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L’Economia, la Politica, Greta Thunberg e la “Miopia del Breve Termine»: Una Proposta

Gli anglosassoni chiamano “short-termism” l’eccessiva attenzione ai risultati conseguiti a breve termine a scapito del lungo. Riforma possibile: un senato 'intertemporale' [B. Bossone]

L’Economia, la Politica, Greta Thunberg e la “Miopia del Breve Termine»: Una Proposta
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30 Aprile 2019 - 22.35


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di Biagio Bossone.[1]

 

“L’economia capitalistica…è costituzionalmente incapace di garantire l’allocazione intertemporale delle risorse, poiché le generazioni future non possono fare offerte per risorse allocate sui mercati attuali. Di qui la necessità che sia lo Stato a occuparsi del nostro futuro a lungo termine.”                                             (F H Hahn)

 

Non sono un politologo, eppure l’urgenza (che da cittadino sento crescere) d’individuare meccanismi di scelta sociale adeguati ad affrontare i tanti problemi che richiedono di assumere una prospettiva di lungo termine mi ha indotto a vincere la riluttanza a trattare di una materia che non è la mia, nell’auspicio che anche dal solo aprire il tema al dibattito pubblico possa maturare una proposta efficace.
Il problema riguarda la necessità di contrastare e, se possibile, prevenire le gravi conseguenze della ormai onnipervasiva “miopia del breve termine”, ovvero ciò che gli anglosassoni chiamano “short-termism”, e cioè l’eccessiva attenzione ai risultati conseguiti a breve termine a scapito di quelli che si conseguiranno soltanto a lungo termine. Il tipico esempio è l’assillante preoccupazione delle imprese (in special modo, ma non soltanto, nel campo della finanza) di perseguire profitti a breve termine a ogni costo per soddisfare le aspettative degli azionisti, sacrificando obiettivi strategici di più lungo corso, l’attenzione verso i fondamentali del business e la creazione di valore di lungo termine. Nato nella letteratura economico-finanziaria, il concetto può estendersi a ogni campo delle preferenze sociali (e certamente alla politica), allorché si sia consapevoli del fatto che tutti noi esseri umani tendiamo a conferire ben maggior peso al nostro futuro prossimo piuttosto che a quello a noi più distante, essendo per natura avversi a sostenere costi certi e immediati a fronte di benefici (economici e non) incerti e futuri, e ancor più restii a scambiare nostri benefici presenti con benefici a favore di soggetti terzi, per di più ancora da venire, quali sono gli individui appartenenti alle generazioni future.
Basta leggere le cronache di questi giorni per avere un esempio vivido dell’attualità emergente di questo problema, allorché un gran numero di “adulti del futuro”, ispirati da una loro straordinaria coetanea dal nome di Greta Thunberg con i suoi “Fridays for Future”, chiede a noi “adulti del presente” di fare qualcosa per evitare di lasciar loro in eredità un mondo in via d’irreversibile surriscaldamento, con le conseguenze catastrofiche che i modelli di consumo, nostri e di chi ci ha preceduto, li condanneranno a subire in assenza di azioni rimediali significative e immediate. Non c’è il tempo di attendere che crescano per acquisire il potere di agire per salvare il mondo che avranno il diritto di abitare: è nostro dovere farlo.
Ma, come sempre assai lucidamente osserva Gustavo Zagrebelsky, le generazioni future non possono far valere i propri diritti nei confronti di quelle precedenti. Eppure, come anche Greta Thunberg ci ricorda, queste ultime hanno dei doveri nei confronti delle prime, esattamente come ogni madre sente nei confronti del bambino che porta ancora in grembo. Sul piano del diritto, il ragionamento è il medesimo di quello che sul piano economico ci ha lasciato uno dei maggiori esperti della teoria dell’equilibrio economico generale, l’economista di Cambridge Franky Hahn, ripreso in epigrafe: le generazioni future non possono intervenire a difesa dei propri interessi e diritti sui meccanismi di allocazione delle risorse nel tempo presente; occorre pertanto che sia lo Stato a farlo in loro vece e per loro conto, riconoscendo i loro legittimi interessi e diritti, individuando processi efficienti per perseguirli e rendendo efficace l’impegno a far ciò.
Dunque, quando sono ben scritte, le Costituzioni ispirano i popoli a proiettare il proprio sguardo in avanti, ben al di là delle prossime elezioni, così come uno Stato che ha cura del benessere durevole dei suoi cittadini si preoccupa di assicurare meccanismi di sviluppo sostenibile nel tempo. Pertanto, certe decisioni su certe materie che investono orizzonti di tempo lunghi dovrebbero essere almeno in parte sottratte al ciclo politico-elettorale, per sua natura di breve respiro, per essere delegate a istituzioni competenti cui sono affidati mandati ad hoc i cui obiettivi si articolano su archi temporali estesi.
