno tali misure. Oggi non accade nulla di tutto ciò. Penso che guidare mediante l’esempio possa essere molto significativo. E’ più facile conquistare consenso quando si offrono esempi alla gente di come questo funzionerebbe. Ad esempio, l’abbiamo visto a livello urbano con città come Curitiba, Brasile, che è piuttosto nota per il suo progetto ambientale. In altre parole, molte delle cose che si fanno a Curitiba sono ora attuate in tutto il mondo in vari contesti urbani. Penso che avremo una combinazione di operare mediante esempio, consenso e coercizione. La mia speranza sarebbe che potessimo principalmente utilizzare esempi del mondo reale; poi è più facile raggiungere il consenso; ed è piuttosto difficile muoversi in direzione della coercizione. Comunque questa è solo la mia speranza. Non necessariamente le cose andranno così.

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Emanuele: Nel capitolo quattro, “L’arte della rendita”, citi che a un certo punto “le università delle arti erano fucine di dibattito, ma la loro successiva pacificazione e professionalizzazione hanno gravemente ridotto la politica agitativa”. Puoi parlare del carattere speciale della produzione e riproduzione culturale? Inoltre, puoi articolare questo concetto di “rendita di monopolio”? Come è stato aiutato questo processo da quella che chiami “imprenditorialità urbana”? Chiami questi processi la “disneyficazione” della società e della cultura. Che cos’è il capitalismo simbolico collettivo?

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Harvey: Il mio interesse a questo deriva da una contraddizione molto semplice. Si suppone che viviamo sotto il capitalismo e si suppone che il capitalismo sia competitivo cosicché ci si aspetterebbe che i capitalisti e gli imprenditori apprezzino la competizione. Beh, emerge che i capitalisti fanno tutto quel che possono per evitare la competizione. Amano i monopoli. Così ogni volta che possono cercano di creare un prodotto che sia monopolizzabile, che, in altre parole, sia “unico”. Ad esempio prendete il logo della Nike, che è un esempio perfetto di capitalisti che incassano un prezzo di monopolio da un simbolo particolare perché c’è tutto quel bagaglio culturale collegato a ciò che quel logo significa, a ciò per cui sta, e a come le persone vi interagiscono. Una scarpa identica, che costa molto meno, può essere venduta a un prezzo molto inferiore perché semplicemente non ha quel logo. Così il prezzo di monopolio è tremendamente importante. Troverete molti casi in cui è una componente cruciale di come funzionano i mercati.

Nello stesso capitolo cito il commercio del vino, che mi intriga parecchio. Si cerca di ricavare una rendita monopolistica perché questo vigneto ha un suolo particolare, o questa vigna ha una collocazione geografica speciale. Perciò crea un unico vino “vintage” che ha un sapore migliore di ogni altro al mondo; solo che non è così. C’è un grande interesse a cercare di acquisire una rendita monopolistica assicurandosi che il proprio prodotto sia commercializzato come unico e molto, molto speciale. Poi, a livello locale, città cercano di darsi un “marchio”. C’è ora un’intera storia, in particolare riguardante gli ultimi 30-40 anni, in cui città si sono date un marchio e hanno tentato di vendere un pezzo della loro storia. Qual è l’immagine di una città? E’ attraente per i turisti? Va di moda? La città si promuoverà commercialmente.

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Si troveranno città che hanno alte reputazioni, come Barcellona, Spagna, o New York City. Uno dei modi in cui si può vantare l’unicità di una città consiste nel promuovere qualcosa riguardo alla storia della città che sia molto specifico, perché non si può fruire del parallelo storico altrove. Così, per esempio, si va ad Atene per via dell’Acropoli, o si va a Roma per le antiche rovine. Così si comincia a promuovere commercialmente la storia di una città come unica e redditizia. D’altro canto, se non si ha una storia particolare, semplicemente se ne inventa una. C’è una quantità di città che si sono inventate storie nel mondo di oggi. Allora si dice alla gente che la cultura del luogo è molto speciale. Sai, cose come stili alimentari unici, o danze uniche diventano molto importanti. Si deve promuovere la “vita di strada” come unica; non esiste nessun altro luogo così, e tutto quel genere di roba.

