di Luca Siniscalco*
Dialogare di filosofia, problematiche esistenziali e metafisiche, sembra spesso un moto contrario alla vita, nella sua componente fattuale ed esperienziale. I filosofi vivono nell’iperuranio, si baloccano di concetti, scherniscono la realtà, nella virulenta cogenza della sua manifestazione – così, spesso si sente dire. E talora, soprattutto nell’epoca contemporanea, dove le acrobazie linguistiche di certo postmodernismo danzano in una contrapposizione di facciata alle scuole analitiche, il sensus communis è ben fondato. Non lo è, tuttavia, quando il pensiero si fa abisso e, superando i concettualismi scolastici, tenta di approdare a un terreno autenticamente eccentrico. È con questo spirito che ci siamo confrontati con Luca Orlandini, pensatore indipendente che si cimenta quotidianamente in un assiduo lavoro di scavo filosofico, nel senso greco – e nobile – del termine. Curatore e traduttore in Italia delle maggiori opere di Benjamin Fondane, Orlandini nel 2017 ha curato e tradotto altri due libri capitali, B. Fondane, In dialogo con Lev Šestov. Conversazioni e carteggio e L. Šestov, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche (in un’inedita edizione annotata criticamente), pubblicati per le Edizioni Nino Aragno. Entrambi in uscita a settembre. Con Orlandini si è tentata una frammentaria e rapsodica lotta alle evidenze. Un altro tassello di dissidenza intellettuale.
La sua attività editoriale, in qualità di traduttore e curatore, l’ha portata a confrontarsi in special modo con due pensatori tragici, Lev Šestov e Benjamin Fondane. Affinità elettive? Quali ritiene siano i contenuti imprescindibili del loro pensiero per l’uomo contemporaneo, il tanto alienato millennial?
La personalità filosofica di Šestov ha influenzato in maniera determinante molti dei più importanti pensatori e scrittori del Novecento, compreso Cioran. Fondane, a sua volta, è il suo unico vero erede diretto. Le affinità con i due autori e i loro temi sono notevoli. È la loro radicalità ad affascinare. Rensi parlava delle buoni ragioni dell’irrazionale. Un appeal che non ha niente di puerile, poiché non scade mai in un facile anarchismo. Da sempre mi interessano quei territori del pensiero e della creatività che passano il confine ammesso, che si proiettano oltre i luoghi comuni, l’economia utilitaria dell’omnitudine. Tutto nasce da un’avversione istintiva per la cultura istituzionale, per le specializzazioni (un tipico prodotto anti-creativo, che emerge con la nascita dell’intellettuale moderno e la conseguente parcellizzazione e professionalizzazione del sapere), per i ritualisti della cultura e quell’erudizione sterile che si riduce a commerciare con le idee altrui. Mi riferisco ai glossatori e ai commentatori, ai meri compositori d’idee altrui. È un fatto che oggi la creatività sia stata sostituita dall’erudizione e la fantasia dalla ricerca bibliografica. Non si avverte più alcuna estensione in profondità, né speculativa, né creativa. Lichtenberg,al pari di Leopardi, la chiamava: dotta barbarie. Il suo rappresentante è un tipo antropologico molto diffuso, l’Intellettuale, che io definisco una mente foderata di libri, l’orgoglio di una corsa paralizzata dall’erudizione. E, ciò che è peggio, il tutto è condito dall’onniavvolgente cultura pop, il terreno su cui si muovono i millennials. Così, tutti creativi (un’eco dei centri stile della moda), nessun creatore. Non a caso L.Mascheroni ci ha scritto sopra un libro, Elogio del plagio. Lui lo vede come un fenomeno plausibile e forse condivisibile (la dissacrazione dell’aurea, del concetto di creatività, di genio, nell’era della riproducibilità tecnica dell’arte, dell’artificiale), sulla scia di W. Benjamin; io come un limite, e penso allo splendido saggio di E. Young, Congetture sulla composizione originale.
