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La base della sinistra è fatta di deficienti?

'E'' cosa più complicata di un rapporto lineare per cui una base mal rappresentata, dopo un po’, sfiducia il gruppo dirigente. Giocano molte mediazioni [Aldo Giannuli]'

La base della sinistra è fatta di deficienti?
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26 Dicembre 2013 - 16.00


ATF

di Aldo Giannuli.

So che questo articolo farà imbestialire
molti per il titolo, ma se avrete la pazienza di leggere anche il
resto, forse vi arrabbierete anche di più. O forse no. Vediamo…

Uno
degli interventori di questo blog, commentando una mia affermazione per
cui il Pd è un partito con un gruppo dirigente di destra ed una base
(militante ed elettorale) prevalentemente di sinistra, ha scritto che,
stante questa premessa, occorre concludere che “l’elettorato  del Pd è
in larga parte composto di deficienti”. Deduzione
impeccabile…apparentemente, in realtà sbagliata perché troppo
superficiale.

Le cose sono molto più complicate di un
rapporto lineare per il quale una base, che non si vede rappresentata
nelle sue istanze più importanti, dopo un po’, sfiducia il gruppo
dirigente. Sarebbe troppo bello se le cose fossero così semplici. In
realtà, nel rapporto di rappresentanza, giocano molte mediazioni ed
elementi di “disturbo”.

Ovviamente non è affatto escluso che ci
sia una porzione di deficienti che giochino un ruolo di supporto alle
burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che
deficienti sarebbero?). E questo vale per tutti, anche per la sinistra:
non fu Sciascia, sin dal 1963, a decretare la “nascita del cretino di
sinistra”? Ma non è questo l’elemento decisivo: si tratta di una
porzione decisamente minoritaria e non determinante.

Ben più decisiva è la porzione di
persone direttamente legata da rapporti di interesse con il gruppo
dirigente: funzionari, consulenti, personale amministrativo, cui si
aggiungono i membri di corporazioni garantite e comitati d’affari vari. A
sinistra questa coda clientelare e burocratica è particolarmente fitta e
ben collegata (si pensi agli apparati di partito, al personale politico
degli enti locali, alle cooperative, alle corporazioni di accademici,
sindacalisti, magistrati, notai, architetti ecc.).

Non è affatto detto che questo gruppo di
persone condivida o meno gli indirizzi politici del gruppo dirigente
che sostiene: nella maggior parte dei casi vi è indifferente, ma anche
nel caso dissenta dagli indirizzi generali del gruppo dirigente –a
prescindere se considerati troppo di destra o troppo di sinistra-
continuerà a votarlo, per il prevalere degli interessi particolaristici o
anche solo personali.

Naturalmente, questa politica di
distribuzione selettiva delle risorse, per definizione, deve riguardare
minoranze abbastanza ristrette, quindi questa parte della base non è
numerosissima e, presumibilmente, non supererà mai una quota del 4-5%
degli iscritti al partito e molto meno degli elettori, quindi, in sé,
non si tratta di un gruppo decisivo. Ma occorre tener presente che
queste persone hanno parenti, amici, clienti, dipendenti, che sono
spesso interessati indirettamente al mantenimento di quegli stessi
assetti di potere: se un architetto vive della committenza degli enti
locali in cui ha amici politici, è interessato alla loro permanenza alla
guida dell’ente locale e del partito, ma altrettanto interessati al
permanere di quegli equilibri saranno i suoi familiari, la segretaria ed
anche il giovane precario del suo studio che vivono di quello
stipendio, pur magro.

Così come a votare per lo stesso
assessore saranno i clientes che hanno ricevuto qualche favore, anche
piccolo. Sicuramente non tutte queste persone voteranno conformemente ai
loro interessi particolaristici, ma una parte -più o meno ampia- si. E
questo determina un effetto moltiplicatore, per cui quel 3-4%, diventerà
facilmente il 15-20% dei voti congressuali ed una percentuale più
bassa, ma non trascurabile, dell’elettorato.