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La commercializzazione degli aspetti culturali e storici di una città è oggi una componente cruciale del processo economico. Alcune città semplicemente s’inventano una cultura unica. Ad esempio alcuni città utilizzeranno “architettura firmata”. Ad esempio non molti conoscevano la città di Bilbao, in Spagna, prima che il Museo Guggenheim diventasse il posto alla moda di un particolare marchio di architettura. Passando oltre possiamo considerare Sidney, Australia, e la sua Sala dell’Opera, che è la prima cosa che le persone riconoscono quando vedono una fotografia della città, e possiamo vedere quanto importante sia diventato ciò. Così l’architettura stessa diviene preda della commercializzazione e del marchio di una città. Sai, persino le scene della pittura e della musica diventano aspetti considerevoli di cultura da poi promuovere e vendere; città come Austin, Texas, diventano “scene della musica”. Poi ci sono luoghi come Nashville, e così via. Così le città cominciano a usare la produzione culturale come modo per promuoversi come uniche e speciali. Naturalmente il problema al riguardo è che molta della cultura è facilissima da replicare. L’unicità comincia a sparire. A quel punto abbiamo quella che chiamo la “disneyficazione” della società.

In Europa, ad esempio, anche se molte città hanno un passato storico-culturale serio, ogni cosa diventa “disneyficata”. Alcuni, io per esempio, finiscono estremamente disgustati da questo. E’ ancora un’altra “disneyficazione” della storia dell’Europa e io semplicemente non voglio più essere seccato da questo. Questa è la contraddizione: si promuove commercialmente una città come unica e tuttavia, mediante la promozione, la città diventa replicabile. In realtà i simulacri della storia diventano importanti tanto quanto la storia stessa. C’è una tensione in giro in cerca di rendite monopolistiche, conquistandole per un po’ e poi perdendole a favore dei simulacri. Questo diviene significativo. Oggi questo crea anche una situazione in cui i produttori di cultura diventano tremendamente importanti. Sono andato a vivere a Baltimora nel 1969 e vi erano circa tre musei. Oggi ci sono più di trenta musei a Baltimora! Questo diventa il modo in cui si commercializza la città. Tuttavia se ogni città ha trenta musei allora ci si può scordare di godere di un vantaggio monopolistico. Allora davvero non conta dove mi trovo; se a Baltimora, Pittsburgh o Detroit. Tutto diventa un’esperienza replicabile. Cominciano a perdere il loro potere monopolistico.

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Emanuele: Nel capitolo cinque, “Riprendersi la città per la lotta anticapitalista”, tu scrivi: “Due questioni derivano dai movimenti politici a base urbana: 1) La città, o sistema di città, è uno spazio meramente passivo o una rete preesistente? 2) Le proteste politiche spesso misurano il loro successo in termini di capacità di disarticolazione delle economie urbane”. Puoi spiegare tali disarticolazioni? Come pensi che i dimostranti nella società odierna possano disarticolare più efficacemente le economie urbane?

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Harvey: L’uragano Sandy ha realmente disarticolato le vite dei residenti nella città di New York. Dunque non vedo perché movimenti sociali organizzati non potrebbero disarticolare la vita consueta in grandi città e perciò causare danni agli interessi della classe dominante. Abbiamo visto molti esempi storici di questo. Ad esempio negli anni ’60 i disturbi che si sono verificati in molte città degli Stati Uniti hanno causato grandi problemi alle aziende. Le classi politiche ed economiche sono state rapide nel reagire a causa del livello di disarticolazione e distruzione. Cito nel libro le dimostrazioni dei lavoratori immigrati nella primavera del 2006. Le dimostrazioni furono una reazione al tentativo del Congresso di criminalizzare gli immigrati illegali. Successivamente la gente si mobilitò in luoghi quali Los Angeles e Chicago, e inceppò considerevolmente l’economia cittadina.