Gli intellettuali sono per lo più erudizione e niente profondità. Infarcire a getto continuo la propria prosa di rimandi dotti, eruditi, storici, filosofici, letterari, a meno di non essere un Brodskij, un Cioran o un Manganelli, può anche rivelarsi un difetto d’immaginazione individuale. La maggior parte delle volte è così. Chiedete a un compositore d’idee altrui di adottare una prosa nuda, completamente sua, priva di spunti eruditi, e scorgerete il suo scoramento letterario, la sua fatale appartenenza al mondo della prosa analitica, alla letteratura da note a piè di pagina. È lo specchio di una penosa condizione, una confessione d’inferiorità al cospetto della creazione, che viene elevata al rango di un equivoco prestigio letterario. Cioran la definiva una truffa intellettuale, tipica dei mestieranti delle Lettere o dell’Accademia. È quel mondo che, invece di affrontare le onde furiose del reale, preferisce attenersi ai comodi problemi astratti, alla moderna lingua razionale della prosa scientifica, alla letteratura da note a piè di pagina, alla terminologia scolastica, al marchio accademico, alla filosofia e al suo jargon. È il culto dell’Intelletto, il feticismo per l’intelligenza astratta, il celebre istinto intellettuale, in vitro, à la Valéry. La paralisi dell’immaginazione creatrice a favore della tirannia dei valori speculativi, astratti. Cioran docet: Niente è più facile che fabbricare opposizioni servendosi di categorie. Personalmente ho sempre amato quegli uomini in cui troviamo la rara coincidenza di profondità ed erudizione. Šestov e Fondane appartengono a questa categoria di eccezioni, come anche Cioran, Ceronetti e Rensi. Da questo punto di vista, a un giovane di oggi, ateo o credente, che voglia comprendere i moventi profondi che governano la Filosofia, consiglierei di leggere Šestov, forse il più grande Storico della Filosofia e, allo stesso tempo, il suo più implacabile nemico. E di leggerlo non passando attraverso il filtro dei suoi specialisti, ma sulla scia di Fondane, l’unico a restituire Šestov in tutta la sua radicalità. Così, In dialogo con Lev Šestov rappresenta un tassello essenziale contro gli sviamenti delle interpretazioni infedeli, razionalizzanti.
Nel suo scritto critico Il rigore della vertigine riconosce a Šestov e Fondane il merito di aver evocato una “fertile alleanza tra biologia e gnosi”. Cosa intende precisamente con questa lirica espressione? Vi sono altri pensatori cui può essere accordato questo merito?
In ogni autentico pensatore troviamo questa coincidenza, vissuta e/o teorizzata. La gnosi è da intendersi come conoscenza nel senso più alto e potente del termine, ovvero come Sapienza. Mentre la biologia è la fisiologia, il contatto con la vita materiale che va oltre l’Uomo – Bataille ha scritto che l’animale è il nostro più intimo rimosso. Mi riferisco a quello di cui parlavo poc’anzi, alla rara coincidenza di profondità ed erudizione, alla potente circolazione tra arte e vita. In caso contrario, ci si riduce alla semplice tentazione della vita, sublimata nei libri, al genere di contraddizione che si perdona solo a personalità del rango di B. Bazlen, G. Manganelli, T. Landolfi, M. Praz, S. Solmi, per intenderci. Solo in simili personalità la contraddizione è fertile. Fare del proprio mondo i libri, vegetare in un’archeologia intellettuale della vita, vuol dire che la conoscenza, il sapere, è sterile, anemico. Manganelli, con una significativa nota di sconforto, parlava della propria fisiologicità intellettuale, una cosa vergognosa. Quando tutta un’intelligenza viene coltivata a detrimento della propria natura, o per difetto di natura, senza il contrappeso del genio, che giustifica la contraddizione, si perde definitivamente il contatto con la vita, con l’empiria: Nietzsche e Leopardi erano dei filologi, ma anche ben altro. Alcuni autori, dunque, hanno difeso la complessità del mondo partendo dal punto di vista dei raisonneur, esprimendo la loro audacia e profondità nelle loro opere, e non nella vita: è il caso di Šestov e del virginale, illibato Leopardi, o anche dell’impotente Nietzsche. Ma il loro metodo en philosophe è appunto una contraddizione fertile.
