'La legittimazione dell''inganno'

Dalle pie frodi alla nobile menzogna: Platone, Voltaire e la “politica del velo”. [Elena Giorza]

'La legittimazione dell''inganno'
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10 Marzo 2017 - 07.06


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di Elena Giorza [right]«J’aurais la main pleine de vérités que je ne l’ouvrirais pas pour le peuple»[1].[/right]

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[right]Bernard le Bovier de Fontenelle[/right]

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[right]«[…] de toutes les erreurs nuisibles, l’opinion qu’il y a des erreurs utiles aux hommes, est la plus dangereuse et renferme toutes les autres»[2].[/right]

[right]Nicolas de Condorcet [/right]

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La legittimazione dell’inganno

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Il popolo, inconfessabilmente rappresentato come massa informe, disomogenea, ignorante e credulona, può essere, ma soprattutto, deve essere “illuminato”? La questione se sia opportuno e conveniente rivelare al popolo certe “verità” o se, invece, sia legittimo ingannarlo attraverso il ricorso a “errori utili” di natura religiosa, ha origini antiche, ma la sua presenza si rivela costante nel dibattito filosofico moderno e contemporaneo. Per comprendere – con lo scopo di condividere o discostarsene criticamente – la posizione di chi oggi, in contesti liberaldemocratici, mette in luce la pericolosità rappresentata dal completo svelamento, a livello popolare, di alcune dinamiche politiche, culturali e sociali, e la conseguente esigenza di individuare strumenti decettivi in grado di celarle, sembra utile rintracciare alcune tappe fondamentali nell’elaborazione teorica del concetto di “inganno salutare”. È evidente come l’attribuzione, apparentemente ossimorica, di una connotazione positiva a un termine di per sé comunemente ritenuto negativo, celi precisi intenti che, prima di poter essere criticati, vanno portati alla luce e problematizzati.

È nell’ambito delle democrazie contemporanee che la giustificazione del ricorso all’impostura, e la sua rivalutazione in termini positivi, implica maggiori difficoltà. Se, infatti, la trasparenza – intesa come il dover rendere conto, da parte di chi governa, ai cittadini, in modo tale da garantire che chi detiene il potere sia controllabile – rappresenta uno dei valori alla base dell’ideale democratico, in tale contesto l’idea della sostenibilità e dell’applicabilità di una “politica del velo” non sembra poter essere assunta pacificamente.

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Tanto più problematica poi appare la tesi di chi ritiene che per assicurare stabilità, ordine e coesione nelle società liberaldemocratiche odierne e per diffondere e consolidare il modello a cui queste società si ispirano, sia necessario elaborare una sorta di “impostura benevola” da prescrivere ai cittadini. Esemplari in tal senso sono le proposte di Ajume Wingo[3] – che ritiene imprescindibile il ricorso a strumenti retorici e simbolici per sollecitare la coesione sociale – e Richard Rorty[4] che, preoccupato dalle conseguenze a livello politico di una critica filosofica svelatrice di verità “pericolose” e disgreganti, si fa promotore di una “religione civile”, secolare, capace di nascondere il carattere contingente, e quindi non universale, delle credenze e dei valori delle singole comunità.

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La “politica del velo” di Wingo, la “religione civile” di Rorty – e, più in generale, tutti i tentativi, nel contesto delle democrazie liberali, di legittimare il ricorso a “errori utili” in ambito politico, in quanto mezzi necessari per la conservazione della democrazia stessa – possono essere riletti, e compresi nei loro aspetti più problematici, alla luce di due testi e, più in particolare, di due concetti presenti in questi testi. Da una parte la “nobile menzogna”, protagonista del III libro della Repubblica di Platone; dall’altra le “pie frodi”, così come vengono delineate da Voltaire in alcune voci del suo Dizionario filosofico. Tale rilettura, pur istituendo un’analogia tra questi concetti, per risultare efficace non può evidentemente non tener conto dei contesti radicalmente diversi in cui le riflessioni degli autori appena citati si collocano.

Platone, all’inizio

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Una chiara legittimazione dell’uso dell’impostura a fini morali, pedagogici e politici nei confronti del popolo è rappresentata dalla nozione platonica di “nobile menzogna”, esemplificata dal mito teologico-politico elaborato nel III libro della Repubblica: «[…] il dio, quando vi ha plasmato, nella generazione di quelli tra voi che sono capaci di esercitare il potere ha mescolato dell’oro, perciò sono i più pregevoli; in quella delle guardie, argento; ferro e bronzo nei contadini e negli artigiani. In quanto dunque siete tutti congeneri, per lo più genererete una discendenza simile a voi, tuttavia può accadere che dall’oro nasca prole d’argento e dall’argento dell’oro, e così via secondo tutte le possibilità. […] la città perirà, quando sarà protetta da un difensore di ferro o di bronzo»[5].