Si potrebbe prendere l’idea di uno sciopero, solitamente mirato contro una particolare azienda o organizzazione, e tradurre quelle tattiche e strategie nei centri cittadini. Così invece di scioperare contro una particolare impresa o società la gente indirizzerebbe le sue azioni nei confronti di intere aree urbane. Allora ci sono eventi come la Comune di Parigi o lo sciopero generale di Seattle del 1919 o la rivolta Cordobazo in Argentina, circa 1969. Non occorre che sia un movimento rivoluzionario da un giorno all’altro. Queste cose possono aver luogo gradualmente mediante riforme.

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La redazione partecipativa del bilancio è attualmente attuata a Porto Alegre, Brasile, dove il Partito dei Lavoratori ha sviluppato un sistema attraverso il quale popolazione e assemblee locali decidono per che cosa devono essere spese le loro imposte. Dunque tengono assemblee popolari e così via, che decidono come utilizzare fondi e servizi pubblici. Di nuovo, ecco una riforma democratica che inizialmente è stata avviata a Porto Alegre ma che da allora è stata fatta circolare in città europee. E’ una magnifica idea. Coinvolge il pubblico e mantiene le persone coinvolte nel processo. Democratizza il processo decisionale in tutta la società. Queste decisioni non sono più prese da consigli comunali, burocrati o dietro porte chiuse. Oggi questi dibattiti sono accessibili alla partecipazione del pubblico. Da un lato ci sono interventi molto rapidi sotto forma di scioperi e interferenze. Dall’altro c’è un processo lento di riforme che ha luogo attraverso assemblee democratiche e così via.

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Emanuele: Nel corso degli anni ho collaborato con persone che operano nel settore sindacale, con persone disoccupate e che operano nell’ambito di quella che è comunemente chiamata l’”economia sommersa”. Cosa più importante, sono interessato a organizzare quelli che lavorano nelle industrie dei servizi, o negli ipermercati tipo Applebee’s o Best Buy. Nel capitolo cinque tu scrivi: “Nella tradizione marxista le lotte urbane sono spesso ignorate o scartate in quanto prive di potenziale o significato rivoluzionario.

Quando una lotta a livello cittadino acquista, in effetti, uno status di icona rivoluzionaria, come accadde durante la Comune di Parigi nel 1871, si afferma, prima da parte di Marx e poi con maggiore enfasi da parte di Lenin, trattarsi di una rivolta proletaria, piuttosto che un movimento rivoluzionario molto più complicato animato tanto dal desiderio di riprendersi la città stessa dall’appropriazione borghese, quanto dalla desiderata liberazione dei lavoratori dai calvari dell’oppressione di classe nel luogo di lavoro. Considero d’importanza simbolica che i primi due atti della Comune di Parigi siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni, una questione sindacale, e l’imposizione di una moratoria degli affitti, una questione urbana.” Puoi parlare del privilegio riservato agli operai dell’industria nell’ideologia marxista?

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Harvey: C’è una lunga storia di ciò. La tendenza nei circoli marxisti, e non solo nei circoli marxisti ma nella sinistra in generale, consiste nel privilegiare i lavoratori dell’industria. Questa idea di una lotta di avanguardia che conduce a una nuova società è in circolazione da un certo tempo. Tuttavia, quella che è affascinante è l’assenza di alternative a questa visione, o almeno di varianti del suo intento e proposito. Naturalmente molto di questo proviene dal volume I del Capitale di Marx che enfatizza il lavoratore di fabbrica. Questa idea che il partito d’avanguardia dei lavoratori ci porterà nella nuova Terra Promessa dell’anticapitalismo, chiamiamola una società “comunista” è stata persistente per più un centinaio d’anni. Ho sempre sentito che si trattava di una concezione troppo limitata di chi è il proletariato e di chi è l’”avanguardia”.