La creazione, in loro, respira ancora tra le pieghe dell’erudizione, mentre quella degli accademici, degli specialisti e dei critici in generale, no. Robert Graves, ne La Dea Bianca, scrive: Lo ‘specialista’ è colui che per definizione non può sconfinare, pena l’essere espulso dall’ambito al quale appartiene. Penso sempre a quella frase di Dostoevskij, ne I demoni: Quelli che vanno sempre all’ultimo confine, passano sempre il limite. È il territorio delle personalità che ho citato fin ora, delle eccezioni che esplorano quella realtà che, per prevenzione od occultamento, la maggior parte degli uomini non vuole conoscere. Queste eccezioni rappresentano un assoluto che non è consigliabile accogliere, ma che è anche disdicevole respingere. Ceronetti, per esempio, a chi gli obietta di essere sprovvisto di specializzazioni e titoli accademici, risponde: L’unica mia specialità è il dilettantismo. È una dichiarazione profonda, tutt’altro che puerile. Lo stesso Lichtenberg, un illuminista, uno scienziato e un professore privo di qualsiasi sussiego per la Professorenschaft, sfuggiva alle classificazioni dei critici, privilegiava i dilettanti e gli autodidatti rispetto ai professori e sosteneva che le più grandi scoperte fossero state fatte dai primi, e non dai secondi; e che gli autodidatti vengono spesso considerati, dai professori e dagli accademici, come bracconieri o contrabbandieri, ma appunto per questo hanno la merce migliore. Per usare una metafora di De Maistre, gli specialisti e gli studiosi, di fronte a un appassionato amante, a un pensatore d’eccezione – vivo, fertile, contradditorio – fanno la figura di amorosi eunuchi.
Cioran, last nail on the coffin, sentenzia: I professori? Gente tranquilla che descrive esistenze tumultuose. Ho perfino sentito dire da un giovane intellettuale, che ha rinunciato a procreare biologicamente perché i suoi ‘figli’ sono e saranno sempre i libri. È una cosa ripugnante. L’anti-procreazionismo di Cioran, per esempio, aveva radici ben più profonde, legate al suo pessimismo cosmico, e non scadeva in un rifiuto intellettuale di creare la vita, in un principio libresco. E non va meglio con gli scrittori. Un giovane e affermato scrittore di racconti italiano, che crede nelle scuole di scrittura creativa e ritiene plausibile la figura e l’intervento dell’Editor nel processo creativo di uno scrittore (l’invadenza di Gordon Lish su Raymond Carver, per intenderci), sostiene che scrivere è innanzitutto uno sforzo immane di logica. C’è qualcosa di troppo artificiale in questa concezione, che rinvia al mestierante delle Lettere (e anche la Filosofia è una forma di Letteratura, una storia fantastica). È tutto troppo strumentalmente profano; si scade nella sterile concezione cartesiana della creatività di un Valéry, per esempio, ch’egli mutuava dal Philosophy of composition di Poe. È una connotazione squisitamente razionale dell’atto creativo, laddove si afferma il primato della logica sull’intuizione, a danno del valore fondante dell’immaginazione nel suo spessore irrazionale.
Antimoderni, inattuali, apartitici, eccentrici, nemici delle evidenze e del senso comune. Il pantheon degli autori a lei caro può fregiarsi anche del marchio della dissidenza intellettuale? Che cosa significa per lei essere dissidenti nella modernità?
Assolutamente sì. Sono dei maverick del pensiero, la loro lotta è ritenuta bizzarra e una continua sfida all’umanità comune. È la consapevolezza, come dice Ceronetti, che la verità più inutile è la sola verità utile. Il vero dissidente, outsider o inattuale osa guardare il mondo con i propri occhi, e non con quelli dell’omnitudine, del pensiero di tutti, generale; fissa lo sguardo sulla vanità e nullità dei fenomeni del mondo, della vita umana, ma, paradossalmente, in un modo vivificante, corroborante, mai cupo, depressivo o lugubre. Sono eccezioni che si proiettano oltre le viltà idealiste, rappresentano un’insoddisfazione divorante che annienta la commedia della Conoscenza, proprio perché il senso tragico è alla base della loro forma. Sono convinto che oggi lo sguardo antimoderno, nelle sue varie declinazioni, sia il più adatto a cogliere la fisiologia dell’epoca in cui viviamo: in un clamoroso articolo sul Corsera, il 27 marzo del 2002, G. Raboni sostenne che i migliori scrittori, i più lucidi, sono spesso gli antimoderni.