Ma veniamo alla parte maggiore della
base. Qui il discorso si differenzia fra base di partito e base
elettorale. Nella base di partito un effetto decisivo lo giocherà
l’apparato dei funzionari strutturati in una precisa catena di comando
che  va dal centro alla periferia e che è il modello organizzativo base
della sinistra. Oggi l’apparato è decisamente più debole rispetto a
quello che era nel Pci, ma mantiene un peso considerevole e si integra
con la nuova figura del “consulenti”. Il funzionario è un lavoratore
dipendente privilegiato da un certo punto di vista (elasticità di orari
di lavoro, accesso ad ambienti decisionali, spesso migliore retribuzione
ecc.), ma ha un forte handicap: è licenziabile ad nutum, per cui deve
assicurarsi un solido ancoraggio nei livelli superiori
dell’organizzazione, attraverso un rapporto di dipendenza politica dal
gruppo dirigente nel suo complesso o di una sua particolare frazione. A
sua volta, però, il funzionario, ha un discreto potere di distribuzione
di riconoscimenti selettivi verso chi gli è sottoposto: può influenzare
la scelta dei membri di direttivo regionale o provinciale, dei segretari
di sezione, dei membri di commissione o di particolari incarichi di
partito o degli enti locali, la formazione delle liste quanto meno per
le elezioni amministrative ecc. E questo, ovviamente, sfocia nella
costruzione di un seguito organizzato che seguirà le sue indicazioni di
voto congressuale. E così si determina una catena di consenso che
prescinde totalmente dall’adesione ad una determinata linea politica: il
segretario della sezione “Gramsci” è un vecchio militante del Pci,
totalmente estraneo alla cultura liberista del gruppo dirigente e che
non ama affatto Renzi, ma è stabilmente collegato al gruppo che nella
federazione provinciale fa riferimento al signor Bianchi, ex
sindacalista Cgil, a sua volta collegato al gruppo regionale dell’on.
Neri, che deve la sua candidatura al membro della direzione Rossi che, a
sua volta, ha scelto di stare con Renzi. Quel segretario di sezione,
dunque, voterà Renzi e, siccome ha un nutrito gruppo di amici ed
estimatori, molti di essi, pur pensando cose totalmente diverse, voterà
seguendo le indicazioni del segretario del circolo.

Come si vede ci sono una serie di
passaggi che prescindono totalmente dalla condivisione o meno della
linea politica. A questo meccanismo (particolarmente radicato nei
partiti di sinistra nei quali da sempre l’apparato è la spina dorsale)
si sommano meccanismi di natura diversa che hanno anche più peso
nell’area degli elettori non iscritti al partito.

In primo luogo, al pari di quanto accade
nei mercati finanziari, giocano un ruolo molto importante le
“asimmetrie informative”, per cui l’ “offerta”, cioè il gruppo che
chiede la delega, possiede una quantità ed un livello di informazioni
decisamente superiore a quello della “domanda”, cioè la base alla quale
non resta che stare sulla parola di chi gli chiede fiducia. Come si sa,
chi vende sa ciò che vende, ma chi acquista non sa quel che compra.

Questa asimmetria informativa di base,
poi va stratificandosi, creando una vera e propria “gerarchia
informativa”:  all’interno del gruppo, corrente o partito, il capo
cordata avrà il massimo di informazioni, i suoi immediati subordinati
conosceranno gran parte di esse ma non tutte, a loro volta i subordinati
di medio livello avranno a disposizione una massa inferiore di
informazioni che trasmetteranno solo in parte ai loro sostenitori e così
via, in un crescendo di opacità che raggiungerà il suo massimo al
livelli di base. Se il capo corrente ha stabilito un’ intesa coperta con
altro capo corrente, probabilmente lo dirà solo ai collaboratori più
stretti ed ai supporter più fidati, gli altri forse ne sapranno qualcosa
o la intuiranno e forse qualcosa trapelerà a livello medio alto, ma al
di sotto di esso nessuno ne saprà o immaginerà nulla. Dunque, primo
problema: la base compie le sue scelte in condizioni di ignoranza più o
meno parziale, per cui la scelta basata sulla fiducia personale spesso
sopperirà ad una scelta consapevole.