In un orizzonte di tipo aristocratico e gerarchico, come quello che caratterizza la città ideale di Platone, l’utilizzo strumentale della religione – che si manifesta attraverso l’elaborazione di un mito falso, ma utile – assume un ruolo fondamentale. Nascondendo il carattere arbitrario e artificiale della gerarchia sociale e del progetto educativo platonico, la “nobile menzogna”, pur ammettendo un qualche tipo di mobilità sociale, garantisce la conservazione dell’ordine politico e, in particolare, dell’aristocrazia dei filosofi nei confronti della moltitudine (guardie e produttori).

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È interessare notare come il concetto stesso di “nobile menzogna” in Platone assuma caratteristiche ben definite[6]: è un inganno di natura retorica, “solo nelle parole” – e quindi diverso dalla menzogna in senso proprio che, in quanto forma di ignoranza, va rifiutata in modo netto –; è una prerogativa dei governanti-filosofi che la devono prescrivere come pharmakon alla moltitudine, al fine di perseguire il bene comune; ha valore pedagogico, morale e politico; si serve della religione come instrumentum regni.

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Analoga, sotto molteplici aspetti, alla “nobile menzogna” platonica è la nozione di “pie frodi” che emerge nella riflessione di Voltaire, in particolare in alcune voci del Dizionario filosofico: Ateismo, Fanatismo, Frode – in cui si domanda se si debbano usare pie frodi per il popolo e conclude affermando: «Pensiamo innanzitutto che un filosofo debba annunciare un Dio, se vuole essere utile alla società umana»[7] – e Superstizione.

La così detta tesi “dell’utilità sociale” della religione nei confronti dei ceti più umili, significativamente giudicata da Sergio Landucci «l’aspetto più ripugnante della riflessione volteriana»[8], implica l’idea che i principi religiosi siano considerati mezzi necessari dal punto di vista politico per evitare la ribellione dei sudditi, “non degni” di conoscere la verità e di essere istruiti: «[…] il volgo non è fatto per simili conoscenze; la filosofia non sarà mai affar suo. Quanti dicono che esistono verità che devono essere celate al popolo non si devono minimamente allarmare; il popolo non legge; esso lavora sei giorni alla settimana e il settimo va all’osteria».[9] Rifiutando la possibilità di una morale “umana e di natura” – indipendente dalla religione – e ritenendo impossibile, in polemica con Bayle, il darsi di una società di atei – in quanto la religione, alla base della moralità, costituisce un elemento essenziale di qualsiasi società stabile, tranne che di una ipotetica società di filosofi – Voltaire afferma che: «È indubbio che, in una città organizzata, è infinitamente più utile avere una religione, anche falsa, che non averne alcuna»[10].

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Significativo è il duplice carattere della religiosità che Voltaire propone: per quanto riguarda l’élite intellettuale è sufficiente il deismo – una religione primitiva, naturale e razionale, frutto della “purificazione” delle religioni positive, incentrata sul rispetto di alcuni principi morali fondamentali e basata sull’idea di un Dio garante dell’ordine naturale, razionale e morale –; nei confronti del popolo incolto e povero, invece, l’autore arriva a teorizzare e a legittimare una vera e propria “impostura” utile e salutare; una religione “falsa”, ma in grado di fungere da freno morale e sociale e di mantenere l’ordine politico. In tal senso, quindi, Voltaire si mostra convinto della necessità e dell’utilità di ingannare il popolo, evitando di “illuminarlo” su alcune verità scomode – in primis la falsità delle religioni positive, il cui Dio vendicatore e rimuneratore e la cui credenza nell’immortalità dell’anima si rivelano errori utili.

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Dietro alla legittimazione delle “pie frodi” sembra celarsi la paura del demos da parte dell’ordine castale e la volontà di preservare il sistema sociale e politico: «Non credo che ci sia al mondo un sindaco o un podestà con soli quattrocento cavalli chiamati uomini da governare, il quale non comprenda la necessità di porre dio nelle loro bocche, acciocchè serva da morso e da briglia»[11].