Mi viene in mente un saggio del 2005, di Antoine Compagnon, Les Antimodernes, mai tradotto in Italia – anche se non esaustivo, è stato un primo passo in questo territorio culturale. Beninteso, gli autori di cui parlo si spingono oltre il quadro tratteggiato da Compagnon (egli, infatti, nomina Cioran solo di sfuggita, mentre i nomi di Šestov e Fondane non ricorrono mai nel saggio). La profondità delle loro accuse rivela la vanità teorica della critica in generale, di quella engagé, produttiva, utile; e anche l’attuale moda dell’antimoderno scade non di rado in questo genere di limite e preoccupazione ansiosamente e politicamente produttiva, totalmente sconosciuta a un Leopardi, per esempio. Šestov scrive: le anime duplici, contradditorie, hanno sempre avuto l’effetto di risvegliare l’umanità dal suo torpore. La loro è un’esperienza di pensiero spietatamente risanatrice, una scrittura che non è Cattedra, poiché non emana il fetore tipico dei Comitati Scientifici, degli addormentati tra i calmi papiri dell’erudizione (Ceronetti dixit), di quelli che privilegiano Kant e Schopenhauer, il loro amore per la parola disinteressato e la famosa serenità spirituale tanto esaltata dai filosofi, ovvero l’aequanimitas; infatti, gli studiosi, oggi come in passato, per dimostrare l’imparzialità del loro rigore, la loro probità intellettuale, amano sottolineare che i loro studi sono composti sine ira et studio. Ovvero – salvo rari casi – zero linfa, anemia assoluta e sconfortante grigiore. Ahimè, idealmente, ogni critico, professore e ricercatore, qualunque sia il territorio in cui si applica nell’ambito delle Arti o delle Lettere, dovrebbe formarsi, e immergersi fin dall’infanzia intellettuale, in tutte quelle personalità che in un modo o nell’altro hanno minato alla radice, con le loro parole e vite, la stessa idea di critico o di critica; e trarne le conseguenze, per riemergere in superficie e porsi questa domanda finale: Sono in grado di superare l’incontestabilità e la profondità delle loro accuse?. Qualunque sia la risposta, bisognerebbe essere così onesti da ammettere che, in ogni caso, la maggior parte dei critici non avrà mai le risorse personali per superare tali contestazioni. E che il loro mondo intellettuale – l’erudizione stoicizzante, ovvero una difesa contro la vita – è più che un equivoco, se non abitato dalla contraddizione dell’eccezione, da qualcosa che non è mera critica.
Mi viene in mente una citazione di I. Berlin: L’educazione può modificare il livello delle conoscenze e delle opinioni esplicite degli uomini, ma esiste un livello più profondo, e qui essa è impotente. È il territorio in cui si muovono Šestov, Fondane, Cioran, Ceronetti, oltre la pedagogia, inevitabilmente adatta al conformismo. Non a caso, sono tutti Privatdenker. A un giovane pensatore di oggi che si interessi ai territori estremi dello spirito e dell’intelligenza, raccomanderei di partire da questo genere di consapevolezza, per poi evolvere e sviluppare uno sguardo davvero autonomo su questi fenomeni. Oggi, più che mai, la critica in generale è agli antipodi del pensatore privato. Il critico, nella cultura, svolge la stessa funzione che svolge Cristo nel cattolicesimo, ovvero il ruolo di vicario; nel caso del critico: di pensatore pubblico, il professor publicus ordinarius. Come in religione si crede in Cristo per non credere direttamente in Dio, per non avere un rapporto autonomo con lui, così i critici sono i vicari del pensiero di tutti, dell’omnitudine, per impedirci di accedere a quella profondità autonoma che testimonia l’esperienza del pensatore privato, di colui che vede il mondo con i propri occhi. Sono due realtà inconciliabili.
Il pensatore privato afferma che il miglior modo di filosofare è parlare di se stessi. Questa inclinazione soggettiva, personale, di pensare, è rifiutatissima da quella filosofia ufficiale che, al contrario, predica l’impersonalità, il rigore oggettivo, che come conseguenza ha il rifiuto di principio, ideologico, dei problemi esistenziali, e vieta qualsiasi interesse profondo per la persona vivente. Perfino lo stile e la bella scrittura (un’accusa cui è stato soggetto perfino Šestov), uno stile creativo o lirico non sono visti di buon occhio nella saggistica di stampo scientifico. Ciò accadeva cento anni fa, sia nel recente passato (viene in mente il drappo grigio della probità intellettuale di J. Benda ne Il tradimento dei chierici, dove critica lo “stile”), e anche oggi. L’inquietudine irrazionale subisce da sempre una rozza razionalizzazione. Brodskij affermava che la psichiatria è dello Stato; si può affermare qualcosa di analogo della critica. I critici, da sempre, pretendono di essere il filtro intellettuale tra noi e il reale, e la nostra consapevolezza critica passa necessariamente attraverso il loro processo di pastorizzazione, normalizzazione, a danno della nostra singolarità. Ridotto all’osso, spogliato da ogni maschera, il meccanismo della critica è sempre stato questo. Il critico vuole curare, scrive Šestov ne La filosofia della tragedia… dato che gli artisti non compirebbero le loro opere abbastanza coscientemente, occorreva che qualcuno le verificasse, le spiegasse e completasse. È sempre stata questa, per lo più, la violenza arrogantemente accademica contro la vera arte, la profondità di pensiero e ogni principio vitale.