Questa è la tipica giustificazione delle istituzioni «non maggioritarie», come le autorità indipendenti (ad esempio la Banca centrale o l’Antitrust) e gli organi giudiziari. La competenza scientifica e specialistica, a certe condizioni, è il presupposto per valutare le opzioni possibili su questioni che trascendono traguardi ravvicinati nel tempo e per compiere le scelte conseguenti. D’altra parte, le istituzioni non maggioritarie vanno inserite nel tessuto della democrazia e sottoposte a molteplici controlli. Diversamente, si arriverebbe al re-filosofo platonico o al governo dei «guardiani» (di cui ha parlato il politologo Robert Dahl), con implicazioni verosimilmente indesiderabili. Peraltro, le istituzioni non maggioritarie, da sole, non bastano a orientare l’impostazione filosofica dell’attività legislativa e, in particolare, dei principi generali cui ispirare nuove proposte di legge. Occorre pertanto puntare al cuore dei criteri ispiratori del meccanismo di produzione delle politiche pubbliche, il che può essere fatto soltanto iscrivendo nella Costituzione stessa di un paese la responsabilità di preoccuparsi del suo futuro più lontano.  
Si tratta, in altri termini, di far sì che le scelte di policy che governi e parlamenti democraticamente eletti compiono in nome e per conto della collettività nazionale, tanto in campo economico quanto in altri settori vitali della vita umana e sociale (ambiente, energia, salute, istruzione, etc.), non siano dominate dall’obiettivo dei politici di conquistare il consenso immediato dell’elettorato, a scapito di una adeguata valutazione delle conseguenze che quelle scelte possono avere nel più lungo termine sulle generazioni dei nostri figli e di quelle che verranno ancora dopo.
Ora, l’ordinamento costituzionale italiano dispone già di un istituto che, se opportunamente riformato, potrebbe svolgere un ruolo in tal senso importantissimo. Si tratta della carica istituzionale del “senatore a vita”, cui accedono, di diritto, gli ex presidenti della Repubblica (una volta ultimato il loro mandato presidenziale e salvo rinuncia) nonché cittadini italiani scelti e nominati dal presidente della Repubblica fra coloro che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» (art. 59, comma 2 della Costituzione).
Si potrebbe riformare tale istituto conferendogli la responsabilità di contemperare la continua ricerca del consenso elettorale – che, come prima detto, troppo spesso induce chi lo persegue a privilegiare il soddisfacimento di interessi orientati al breve termine – con l’esigenza di assumere decisioni che tengano conto anche dei diritti delle generazioni future che, per definizione, non votano, non portano consenso a chi quei diretti intende difendere e non hanno possibilità d’incidere su scelte presenti che pure riguarderanno la loro esistenza e incideranno sulla loro vita.
Ai senatori a vita – scelti fra personalità di alta reputazione e saggezza, dotate di grande esperienza e visione maturate nel corso di lunghi percorsi professionali, non più influenzabili da esigenze carrieristiche e svincolati da legami partitici o preoccupazioni elettoralistiche – potrebbe essere affidato il mandato di operare in nome e per conto delle generazioni future, interpretandone le esigenze, rappresentandone le istanze in Parlamento, e dando articolazione alle responsabilità che le generazioni presenti hanno verso di esse.
I senatori a vita, in una parola, diverrebbero la «voce» delle generazioni future, che attraverso quella voce vedrebbero espressi e sostenuti i propri diritti da cittadini del futuro verso cui i cittadini del presente hanno precisi doveri. I senatori a vita esprimerebbero quella voce sia con le proprie manifestazioni di voto, sia con iniziative legislative, nonché attraverso pareri (che potrebbe essere resi obbligatori) sulle proposte governative e parlamentari in discussione, volti a considerarne l’impatto sulle generazioni future e a suggerirne eventuali emendamenti. Tali prese di posizione sarebbero corredate da relazioni che ne illustrerebbero le sottostanti motivazioni, rendendo trasparenti i processi di formazione delle opinioni espresse e comprovandone la coerenza col mandato conferito.
Al fine di poter svolgere appieno tale delicato compito, il gruppo dei senatori a vita potrebbe essere assistito da un apposito organismo consultivo tecnico-scientifico (al riguardo si potrebbe anche immaginare una riforma del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro [CNEL], in luogo della sua più volte discussa soppressione), che avrebbe accesso a ogni fonte di sapere disponibile nel Paese o altrove, utile per formulare opinioni informate relativamente alle materie in discussione.
Inoltre, affinché la voce delle future generazioni sia resa sufficientemente udibile, il numero dei senatori a vita potrebbe essere incrementato. Parimenti, i requisiti che ne regolerebbero la selezione dovrebbero essere adeguatamente definiti e il processo di nomina dovrebbe essere soggetto a legittimazione democratica. Per esempio, i candidati dovrebbero rientrare in un elenco che oltre all’età minima preveda, fra l’altro, alcuni tra i seguenti requisiti: i) il vincolo di non appartenere a nessun partito, ii) l’aver raccolto almeno un certo numero di firme di cittadini favorevoli alla candidatura, iii) l’aver vinto importanti premi internazionali o l’aver conseguito risultati di eccezione nel campo della cultura, della scienza, dell’arte, della solidarietà, della cooperazione e altri o l’essere stati alla guida di importanti istituzioni o società per un certo numero di anni, o l’essere (stati) docenti universitari di chiara fama. Infine, i candidati (che sarebbero comunque chiamati a esprimere la propria accettazione) dovrebbero passare attraverso una consultazione elettorale in base alla quale, prevedendo che il gruppo di senatori a vita sia costituito da un numero fisso di componenti, a ogni elezione politica si voterebbe per rimpiazzare solo quelli che nel frattempo fossero deceduti o coloro che nel frattempo si fossero dimessi.
