di Paolo Bartolini.
L’articolo recentemente scritto da Pierluigi Fagan e ripreso da Megachip mi pare ci offra un’analisi completa del quadro geopolitico attuale e la sua domanda finale – quella che invita a chiederci cosa fare politicamente e culturalmente nei prossimi trenta anni invece di rimanere stritolati dalla tenaglia delle false alternative (UE liberal-globalista vs nazionalismi populisti) – apre sicuramente il campo a un benefico esercizio della facoltà umana di “immaginare altrimenti”.
L’essere umano è animale culturale, capace di ri-creare continuamente il suo contesto storico in un processo di accoppiamento strutturale tra umani e non-umani. La sovranità è un concetto, come già rilevano da anni studiosi del calibro di Bruno Latour e Isabelle Stengers, che ai tempi del cosiddetto Antropocene non può più essere declinato secondo le coordinate classiche della modernità.
A fronte dell’intrusione di Gaia nelle nostre vite (parliamo qui dei cambiamenti climatici e degli altri aspetti sistemici della crisi ecologica) sarebbe assurdo pensare a una politica costituita da attori nazionali privi di influenze reali nello scacchiere geopolitico internazionale e inermi dinnanzi alla penetrazione delle logiche capitalistiche e spettacolari nel loro spazio territoriale.
Altrettanto assurda mi sembra l’idea di liquidare la forma statale in sé, registrando passivamente la collocazione periferica a cui sono destinati gli Stati, da almeno quarant’anni, per mano dei nuovi agenti della finanza e del commercio internazionale (fondi di investimento, multinazionali, istituzioni globali come il FMI, WTO e Banca Mondiale). Fagan descrive in modo convincente il passaggio d’epoca che stiamo vivendo: la globalizzazione economica conosciuta fino ad ora lascerà spazio gradualmente a una serie di conflitti e rinegoziazioni che, senza ledere l’interconnessione mondiale degli investimenti e delle criticità ambientali, andrà comunque a ridefinire confini e contorni della convivenza sul pianeta.
Per contare qualcosa e poter dire la propria in un mondo ormai multipolare (sebbene gli USA fatichino ad accettare il declino dell’egemonia a lungo esercitata), è necessaria l’esistenza di attori politici di taglia medio-grande. L’Unione Europea avrebbe potuto e dovuto rivestire un ruolo finalizzato a promuovere la sostenibilità ambientale, economica e antropologica, frenando le pulsioni distruttive dei gruppi di interesse e degli Stati che ancora coltivano un’idea predatoria dell’economia e della politica. Questo è stato ed è oggi impossibile per problemi strutturali che fanno dell’UE un’astrazione priva di centro, attraversata solo dai flussi del capitale, dalle politiche di austerità e dai pregiudizi neoliberisti.
L’aria che si respira negli ultimi anni, con l’emergere di rivendicazioni identitarie, indipendentiste e nazionaliste, rappresenta un sintomo gigantesco del tutto complementare alla follia di questa Europa senza popoli.
Immaginare, come propone Fagan, di costituire nel tempo uno Stato federale latino-mediterraneo mi pare uno spunto prezioso, provocatorio e ragionevole al tempo stesso. Tale orizzonte, per quanto mi riguarda e come ho già detto in passato, lo intendo nella prospettiva di un ripensamento e di una rifondazione concreta dello spirito europeo.
“Ma come? Per difendere l’idea di Europa bisogna farla a pezzi, fossero anche tre?”. Ci tengo subito a chiarirlo: non sono un fautore dell’uscita dall’euro come soluzione a tutti i mali, non credo affatto che una disgregazione rapida e incontrollata dell’UE possa condurre ad altro che a nuovi fascismi 2.0, non professo alcun culto dello Stato-nazione, anzi penso che la democrazia reale necessiti di differenti livelli di partecipazione e coordinamento (che includono ovviamente lo Stato, ma senza idealizzarlo).
Tuttavia ritengo che il sogno europeo, da tempo precipitato nel novero degli incubi, non possa mantenere alcuna promessa rimanendo vincolato alle leggi inflessibili dell’odierno assetto a guida tedesca. Uscire dalle alternative infernali vuol dire, oggi, pensare a una soggettività democratica che, contemporaneamente, sviluppi le sue pratiche liberatorie nel singolo, nelle relazioni interpersonali, nella comunità, nelle istituzioni di prossimità, nella dimensione regionale, in quella nazionale e in quella transnazionale. Pochi anni fa ho letto in un libro del filosofo Roberto Mancini un’immagine molto bella a proposito del potere: per far sì che il potere non degeneri in dominio (esito purtroppo frequente e quasi scontato) è necessario spezzarlo come il pane e distribuirlo tra le persone, con particolare attenzione ai più deboli, a coloro che sono stati estromessi dalle decisioni rilevanti sulla propria vita.
Spezzare l’Europa come il pane, per nutrirne i popoli, sancendo differenze che non sono opposizioni, ma occasioni di confronto tra realtà sovrane consapevoli delle sfide sistemiche che riguardano l’intera umanità: questo è l’unico processo che, passando per una progressiva disarticolazione del progetto europeo attuale, può schiudere l’orizzonte culturale e politico di una ricomposizione dell’Europa ancora tutta da immaginare.
Ebbene, la mia impressione è che i prossimi trent’anni ci debbano vedere protagonisti di una tessitura di alleanze, di buone prassi, di iniziative concertate, di studi e ricerche, che consentano sul piano transnazionale di dar forma a un fronte democratico latino-mediterraneo, consapevole dei suoi interessi di medio periodo sul piano economico e geopolitico, ma sempre attento – nello spirito di incontro che caratterizza da sempre il Mediterraneo – alla necessità di cucire le differenze, di mettere in dialogo, di gettare ponti e non di abbatterli, di sviluppare politiche concertate di accoglienza per i migranti (interagendo realisticamente con i protagonisti che si affacciano sul mare da sud e da est).
Gli interrogativi che dobbiamo porci oggi, a mio avviso, non riguardano l’impossibile riforma dall’interno dell’Unione, e tantomeno l’utilità di fuoriuscite azzardate di singole nazioni dagli accordi europei in vista di una fantomatica autosufficienza (impossibile ai tempi del capitalismo finanziario e neoliberista), quanto piuttosto la natura e la forma delle lotte transnazionali da avviare e coltivare, con particolare riferimento alla Francia, al Portogallo, alla Spagna, all’Italia e alla Grecia, creando dibattito e reti di scambio nei settori culturale, della ricerca e dell’innovazione, economico, dell’energie alternative.
Altrettanto importante è la creazione di una classe politica che, nei paesi latini e mediterranei da federare, possa maturare assumendosi la responsabilità di sfide comuni che superano il perimetro degli egoismi nazionali. Tutto questo per amore di un’Europa solidale che non è mai nata e che potrà nascere solo tenendo conto dei limiti geostorici e politici del nostro tempo.