Questo ambito controllato è quel territorio dove una forza reale diventa finta solo perché ne è stata contrastata la vitalità, scrive Fondane. È qui che l’arte, la creatività e il pensiero scade in mera fiction, in qualcosa di falso. Bukowski, a sua volta, afferma: la vera arte non solo non è capita ma è anche temuta. Ho visto docenti di filosofia teoretica occuparsi di Fondane, specialisti di Heidegger commentare Cioran o, ancora, ricercatori e accademici definirsi nei loro curricula “specialisti dell’esistenza”. È qualcosa d’improponibile. A parte rarissime eccezioni, difficilmente questo genere di figure, ossessionate dalla loro specializzazione, potranno mai dire alcunché di profondo su certe personalità sfuggenti e inclassificabili. Così, la vera dissidenza passa innanzitutto attraverso la profonda conoscenza di questi sottili meccanismi di compensazione, in cui vegetano gli estenuati e i colti, i meri spettatori, lettori e commentatori – gli amateurs o gli specialisti. Inoltre, un autentico pensatore controcorrente deve avere come indole innata il potere del rifiuto, dell’attacco frontale, l’ironia e il coraggio delle opinioni personali. I due importanti volumi che ho appena finito di curare e tradurre per la casa editrice Nino Aragno, ovvero B. Fondane, In dialogo con Lev Šestov. Conversazioni e carteggio e L. Šestov, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche, richiamano, direttamente o indirettamente, tutto ciò di cui sto parlando.
La fede nell’Albero della Vita, simbolo religioso ed esistenziale della nuda esistenza, viene celebrata da Šestov in antitesi alla ricerca ossessiva della conoscenza razionale e dialettica, che nel suo feroce dualismo squassa le esistenze. Come tornare ad abbeverarsi a questa fonte originaria?
Il vero fenomeno da commentare è molto più vasto e complesso di come di solito ci viene descritto dai filosofi di professione, dai grandi sublimatori del dramma della contraddizione. È come se ci parlassero da un territorio sbagliato, non sufficientemente aspro, da un luogo troppo domestico. Quello del peccato originale in quanto Sapere è un fenomeno tanto affascinante, quanto capitale. Šestov è stato uno dei primi, all’alba del Novecento, a riproporlo nei termini di un peccato di Sapere, e con una radicalità inaudita, irritante. È il fondo su cui si muove l’intero pensiero occidentale. L’ignoranza primitiva è ormai un fenomeno che ci è precluso, ovviamente. Il fenomeno del mito noi oggi lo conosciamo solo come una filosofia del mito. Lo constata anche Leopardi. Siamo passati dal binomio esperienza e soggetto, tipica del mito, all’epoca della creazione moderna, composta dalla coppia idea e oggetto, priva di un’unità immediata e vitale con l’uomo. Ormai esiste solo la dipendenza dalla riflessione, la creazione non è più un organo della natura, come negli antichi, ma un’appendice del pensiero (razionale); quella che noi occidentali chiamiamoarte, è in realtà il nostro concetto dell’arte, il prodotto di una frattura originaria con il mito. Concepire il peccato originale come un peccato di conoscenza, equivale a proiettare oltre la morale, la politica, l’economia, la tragedia dell’alienazione umana, additando la sua autentica origine metafisica. Se non è possibile tornare indietro, ovviamente, almeno è possibile una forma di resistenza, per coltivare un paradosso che contempli l’ambiguità del reale in tutta la sua estensione, e non solo l’economia dell’homo sapiens. Leopardi, Šestov, Cioran, Ceronetti, Fondane, Rensi, e tanti altri, ognuno a modo suo, hanno tentato, spesso paradossalmente, di scandagliare con le loro sonde la profondità di queste contraddizioni, l’effetto rovinoso, drammatico, del fenomeno della coscienza. In fondo, come è stato osservato, tutta l’opera di Leopardi non è altro che un commento al fenomeno della Spiritualizzazione (o, con le parole di Nietzsche, al formalismo del pensiero occidentale), sulla crisi del reale e l’apoteosi della sua secolarizzazione.
