di Alfredo Tocchi.
Nel 1987, il Professor James Robert Flynn – uno psicologo americano emigrato in Nuova Zelanda, docente all’Otago University – pubblicò uno studio dal titolo: “Massive IQ Gains in 14 Nations”. In estrema sintesi, dopo avere condotto misurazioni del quoziente d’intelligenza (QI) in 14 nazioni, Flynn riscontrò un progressivo aumento del valore del quoziente intellettivo, con una crescita media di circa 3 punti per ogni decennio. Ancora oggi si parla di “effetto Flynn” intendendo il progressivo aumento del QI.
“Magnifiche sorti e progressive”? No. Dall’inizio del secolo corrente, il QI ha cominciato, anche se lentamente, a calare. Cresce vertiginosamente l’intelligenza artificiale (IA, intesa come capacità di calcolo dei computer), diminuisce l’intelligenza umana.
La precisazione “capacità di calcolo” era doverosa: l’intelligenza viene oggi ridotta a una sua frazione, l’intelligenza emotiva non viene mai menzionata nei dibattiti sull’IA. Per forza, starete pensando, i computer non sono capaci di provare emozioni: pensiero lapalissiano che tuttavia ci fa intuire che tutta la fiducia riposta nell’IA sia il frutto di una mistificazione, di una supposta sinonimia tra IA e intelligenza umana, come se due cose qualitativamente diverse potessero essere definite dalla stessa parola.
In tutta la storia recente, del resto, siamo vittime di una costante mistificazione del linguaggio: si chiamano con uno stesso nome due cose qualitativamente diverse e il gioco è fatto (il caso dei vaccini tradizionali e dei “vaccini” a mRNA è emblematico).
I nostri figli, purtroppo, hanno buone probabilità di essere meno intelligenti di noi, nonostante vivano in un mondo sempre più complesso (o, secondo alcuni, proprio per quello).
A questo dato di fatto scientificamente dimostrato (puntualizzo per i Giudici della Consulta, che si affidano alla scienza), se ne aggiunge un altro: i nostri figli, purtroppo, hanno altrettante buone probabilità di essere meno empatici di noi.
Non sono certo di come si misuri l’empatia, ma la conclusione della scienza è – anche in questo caso – incontrovertibile. Un noto pediatra, il Dottor Raffaele Troiano, in un suo articolo apparso sul sito faropediatrico.com, parla di «…rincretinimento cronico diffuso tra adulti e bambini, tutti ipnotizzati davanti ai vari schermi (TV, smartphone, tablet, videogiochi… etc.)» e di perdita di ogni forma di interazione umana.
I nostri figli – purtroppo – sono a volte “individui umanamente iposviluppati”, teppisti asociali e violenti. Più spesso, mi permetto di aggiungere senza alcuna competenza specifica, individui più attenti a ciò che accade nei filmati su TikTok (di cui comunque guardano pochi secondi, la capacità di attenzione sembra essersi ridotta in maniera preoccupante) rispetto a ciò che accade accanto a loro, nella vita reale.
Mi sembra già di sentire il commento di mia figlia maggiore, brillante studentessa universitaria: “Papà, sei vecchio! La vita reale è anche quella trascorsa davanti agli schermi o, come nel tuo caso, leggendo”. Lo ammetto: ho passato molto del mio tempo leggendo: la lettura è stato il mio metaverso fin da bambino. Ma grazie alla lettura io ho sviluppato la comprensione del linguaggio, l’attenzione, la memoria, ottenendo come sottoprodotto una cultura che forse si potrebbe anche acquisire davanti a uno schermo, ma a condizione di guardare soltanto documentari e dibattiti!
Invece, questi giovani “individui umanamente iposviluppati” non soltanto non hanno cultura, ma hanno buone probabilità di essere meno empatici dei loro genitori (uso questa formula dubitativa perché generalizzare è sempre e comunque sbagliato).
Il Dottor Troiano non ha dubbi: «C’è di fatto una quota di bambini che vengono su privi di empatia e senza alcun senso umano. Oggi molto più che ieri. Oggi molto più che all’epoca dei nostri padri e nonni, nonostante ieri l’occidente fosse molto più devastato da guerra, povertà e disagio sociale rispetto a oggi».
Il fenomeno è studiato in tutto il mondo occidentale. In Danimarca, hanno inserito tra le lezioni scolastiche un’ora di empatia a settimana. «La capacità di un bambino di empatizzare coi suoi simili dovrebbe essere incentivata oltre che monitorata periodicamente, così come monitoriamo i centimetri e i chilogrammi. Altrimenti rischiamo di generare “pezzi di carne cresciuta”, piuttosto che persone vere».