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Inoltre io sono sempre stato interessato alle dinamiche della lotta di classe e ai loro rapporti con i movimenti sociali urbani. Chiaramente per me i movimenti sociali urbani sono molto più complicati. Coprono tutto lo spazio dalle organizzazioni borghesi di quartiere, impegnate in politiche di esclusione, a una lotta di affittuari contro padroni di casa a causa di pratiche sfruttatrici. Quando si guarda alla vasta gamma di movimenti sociali urbani se ne trovano alcuni anticapitalisti e altri che sono l’opposto. Ma farei la stessa osservazione riguardo ad alcune forme tradizionali di organizzazione sindacale. Ad esempio ci sono alcuni sindacati che considerano l’attività di organizzazione come un modo per privilegiare i lavoratori privilegiati della società. Naturalmente questa idea non mi piace. Poi ci sono altri che stanno creando un mondo più giusto e più equo.

Penso ci sia una varietà uguale di distinzioni nell’ambito delle forme di organizzazione dei lavoratori dell’industria. Di fatto le forme di organizzazione dei lavoratori dell’industria a volte, poiché si occupano di gruppi speciali e di interessi speciali, sono reattive alla politica generale più di quanto ci si aspetti. E’ a questo riguardo che io accolgo le forme di organizzazione di Antonio Gramsci. Egli era molto interessato ai consigli di fabbrica. Egli seguiva, in effetti, la linea marxista che l’organizzazione di fabbrica è cruciale nella lotta. Ma poi egli spingeva le persone anche a organizzarsi in ambito di quartiere. In quel modo, nel pensiero di Gramsci, potevano avere un quadro migliore di com’è l’intera classe lavoratrice, non solo quelli che sono organizzati in fabbriche e via dicendo. Includendo persone come i disoccupati, i lavoratori temporanei e tutte le persone che hai citato in precedenza che non erano occupate in posti di lavoro tradizionali del settore industriale. Così Gramsci proponeva che questi due tipi di metodi di organizzazione politica dovrebbe essere interconnessi al fine di rappresentare realmente il proletariato. In essenza, il mio pensiero riflette Gramsci sotto questo aspetto. Come cominciamo a occuparci di tutti i lavoratori in una città? Chi lo fa? I sindacati tradizionali tendono a non farlo.

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Mentre ci sono movimenti in seno al movimento sindacale che stanno attuando tali pratiche organizzative. Ad esempio i Trade Union Councils in Gran Bretagna o i Labor Councils negli Stati Uniti che entrambi cercano di organizzare in qualche misura fuori dall’ambito dell’organizzazione sindacale tradizionale. Ora, quelle correnti del movimento sindacale non sono state dotate di potere. Dobbiamo ideare nuove forme di organizzazione che colgano il lato progressista di ciò che accade nei movimenti sociali urbani e lo unisca a quel che resta del modello sindacale tradizione del settore industriale. Dobbiamo riconoscere che molti lavoratori che operano nell’economia statunitense non potrebbero organizzarsi ufficialmente in un sindacato date le attuali leggi sul lavoro. Dunque abbiamo bisogno di una forma diversa di organizzazione, esterna al modello sindacale tradizionale.

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C’è un’organizzazione a New York, che in realtà è nazionale ma è molto forte a New York, chiamata Domestic Workers Organization [Organizzazione dei lavoratori domestici]. E’ molto difficile sindacalizzare i lavoratori domestici. Ma hanno un’organizzazione basata su diritti e continuano a organizzarsi e a battersi. Siamo onesti: se sei un immigrato clandestino negli Stati Uniti, sei trattato in modi deplorevoli. Perciò organizzare gruppi come i tassisti o i lavoratori dei ristoranti conduce a quello che è chiamato un Congresso dei Lavoratori. Stanno cercando di mettere insieme tutte queste forme di organizzazione. Sai, anche Richard Trumka [leader sindacale, già presidente dell’AFL-CIO: https://en.wikipedia.org/wiki/Richard_Trumka], si è presentato a una di queste conferenze nazionali e ha detto ai lavoratori che il movimento sindacale tradizionale al minimo desidererebbe avere un rapporto con loro.