Leo Strauss alla Casa Bianca

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La necessità, evidente in Voltaire, di una duplice soluzione del “problema politico” – nelle diverse accezioni in cui quest’ultimo può essere inteso – che, presupponendola, tenga conto di una netta e incolmabile disuguaglianza a livello intellettuale e culturale fra gli individui, riemerge prepotentemente in Leo Strauss. A questo punto della riflessione, con l’obiettivo di comprendere fino a che punto siano condivisibili le tesi di Wingo e Rorty – secondo le quali il ricorso a “errori utili” e la rinuncia alla “politica della trasparenza” si rivelano necessari per la conservazione e il consolidamento delle democrazie liberali moderne – sembra utile analizzare come il concetto platonico di “nobile menzogna” venga reinterpretato in Strauss. Proprio la proposta filosofica e politica di carattere aristocratico di questo autore, infatti, dimostrerebbe come la legittimazione dell’inganno nei confronti di una parte dei cittadini di una società, oltre al fatto di presupporre una concezione evidentemente paternalistica, ben lungi dal favorire la democrazia, finirebbe per sovvertirla, se non nella forma, quantomeno nella sostanza.

Strauss, facendo propria una prospettiva antiegualitaria e aristocratica, in polemica con la modernità e con concezioni di tipo democratico e liberale, recupera esplicitamente la “nobile menzogna” platonica affermando l’esigenza dell’uso strumentale delle religione da parte dell’élite politica in ambito pedagogico. Evidentemente influenzato dalle riflessioni filosofiche di stampo platonico e presupponendo una differenza radicale, dal punto di vista intellettuale e morale, tra il popolo e i “filosofi”, Strauss ritiene necessario nascondere a livello pubblico e politico gli esiti scettici cui la critica filosofica conduce. Per realizzare questo obiettivo egli propone il ricorso al mito religioso, in quanto strumento retorico di manipolazione e dominio sulla massa.

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Rispetto al “problema politico” – inteso come urgenza di conciliare ordine e libertà senza cadere nei rispettivi eccessi – Strauss si mostra convinto del fatto che l’unica soluzione possibile sia, non tanto di natura economica o giuridica, come sostenuto all’interno della prospettiva moderna e liberale, ma di carattere comunicativo. L’aspetto più interessante della riflessione straussiana è la duplicità della sua proposta; duplicità che, mantenendo come riferimento principale Platone e la filosofia classica, richiama da vicino l’elaborazione volteriana sopra descritta, giocata sull’individuazione di una religione per il popolo (le “pie frodi”) distinta dal deismo elitario.

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In Liberalismo antico e moderno[12], Strauss individua due forme alternative di educazione applicabili nella sua contemporaneità politica e alternative al modello laico e secolare proprio della modernità, destinata a degenerare, dal suo punto di vista, nel nichilismo o nel materialismo radicale. La prima, di tipo esoterico, è quella destinata a una ristretta élite politica (i gentiluomini che devono governare) e ai filosofi (che si dedicano alla vita teoretica), considerati intellettualmente e moralmente superiori. L’educazione detta “liberale”, nel senso antico del termine: è l’educazione degna dell’uomo libero. La seconda, di tipo essoterico, è riservata alla massa ed è l’educazione “religiosa”. Quest’ultima, elaborata sul paradigma della “nobile menzogna” platonica, si basa sull’utilizzo funzionale, da parte di chi detiene il potere, della religione – e, in particolare dell’idea di un Dio vendicatore e rimuneratore – come freno morale, sociale e politico utile per garantire il controllo e il soggiogamento del popolo incolto e “inferiore”. A parere di Strauss, qualora la massa popolare venisse “illuminata” circa il carattere convenzionale della moralità e circa la falsità delle credenze e dei dogmi religiosi – ai quali la moralità stessa, nella prospettiva della “nobile menzogna”, è strettamente legata – l’opportunismo e l’irresponsabilità prenderebbero il sopravvento, spezzando i legami sociali. In tal senso chi governa, facendo propri il disincanto e lo scetticismo propri dell’autentica filosofia, ha non solo la possibilità, ma il dovere di ingannare, senza essere ingannato.