In sintesi, l’educazione gioca un ruolo importante nella crescita dell’empatia e dell’intelligenza emotiva in genere.
E qui, finalmente, vengo alla notizia che mi ha spinto a scrivere questo articolo: esattamente come nel romanzo di fantascienza distopica Il mondo nuovo di Aldous Huxley, in Israele un team di ricercatori ha un progetto di uteri artificiali per sostituire quelli materni. Ce ne dà notizia Arianna Cavigioli in un articolo su lafionda.org.
«Due settimane fa il giovane biotecnologo molecolare, divulgatore scientifico, regista e produttore Hashem Al-Ghaili ha messo in rete un video su un ipotetico futuro scenario in cui i bambini potranno essere coltivati in uteri artificiali all’interno di laboratori. Attraverso un algoritmo viene selezionato l’embrione geneticamente superiore da impiantare in una capsula trasparente che simula l’ambiente uterino. Ogni utero artificiale è pervaso da sensori per monitorare il livello di ossigeno nel sangue, il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la frequenza respiratoria, e rilevare eventuali anomalie genetiche. Grazie all’AI e tramite un’app i genitori possono conoscere in tempo reale e comodamente dal proprio smartphone lo stato (o meglio, i parametri) di salute del bambino, e scegliere suoni vocali o musicali da trasmettere nella capsula uterina. Inoltre, l’utero artificiale è dotato di telecamere a 360 gradi e indossando un visore vr è possibile vedere, toccare e udire quello che percepisce il feto nell’utero artificiale. Una tuta vr, invece, consente di sentire i calci e i movimenti compiuti dal bambino, nutrito al meglio con ormoni, fattori di crescita e anticorpi tramite un cordone ombelicale digitale».
L’articolo è estremamente interessante e suggerisco di leggerlo. Figli meno intelligenti ed empatici dei genitori naturali popolano già la terra. Cosa succederà quando nasceranno da «una capsula trasparente che simula l’ambiente uterino»?
Si dà per scontato che il periodo di gestazione all’interno di un corpo vivo sia equivalente a quello di gestazione in «una capsula trasparente che simula l’ambiente uterino».
Ho due figlie (da altrettante mogli), ho assistito alla nascita di entrambe. A livello emotivo, cosa avrei provato se fossero uscite da una capsula, magari dopo un’inseminazione artificiale? E se io fossi la madre (perché no, oggi già posso scegliere se essere genitore 1 o genitore 2, perché non dovrei essere libero di indossare «una tuta vr, (che) consente di sentire i calci e i movimenti compiuti dal bambino, nutrito al meglio con ormoni, fattori di crescita e anticorpi tramite un cordone ombelicale digitale»?.
Che meravigliosa libertà sarebbe andare a ritirare il mio bebè insieme al genitore 1, maschio come me ma padre?
Yuval Noah Harari (il più influente pensatore dei nostri tempi) è sposato con suo marito: non ho nulla in contrario e chi mi accusi di omofobia è un calunniatore. Non mi curo dell’orientamento sessuale di nessuno e soprattutto non giudico (se non altro nella vana speranza di non venire giudicato). Mi curo invece di quel bambino del prossimo futuro, un tempo distopico, in cui l’essere umano vivrà un simulacro della vita, perso in ambienti artificiali, lontano dalla natura, costantemente altrove, in un metaverso di «…rincretinimento cronico diffuso tra adulti e bambini, tutti ipnotizzati davanti ai vari schermi (TV, smartphone, tablet, videogiochi… etc.)».
Aldous Huxley era un membro influente della Fabian Society. Convinto che le sorti del mondo fossero magnifiche e progressive. Io, mi dispiace scriverlo, non sono così ottimista.
Il mondo occidentale «…è la manifestazione della Grande Parodia: il regno dell’Anticristo» (Aleksandr Dugin, Teoria del mondo multipolare). Io, che non ho fede, rabbrividisco rileggendo le parole scritte da Emil Cioran nel 1964: «Convinto che verrà il suo momento, che a lui competa raggiungere Dio e superarlo, egli (nota, l’essere umano) si consacra – da invidioso – all’idea di evoluzione, come se il fatto di avanzare dovesse necessariamente portarlo al più alto grado di perfezione. A furia di voler essere altro, finirà col non essere niente; già ora non è più niente. Certo, egli si evolve, ma contro sé stesso, a proprie spese, verso una complessità che lo rovina».
Verso una complessità che lo ha già reso meno intelligente, meno empatico e lo sta convincendo che la più straordinaria caratteristica umana; l’intelligenza emotiva, non conti nulla al confronto della potenza di calcolo dell’intelligenza artificiale.