In breve, io penso che oggi ci sia un movimento in crescita che riconosce l’importanza di tutti i tipi diversi di lavoro che esistono nell’ambiente urbano. Ho accolto la domanda postami da molti membri di sindacato: “Perché non sindacalizziamo l’intera dannata città?” Sono già attivi movimenti per organizzare i tassisti, ma perché non i lavoratori delle consegne? E’ una vasta manodopera e la città dipende assolutamente da questi settori del lavoro per mantenere normalmente funzionante la sua attività economica. E se questi gruppi si unissero e cominciassero a rivendicare un tipo diverso di politica nelle città? E se avessero voce in capitolo sul modo in fondi e risorse sono utilizzati? Ci sono modi per contrastare l’incredibile disuguaglianza esistente a New York?

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Voglio dire: i dati delle entrate fiscali dell’anno scorso hanno mostrato che l’un per cento al vertice a New York guadagna 3,57 milioni di dollari a testa, in confronto con il 50 per cento della popolazione che cerca di tirare avanti con meno di 30.000 dollari. E’ una delle città più disuguali del mondo. Dunque che cosa possiamo fare al riguardo? Come possiamo organizzarci per cambiare questa disuguaglianza? Per me dovremmo abbandonare questa idea che l’operaio di fabbrica è l’avanguardia del proletariato e cominciare a immaginare come nuova avanguardia quelli che sono impegnati nella produzione e riproduzione della vita urbana. Vi sarebbero inclusi lavoratori domestici, tassisti, addetti alle consegne e molti altri della classe povera e di quella lavoratrice. Penso che possiamo costruire movimenti politici che operino in modi totalmente diversi rispetto al passato. Possiamo vederlo in città di tutto il mondo, dalla città boliviane a Buenos Aires. Mettendo insieme il lavoro di attivisti urbani con quelli che lavorano nelle fabbriche cominciamo a sviluppare un elemento completamente differente di agitazione politica.

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Emanuele: Puoi parlare di alcune di tali città, come Al Alto, in Bolivia? Inoltre, nel 2011 ero a Madison, Wisconsin, nel 2011 nel corso delle proteste sindacali e devo dire che è stato interessante e assolutamente frustrante vivere le dinamiche interne del movimento sindacale, e come interagisce con i cittadini e i lavoratori non iscritti al sindacato. Purtroppo il movimento sindacale reprime il dissenso e la resistenza seri.

Anche se molti lavoratori a Madison sono sindacalizzati, quelli che fisicamente avevano occupato l’edificio del Campidoglio e avevano avviato l’occupazione erano lavoratori non sindacalizzati. Poi sono arrivati i grandi sindacati e hanno immediatamente reindirizzato i discorsi al voto sulla revoca del governatore Scott Walker. Indiscutibilmente, col senno di poi, il voto per la revoca del governatore Walker è stato un disastro politico. Che cosa ne pensi?

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Harvey: I sindacati hanno attraversato un brutto periodo. Non sono molto progressisti, specialmente negli Stati Uniti. Nel complesso sono d’accordo su quanto citi. Il motivo per cui ho citato Trumka era perché io penso che Trumka e molti di quelli all’interno del movimento sindacale organizzato capiscono che non possono più fare da soli; hanno bisogno dell’aiuto dell’intera forza lavoro, sindacalizzata o no. Questa è sempre stata la sfida nell’organizzare: quanto sostegno vogliamo da queste vaste entità? E quanto di ciò che stanno facendo è frutto di un vero senso di solidarietà? Quanto è per profitto personale? La mia esperienza a Baltimora, che copre campagne per il salario minimo, rispecchia in una certa misura la tua esperienza. I sindacati erano in generale ostili a tali campagne e non hanno contribuito, parlando in generale. Tuttavia abbiamo ricevuto in effetti molto aiuto da sindacati locali.