La reinterpretazione della menzogna platonica elaborata da Strauss, all’interno di una concezione aristocratica e paternalistica – ma legata a un rigido realismo e alla consapevolezza dell’impossibilità di un’aristocrazia universale – che mira a svuotare le istituzioni liberali e democratiche, fino a ridurle a pure formalità – per riempirle di contenuti nuovi attraverso il progetto educativo e politico a cui si è accennato – è, quindi, una dimostrazione evidente di come l’attuazione di una “politica del velo” possa arrivare, in senso opposto rispetto a quanto sostenuto da Wingo e Rorty, alla pericolosa negazione de facto delle democrazie moderne.

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È interessante notare, per inciso, come, a parere di molti[13], la riflessione straussiana abbia influito, attraverso il movimento intellettuale statunitense “neoconservatore”, sulle politiche, soprattutto estere, dell’amministrazione di George W. Bush.

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Lyndon Larouche[14], economista e politico democratico americano, ha ricostruito i presunti legami tra Strauss – che è stato docente all’università di Chicago – i neoconservatori e la politica di Bush jr.: Paul Wolfowitz, ex ambasciatore americano in Indonesia, Vicesegretario alla Difesa dal 2001 al 2005, è stato allievo di seconda generazione di Strauss (attraverso Allan Bloom); e tra gli “straussiani” sembrano esserci anche il giudice Clarence Thomas, l’editore del Weekly Standard William Kristol, l’editore della National Review William F. Buckley, il politico William Bennet, il politologo Francis Fukuyama, l’ex ministro John Ashcroft. E ancora, tra gli altri, Harry Jaffa, Allan Bloom stesso e Abram Shulsky, direttore dell’Office of Special Plans, organo del Ministero della Difesa statunitense, responsabile della raccolta di informazioni utili a suffragare le ragioni della guerra contro l’Iraq del 2003, attraverso il così detto “imbroglio” – o “(ig)nobile menzogna” – delle armi di distruzione di massa.

In un quadro, come quello attuale, in cui si sente discutere spesso di “post-verità”, “post-democrazia”, “democratura” – in cui la democrazia è ridotta a un significato puramente formale e funzionale ad atteggiamenti di tipo autoritario – la riflessione sulla “nobile menzogna”, le “pie frodi” e, più in generale, su tutti i tentativi di legittimazione e applicazione della “politica del velo” può aprire a un dibattito più ampio, fino a giungere a interrogarsi sull’effettiva applicabilità della trasparenza nella realtà contemporanea.

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NOTE

[1] Dictionnaire européen des Lumières, Michel Delon (sous la direction de), PUF, Paris 2007, Peuple, p. 976.

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[2] Condorcet, Dissertation philosophique et politique ou réflexions sur cette question: s’il est utile aux hommes d’être trompés?, Œuvres complètes de Condorcet, tome X, éd. 1804, p. 260.

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[3] Ajume H. Wingo, Veil Politics in Liberal Democratic States, Cambridge University Press, New York 2003.

[4] R. Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo. L’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, Garzanti, Milano 1999.

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[5] Platone, Repubblica, cit., III 415a-415c, pp. 530-531.

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[6] Si veda A. Ghibellini, Al di là della politica. Filosofia e retorica in Leo Strauss, Genova University Press, Genova 2013.

[7] Voltaire, Dizionario Filosofico, cit., art. Frode, p. 1701.

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[8] S. Landucci, Voltaire, in «I protagonisti della storia universale. Il Settecento europeo», Compagnia Edizioni Internazionali, Milano 1969, vol. VII, p. 193.

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[9] Voltaire, Dizionario, cit., Prefazione, pp. 2-3. Si vedano anche, per esempio, le due lettere di Voltaire D12138 (12-10-1764) e D13212 (19-3-1766).

[10] Voltaire, Dizionario, cit., art. Ateismo, sezione IV, pp. 566-567.

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[11] Lettera di Voltaire alla duchessa de Choiseul: D16684 (5-11-1770).

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[12] L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, Milano 1973.

[13] Si veda, per esempio S.B. Drury, Leo Strauss e i neoconservatori, in «Iride», n. 42, il Mulino, agosto 2004, pp. 291-304. D’altra parte, a negare l’ammissibilità del legame tra Strauss e il neoconservatori americani vi è, tra gli altri, C. Altini, Leo Strauss: la storia della filosofia come modello ermeneutica per la filosofia politica, in «Iride», n. 42, il Mulino, agosto 2004, pp. 279-290.

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[14] Il dossier di Larouche è presente on line alla pagina [url”http://www.movisol.org/strauss.htm”]http://www.movisol.org/strauss.htm[/url] (ultima consultazione 21/02/2017).

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(27 febbraio 2017)

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