di Sandro Vero
L’obiettivo di questo libro, Il racconto delle passioni. Ingegneria degli affetti nel semio-capitalismo (Bonanno, 2019), non è quello di dire la parola conclusiva sulle passioni nel capitalismo, tanto meno quello di dire la parola finale sulle passioni tout-court. Entrambi questi traguardi esigerebbero una tale quantità di spazio da scoraggiare chiunque si ponga invece mete non sistematiche ma parziali, preferendo impegnarsi su più fronti, su più linee analitiche convergenti piuttosto che esaurire (o pretendere di farlo) un tema specifico.
In ragione di questo, al lettore attento apparirà l’evidenza di un legame forte fra il precedente lavoro che l’Autore ha scritto sul capitalismo, centrato sul carattere circolare (e dunque infinito) dei miti nell’universo di senso strutturato nella società del profitto e questo libro, centrato sulla narrazione che il capitale tesse intorno alla vicenda passionale, facendone uno degli strumenti cardinali della sua strategia di soggettivazione.
Il legame fra i due lavori – che peraltro prelude al compimento di un percorso esplorativo da ultimare con un terzo futuro scritto sul farsi psichico dei contenuti indotti dalla macchina mitologica del capitale, dunque un’analisi dei rapporti fra ideologia e psicologia, già accennata nel primo scritto – va oltre il dato di superficie, quello di un mero rapporto di continuità/contiguità. In realtà, il percorso – tradotto in una sorta di ideale trittico – è un movimento dal generale al particolare, dal sociale all’individuale, che assume la forma di un imbuto, in cima al quale le cose hanno una pregnanza culturale (e dunque ideologica) e in fondo al quale la materia è diventata psichica, nell’unico senso che questo termine può avere dentro un discorso sul potere: l’estrema postazione soggettiva in cui la macchina semiotica controlla la corrispondenza fra flussi oggettivi (di capitale, di merce, ecc.) e flussi personali.
La struttura del libro merita una precisazione: è possibile che il lettore esigente, specie se accademicamente orientato, colga una sorta di frattura, comunque di scollamento fra la prima parte, teorica, e la seconda, applicativa. In realtà, a voler essere pignoli, entrambe le caratterizzazioni – teorico e applicativo – lasciano il tempo che trovano dentro un discorso che nasce, in certo modo, teorico e applicativo insieme. Ciò tuttavia non scioglie il nodo del salto, reale o presunto, fra prima e seconda parte, che potrà apparire tale nella misura in cui è abbastanza radicata la consuetudine ad attendersi una configurazione standard dei lavori che prevede per un libro o un taglio serioso e profondo o un taglio leggero, superficiale, divulgativo.
Qui l’Autore vuole decisamente proporre un rimescolamento di quei diversi “valori”: profondità può ben andare insieme a leggerezza, sintesi a profondità, leggibilità a sintesi, e così via.
La prima parte – che non a caso è intitolata ai fondamenti – sviluppa il tema delle passioni nel mito capitalistico partendo da un inquadramento del tema nel contesto del dibattito contemporaneo sul lavoro e la sua diversa antropologia nel neoliberismo (cap.1); dopo aver introdotto la nozione di “logica emozionale” (cap.2), aver posto una definizione del capitalismo come macchina semiotica (cap.3) e una necessaria presentazione del mito e della sua funzione (cap.4), il lavoro si apre poi a diverse declinazioni di quel tema affrontando il costrutto semiotico con cui il potere riformula le passioni per i suoi fini (cap.5); la strategia con cui – in una prospettiva vicina al pensiero di Foucault – è costruita la dimensione soggettiva delle passioni (cap.6); il rapporto fra tempo e narrazione, che da Ricoeur in poi appare come fondativo di ogni discorso sulle trame del senso (cap.7); la peculiare lezione greimasiana della semiotica delle passioni, calata in un’analisi sperimentale dei giochi narrativi presenti nella scena politica italiana attuale (cap.8); la modalità anaclitica con cui il capitalismo si appropria dei discorsi passionali per riconvertirli ai suoi servigi (cap.9).
La seconda parte, come già detto, ha un taglio più “operativo”, tentando un’analisi di “oggetti” concreti – politici e culturali – intorno ai quali e dentro i quali si genera una particolare concrezione della passionalità nel marchingegno semiotico del capitalismo contemporaneo. Gli oggetti scelti potranno sembrare più o meno vicini alla materia trattata: l’auspicio di Vero è che sia colto il fatto che le passioni che questo libro racconta non si riducono a quel pacchetto classicamente inteso delle passioni forti, romantiche o tragiche, ma comprendono anche contenuti della vita quotidiana, politica o personale, che essendo dotati di un alto tasso di emotività, fanno comunque gola alla burocrazia semiotica del potere.
Il libro si chiude con un lungo, articolato, appassionato scritto di Emanuele Fadda, che di professione fa il semiotico e che dunque si prende il carico di spiegare, con dovizia di elementi e completezza di visione, perché appare irrinunciabile il recupero di un’accezione valoriale, militante, ideale (se non ideologica) della semiotica.
Le passioni sono tradizionalmente considerate un materiale refrattario delle logiche insinuanti del capitalismo. Qui non si parla di esse nella loro declinazione carnale, ingovernabile. Se ne parla come fatti semiotici, vale a dire nella loro caratteristica “narrativa”, tanto utile alle strategie di vendita e di reclutamento da parte di un capitalismo che è divenuto sempre più semio-capitalismo.