In conclusione, l’intendimento non dovrebbe certo essere quello di ricostituire il Senato del Regno d’Italia (dove i senatori erano nominava dal re a propria discrezione), né di creare l’equivalente della camera britannica dei Lord (la cui appartenenza spetta ai membri per diritto ereditario), ma quello di istituire un organo istituzionale democratico e funzionale alle esigenze di una democrazia matura che guarda consapevolmente e con responsabilità al suo futuro,  restituendo al Senato la sua propria funzione originaria, anche in senso etimologico – il “senato” come adunanza dei “senes”, cioè degli anziani della res publica, nel senso nobile del termine.
Oltre a un contributo di sostanza, la riforma qui proposta recherebbe anche un’importante valenza simbolica: restituirebbe alla figura della “persona d’età” quel ruolo di saggia guida che le società di un tempo le riconoscevano, e che da tempo è invece andata perduta, restituendo dignità sociale alla figura dell’«anziano» o del «vecchio». Di più: nell’affidarle il compito d’incarnare gli interessi di quanti verranno dopo, ne farebbe un ponte fra il passato e il futuro, in un contesto – quello parlamentare – che oggi, come ben si vede, è oppresso e mortificato dalla tirannia dell’eterno presente. Contribuirebbe altresì a riavvicinare alla politica i cittadini, in particolare i giovani, ricongiungendo generazioni che la vita contemporanea allontana le une dalle altre.
La nuova declinazione del ruolo dei senatori a vita qui proposta avrebbe, infine, la benefica conseguenza di eliminare il rischio che i partiti rappresentati in Parlamento ne strumentalizzassero impropriamente il voto a fini politici di parte o a sostegno d’interessi particolari. L’ex-Cancelliere tedesco Helmut Schmidt ha scritto: «quando si diventa molto anziani si è portati a pensare in uno spazio temporale lungo, sia all’indietro sia verso il futuro desiderato e sperato». Questo diverso spazio temporale, insieme al mandato conferito a vita e alla riconosciuta autorevolezza personale e intellettuale, garantirebbe ai senatori a vita una condizione di piena autonomia politica, proteggendo quella terzietà del loro ruolo che è attributo essenziale per sostenere e difendere interessi di soggetti che non sono rappresentati.   
Governo e parlamento hanno il compito di realizzare ciò che è bene per il futuro del nostro Paese. Futuro che, in questo tempo dell’essere sociale di un uomo sempre più ripiegato sull’oggi, deve indurci a pensare alle generazioni a venire che, proprio perché oggi non ancora presenti, impongono a noi, presenti, d’interpretarne e rispettarne le vitali esigenze.
Come è noto, si è discusso a lungo in Italia sia del superamento del bicameralismo perfetto sia della creazione di un Senato delle autonomie. Da ultimo, il progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi, nato con un disegno di legge presentato dal Governo Renzi l’8 aprile 2014 e bocciato al referendum confermativo del 4 dicembre 2016, si prefiggeva «il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». Il provvedimento proponeva in particolare una radicale riforma del Senato della Repubblica, la cui principale funzione sarebbe diventata quella di rappresentanza delle istituzioni territoriali, concorrendo paritariamente con l’altra camera all’attività legislativa solo in determinati casi.
Nulla di tutto ciò, tuttavia, poneva la questione intergenerazionale che è qui in discussione, e il principio delle ragioni di «lungo termine» che la sottende. Occorre invece prendere in mano quella questione e quei principi, con lungimiranza e grande senso di urgenza.
La fase politica di questi ultimi anni, nella quale i Governi che si sono succeduti sembrano tutti essere stati assillati dall’impegno di rendere più efficiente il funzionamento della “macchina politica” del Paese, in tempi nei quali, d’altra parte, appare sempre più pressante il bisogno della collettività di volere e sapere guardare oltre il breve termine, offre l’opportunità di avviare una riflessione sui modi per rafforzare la funzione dell’intera nostra democrazia parlamentare, ampliandone la rappresentatività in senso intertemporale, nell’intento di pensare e operare nella visione di un futuro migliore. 

NOTA

[1] Ringrazio sentitamente Antonio La Spina, sociologo del diritto, per i preziosi commenti e integrazioni a precedenti versioni di questo scritto e per la sua simpatia di fondo all’idea in esso esposta. Ringrazio molto anche Marco Cattaneo, Massimo Costa e Stefano Sylos Labini per l’incoraggiamento e gli utili suggerimenti. Naturalmente, resto interamente responsabile per le opinioni espresse e gli eventuali errori o inesattezze in esse contenuti.   
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