Oggi si scrive, pubblica, recensisce sempre di più. Siamo nel regno della quantità di guénoniana memoria. Eppure, come sentenzia Šestov, “è un fatto che nella società borghese lo scrittore non è libero né tanto meno amato”. Non è forse questa una delle più chiare contraddizione della democrazia liberale?
L’autentico pensatore non è mai stato libero nella società, e si proietta sempre oltre la Storia e i luoghi comuni: la Storia è implacabile contro gli apostati, scrive Šestov. Ogni pensatore dissidente possiede infatti uno sguardo inattuale, sconfina oltre il danno della Storia, per vederne i limiti e i confini, insinuando al suo interno ciò che si trova oltre. L’odierno appiattimento della qualità, e una certa superficialità di pensiero, la riscontriamo quotidianamente nel modo in cui certi scrittori d’eccezione vengono definiti. Ancora oggi, infatti, si definisce uno scrittore come Ceronetti un grande intellettuale, quando in realtà è qualcosa di molto diverso e più di un intellettuale, e più che un conciliante saggio: è un sapiente. Šestov, a sua volta, viene definito indistintamente un esistenzialista e un esponente dell’esistenzialismo, quando in realtà ne è stato un antagonista; la sua filosofia esistenziale è infatti diametralmente opposta all’esistenzialismo, e il filosofo esistenziale (il pensatore privato) è l’opposto dell’esistenzialista parigino, che a sua volta è fortemente (e sfortunatamente) debitore di una certa filosofia tedesca, in particolare di quella di Heidegger.
Lo stesso Cioran, ancora oggi, nella prefazione a le Œuvres de la Pléiade, è definito da Nicolas Cavaillès un mero elegante scettico, un misto tra Montaigne e Schopenhauer, implicando tacitamente l’ipoteca del razionalismo temperante del primo, e il fondo paradossalmente kantiano del pessimismo del secondo. Questi esempi, questi modi di interpretare certe personalità sfuggenti, non sono isolati, né dei lapsus intellettuali. Sono la norma, e un indizio profondo circa l’incapacità della cultura di oggi d’inquadrare lucidamente certi autori e certi problemi. Così, l’arte e la cultura sono ridotte a pura fiction, a semplici opposizioni teoriche, a una discriminante puramente concettuale. Si esclude tutto un universo che si sa immenso, per ignoranza o per volontà di dissimulazione. Da qui nasce un sottile fastidio per i dotti di secondo grado, che giocano alla commedia della conoscenza, della Cultura; per quegli illusi che immaginano l’intelligenza coincidere con il sapere, con il tanto più leggere, tanta più intelligenza. Un territorio, quello da circuito culturale, dove ogni cosa è trasformata in evento di rango intellettuale, astratto, in “un attentato contro tutto ciò che può esserci di irriflesso, in una ribellione contro le proprie profondità”, dove domina una falsa illuminazione, la conoscenza nell’eccesso della riflessione, dove si scivola sulla superficie delle cose, o nella cultura pop, che è non più nemmeno la cultura popolare, nel senso nobile del termine. Da questo punto di vista, tutto il fenomeno della cultura dotta, per molti aspetti, è una funesta apoteosi della coscienza astratta, e un compiacersene perfino. Per finire, cos’altro dire, quando le produzioni artistiche, letterarie e filosofiche, oggi più che mai, sono rinchiuse un circolo vizioso che le vede subordinate alla stampa giornalistica e alla moda? E quando queste ultime, a loro volta, lo sono agli interessi commerciali?
*Questo testo è stato pubblicato su L’Intellettuale Dissidente, il 6 settembre 2017. Ringraziamo l’autore dell’intervista e la redazione de L’Intellettuale Dissidente per averci concesso di riprenderlo qui.
Link articolo: Contro i mestieranti delle Lettere