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Così, di nuovo, dobbiamo separare tali due entità. Sezioni locali hanno effettivamente contribuito alle campagne. Indubbiamente il movimento è stato molto, molto conservatore negli Stati Uniti; in molti modi, particolarmente negli ultimi circa cinquant’anni, siamo stati privi di un movimento serio del lavoro organizzato. E ci sono problemi simili anche nei sindacati britannici. Per essere giusti, l’impressione che io ricavo da parte della dirigenza locale di New York è che capiscono che non possono più comandare. Dubito che tu affermi che non dovremmo organizzarci nei sindacati, e di chiunque lo dica dovremmo essere diffidenti, ma credimi: sono ben consapevole dei limiti dei sindacati moderni.

In effetti ho saputo molto di quanto mi racconti da amici che partecipavano agli eventi di Madison, Wisconsin. Sai, ho letto tutto quanto ho potuto riguardo a Al Alto, Bolivia, e quelle che per me sono realmente affascinanti sono le forme di organizzazione che vi hanno luogo. C’è una componente sindacale, con un forte sindacato degli insegnanti che apre la via. Ma ci sono anche molti ex membri del sindacato che lavoravano nelle miniere di stagno ma sono finiti disoccupati a causa della ristrutturazione neoliberista degli anni ’80. Quelle persone sono finite a vivere in questa città di Al Alto e c’è una tradizione politica attivista di socialismo. Nel movimento sindacale cui appartenevano erano principalmente trotzkisti, il che è significativo. Tuttavia le organizzazioni più importanti erano le organizzazioni di quartiere. Inoltre c’era un’assemblea omnicomprensiva di organizzazioni di quartiere chiamata la Federazione delle Organizzazioni di Quartiere.

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Ad esempio c’erano organizzazioni di venditori di strada, che abbiamo anche a New York, oltre a quelle degli addetti ai trasporti. Questi gruppi diversi si incontravano regolarmente. La dinamica interessante di queste organizzazioni è che non la vedono tutte allo stesso modo su ogni singolo tema. Voglio dire: che senso ha partecipare a una riunione in cui tutti sono d’accordo? Dovevano partecipare alle riunioni per assicurarsi che i loro interessi non fossero traditi. E’ questo quello che succede quando ci sono dibattiti vivaci e confronti politici: il progresso. Dunque l’attivismo delle federazioni di quartiere era il prodotto di metodi di organizzazione molto competitivi. Poi, quando la polizia e l’esercito hanno cominciato ad assassinare persone nelle strade, c’è stata un’immediata dimostrazione di solidarietà tra i gruppi che si organizzavano nella città. Hanno chiuso la città e bloccato le strade.

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In conseguenza la popolazione di La Paz, Bolivia, non è stata in grado di ricevere merci e servizi perché tre delle vie principali passavano direttamente attraverso Al Alto, che era chiusa da queste organizzazioni. Lo hanno fatto di nuovo nel 2003 e il risultato è stato che il presidente è stato cacciato. Poi, nel 2005, è stato cacciato il presidente successivo. Alla fine hanno avuto Evo Morales. Tutti questi elementi si sono uniti e hanno organizzato efficacemente i poveri e la classe lavoratrice in Bolivia. E’ da qui che ho tratto il titolo del mio libro ‘Città ribelli’. Del tutto letteralmente, Al Alto è diventata una città rivoluzionaria nel giro di pochi anni. Le forme di organizzazione in Bolivia sono affascinanti da studiare e da osservare. Non sto dicendo che questo è “il modello” che tutti dovrebbero copiare, ma è un buon esempio da osservare e studiare.

Emanuele: Verso la fine del tuo libro citi un film che è caro al mio cuore, Sale della terra, un film che ho visto per la prima volta da matricola all’università. Il mio insegnante, il dottor Kim Scipes, teneva un corso sulla diversità razziale ed etnica alla Purdue North Central University, dove ho visto il film. Era materiale prescritto da vedere per il corso. Nel far riferimento al film nel tuo libro tu scrivi: “Solo quando unità e parità sono costruite con tutte le forze dei lavoratori saremo in grado di vincere. Il pericolo che questo messaggio ha rappresentato per il capitalismo è misurato dal fatto che questo è il solo film statunitense del quale è stata sistematicamente vietata per molti anni, per motivi politici, la diffusione su reti commerciali”. Puoi parlare del motivo per il quale questo film è importante? Che cosa può insegnarci riguardo alla lotta?

