Io so che un giorno

Ovvero della chiusura dei manicomi, degli orti comunitari e di come la città di Milano li rimuova scivolando sui cachi

Io so che un giorno
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23 Febbraio 2013 - 15.15


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di Ettore Macchieraldo

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C’è una notizia che sta circolando anche in rete che mi coinvolge molto, e che vorrei coinvolgesse anche molti altri.

Sto parlando del progetto di edificazione della Provincia di Milano sull’area dell’ex manicomio tra Affori e la Comasina.

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All’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico esiste una realtà che da molti anni realizza progetti per la città.

Il nuovo Piano di Governo del Territorio ha approvato l’edificazione nel Comparto Litta Modignani, all’interno dell’area che attraversa parte del parco dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. Un programma di edificazione voluto dalla Provincia di Milano che non tiene alcun conto delle realtà operanti: orti comunitari, area sperimentale dell’Istituto Pareto, aree di biodiversità e bellezza.

Con il progetto “Comparto Litta Modignani” si andranno a cancellare più di un migliaio di alberi di alto fusto, oltre 300 alberi da frutta (di cui 150 di varietà antiche provenienti da tutta la penisola), piante spontanee, varietà orticole, animali selvatici e insetti utili alla biodiversità. Ma soprattutto verrà minato un sistema riconosciuto e condiviso di progettualità partecipata, voluto e sostenuto dai cittadini. Un programma di edificazione che andrà a cancellare anni di intelligente lavoro sul territorio, unico per caratteristiche e prospettive.

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Quando ho letto questo appello mi ha preso un groppo in gola.

È una vicenda che mi coinvolge molto. Ho lavorato a lungo in quella realtà, ne ero parte. È un luogo con una storia, una storia di reclusione e di annichilimento istituzionale delle persone. È un ex manicomio. L’impegno delle diverse associazioni che dagli anni ’90 ci lavorano vuole ricordare cosa è stato quel luogo, cosa sono stati i manicomi, per restituire quell’area ai cittadini.

Quando decisi di dedicare parte della mia vita a quel progetto lo feci anche perché vidi, di fronte al padiglione dove facemmo una falegnameria, una bellissima area verde, con un frutteto e tanti alberi di cachi.

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Il caco (o kako) è una pianta da frutto proveniente dal Giappone e dalla Cina, diffusissima nell’area mediterranea e in Italia. Tanto che Elio e le Storie Tese ne hanno fatto un successo canoro. Sono frutti dolcissimi, chiamati addirittura pane degli dèi, che noi italiani lasciamo cadere a terra trasformandosi in spiacevoli poltiglie scivolose. E infatti anche nell’ex manicomio non venivano raccolti, prima della scoperta – da parte nostra, cittadini – della possibilità di raccoglierli direttamente dagli alberi.

Per me i progetti di de-istituzionalizzazione al Paolo Pini furono un modo per vivere la città come luogo: un posto dove costruire relazioni e solidarietà. Fu un modo per uscire dai non-luoghi della città, secondo la definizione del sociologo Marc Augé: luoghi dove milioni di persone passano senza mai relazionarsi tra loro né con la storia e l’identità del posto.

Poi decisi di abbandonare la metropoli per la straprovincia piemontese.
Altri hanno continuato quel duro lavoro.

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Di quella esperienza mi sono portato dietro molto. Alcune cose le ho capite, altre rimangono intricate. Tra quelle che mi stanno servendo e a cui mi sento molto vicino c’è l’esperienza degli orti comunitari che proprio davanti alla mia falegnameria ho visto nascere.

Quella nata intorno al Giardino degli Aromi è l’esperienza pilota a Milano sugli orti condivisi. Ci sono un centinaio di orticoltori di tutte le età che lavorano insieme, si scoprono talenti, ci si conosce e si sviluppa una socialità bellissima. Due anni fa è stata fatta una mappatura di tutti gli spazi verdi abbandonati di Milano ed è nata la rete delle libere rape metropolitane. Poi è arrivato un accordo con il Comune di Milano che ha messo nero su bianco la possibilità di gestione degli spazi verdi abbandonati direttamente da parte dei cittadini.

Questo è un processo molto importante, proprio per il periodo che stiamo vivendo. La crisi – o meglio le crisi economica, ambientale, sociale – sta portando le persone all’esasperazione.
Riuscire a innescare queste dinamiche non fa bene solo al cuore: è anche una risposta materiale ai bisogni.

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C’è una vecchia canzone di Ivan Della Mea, cantautore milanese, che parla proprio di manicomi e libertà: Io so che un giorno. Si chiude ironizzando sul progresso di un sistema che, grazie ai pagamenti rateizzati, rende tutti uguali: tutti con la macchina e la lavatrice.

Rende uguali e fa felice chi ha il potere e chi invece non ce l’ha.

Questa è l’illusione in cui siamo vissuti fino a non molto tempo fa. È nostro interesse che esperienze come quelle degli orti comunitari diventino pratiche accessibili a sempre più persone, a tutte quelle persone che non sono più uguali né tanto meno felici di ciò che sta arrivando loro addosso, e che hanno solo il potere di riconoscere i propri simili e sostenersi a vicenda.

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Se verrà approvata questa edificazione su quell’area ci perderemo tutti. Ci perderà anche il nuovo corso delle amministrazioni milanesi, che così darebbe prova di non segnare alcuna reale discontinuità con il consumo di territorio e gli appetiti di nuove costruzioni delle giunte del passato.

Il progetto della Provincia è quello di vendere per far costruire “housing sociale”. In realtà solo una piccolissima parte sarebbe dedicata a questo tipo di edilizia.

Con il termine housing sociale si intende l’insieme di iniziative volte ad ampliare l’offerta di abitazioni in affitto (e in parte anche in vendita) per medio-lungo periodo, a canoni adeguati alla capacità economica di famiglie che non sono in grado di accedere alla locazione nel libero mercato.

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Forse i politici della Provincia, di vari schieramenti, non sanno che tutte le nuove case costruite a Milano sono invendute e molte non sono state finite. Forse non si sono resi conto della profondità e gravità della crisi. E l’edilizia, dagli Stati Uniti alla Spagna, è il comparto più toccato: causa ed effetto delle bolle speculative.

Il procedimento è a metà percorso: deve ancora passare al Consiglio Provinciale, a quello Comunale e a quello Regionale.

Quindi il mio è un appello a darsi da fare. Si può firmare l’appello su internet, oppure firmarlo di persona all’ex Paolo Pini in via Ippocrate a Milano, fermata Affori della metropolitana 3 e della linea ferroviaria delle Nord.

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Sono state raccolte più di 2500 firme, ma ne servono molte di più.

Prossimamente ci saranno nuove iniziative e appuntamenti: potete seguirli su
http://www.ilgiardinodegliaromi.org

Non fate come nella canzone di Della Mea: non vendetevi anche l’intelligenza. È vero che il mondo è bello e tutto ha un prezzo, anche il cervello; ma la libertà è un fatto e, soprattutto, una pratica.

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