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Harvey: Beh, ho visto il film ormai un certo tempo fa. E’ stato un po’ in passato e non riesco a ricordare esattamente quando. Ma, come te, ho sempre fatto tesoro del suo ricordo. Così mentre ero seduto a scrivere questo libro sono tornato a vederlo. Naturalmente l’ho rivisto un paio di altre volte. Penso sia una storia molto umana. Ma questa è una magnifica storia di una miniera di zinco, che è basata su una situazione reale, scritta da persone messe al bando da Hollywood per le loro tendenze comuniste. E’ un grande film in cui classe, razza e genere si uniscono tutte a formare una grande storia e narrazione.

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C’è un momento nel film che è un po’ buffo: gli uomini non possono più attuare picchetti a causa della legge Taft-Hartley, così sono le donne ad assumersi il compito di picchettare perché non c’è nulla che vieti loro di partecipare alle proteste. Allora gli uomini devono farsi carico dei lavori di casa. Curiosamente gli uomini cominciano rapidamente a capire perché le donne chiedano dal padrone acqua corrente e altre cose che renderebbero molto più facile la vita quotidiana. Velocemente, naturalmente, gli uomini scoprono quanto sia difficile stare in casa tutto il giorno. Sintetizza il tipo di questioni di genere che sono importanti oggi. Si occupa della solidarietà oltre le divisioni etniche, il che è cruciale. Il film compie un gran lavoro di evidenziazione di tutto questo in un modo molto non didattico. Ho sempre amato molto quel film così ho pensato che fosse appropriato che lo riproponessi nel contesto di ‘Città Ribelli’.

Emanuele: Qualche consiglio di saluto per quelli che ascoltano o leggono questa intervista?

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Harvey: Purtroppo io non sono un organizzatore; sono uno che scrive dei limiti del capitale e di come potremmo muoverci nel concepire visioni alternative della società. Ho ricavato una gran quantità di forza, motivazione e idee intellettuali da quelli che sono concretamente impegnati quotidianamente nella lotta. Partecipo e contribuisco, se posso. Dunque il mio consiglio a tutti sarebbe di uscire quanto più possibile e occuparsi della disuguaglianza sociale e del degrado ambientale perché questi sono temi sempre più lungimiranti.

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La gente deve diventare attiva, uscire, muoversi. E’ un periodo cruciale. Sai, la massiccia ricchezza e il capitale non hanno avuto sinora il minimo ripensamento. Dobbiamo dare una grande spinta se vogliamo vedere qualcosa di diverso nella nostra società. Dobbiamo creare meccanismi e forme di organizzazione che riflettano i bisogni e le volontà della società nel suo complesso, non solo quelli di una classe oligarchica privilegiata di individui.

(1 febbraio 2017)

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David Harvey è distinguished professor di antropologia e geografia al Centro di Laurea dell’Università della Città di New York (CUNY), direttore del Center for Place, Culture and Politics e autore di numerosi libri, di cui il più recente è Rebel Cities: From the Right to the City, to the Urban Revolution (Verso 2012). Ha insegnato Il Capitale di Karl Marx per più di quarant’anni.

Vincent Emanuele è autore, attivista e conduttore radiofonico. Vince conduce un programma settimanale sulla Progressive Radio Network intitolato “Meditations and Molotovs”, in onda ogni lunedì alle ore 1:00 pomeridiane (ora di Chicago). Vincent Emanuele scrive per teleSUR English e vive a Michigan, Indiana. Può essere raggiunto all’indirizzo vincent.emanuele333@gmail.com.

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Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

[url”www.znetitaly.org”]www.znetitaly.org[/url]

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Fonte: [url”http://zcomm.org/”]http://zcomm.org/znetarticle/rebel-cities-urban-resistance-and-capitalism/[/url]

Originale: Counterpunch

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Traduzione di Giuseppe Volpe.

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Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0 [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.es/[/url]
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