Ma, qualcuno osserverà, questo può
essere giusto per il futuro, ma come giustificare il persistere di un
rapporto fiduciario anche “dopo”, quando l’azione politica (di governo o
di opposizione, poco importa) del gruppo dirigente si è dispiegata ed
ha dato i suoi frutti magari divergenti dalle aspettative? Perché la
base non giudica il gruppo dirigente sulla base dei risultati
effettivamente conseguiti? Anche qui c’è una quota di asimmetria
informativa, che contribuisce a spiegare il fenomeno: non tutti i
militanti di un partito seguono la vita politica con l’attenzione
necessaria o, semplicemente, hanno il tempo di documentarsi
adeguatamente; e fra gli elettori non iscritti, presumibilmente, il
tasso medio di interesse per la vita politica è ancora più basso.

Peraltro, giudicare le decisioni, ad
esempio, di politica economica, presuppone un minimo di strumenti
culturali che spesso non sono disponibili. L’uomo della strada
percepisce che l’economia non va, che occupazione e consumi calano e che
la pressione fiscale è poco sopportabile, ma di fronte a spiegazioni
del tipo “E’ l’eredità dei governi precedenti”, “E’ l’effetto cella
crisi mondiale che sarebbero ancora peggiori se il governo non avesse
fatto questo o quello”, “E’ quello che si può fare entro i vincoli dei
trattati internazionali”, “E’ colpa della Germania” oppure “Gli altri
avrebbero fatto di peggio”, non ha gli strumenti per orientarsi. E,
nella maggior parte dei casi, o si fiderà di quello che legge nel
giornale che prende abitualmente o si rivolgerà al suo opinion leader di
riferimento (un amico insegnante o professionista o giornalista ecc.)
che spesso sarà un militante o simpatizzante di partito. Oppure farà
leva sul “pre-giudizio ideologico” che lo dispone a favore di uno
schieramento piuttosto che di un altro, a prescindere da qualsiasi
analisi di merito.

Ed in questo influiranno anche una serie
di riflessi psicologici da non sottovalutare: confondere i desideri con
la realtà, scacciare le notizie sgradite, cercare di giustificare
sempre la parte politica per cui si tiene, il desiderio di non smentirsi
e di “tenere il punto” della propria appartenenza politica, la
resistenza ad accettare i mutamenti storici in corso e la conseguente
tendenza, in particolare nei più anziani, a leggere quel che accade con
le lenti del passato.

Questi meccanismi sono più forti a
sinistra, dove, pur essendoci un più alto tasso di politicizzazione, c’è
una maggiore propensione ad affidarsi al “partito-apparato”, dove il
radicamento ideologico è maggiore e con una più spiccata propensione
acritica, dove il “patriottismo di partito” ha ragioni antiche e spesso
sfocia in una deplorevole assenza di laicità. E non si dimentichi che la
densità di anziani a sinistra è particolarmente alta (come giustamente
ricordava qualcuno: una grossa fetta degli elettori del Pd sono i
pensionati). I giovani si astengono o votano il M5s, pochi la destra, ma
solo pochissimi Pd. E questo ha il suo peso.

Ma, soprattutto incide un fattore
particolare: l’assenza di alternativa prodotta dallo stesso ceto
politico al “potere”. Quando chiedi ad un militante di sinistra perché
vota per una certa corrente o perché non reclama le dimissioni immediate
di un segretario sconfitto alle elezioni ecc. novanta volte su cento la
risposta è: “E chi ci metti al suo posto?”. Ed è vero, perché non c’è
un’ offerta alternativa. Ma non c’è perché il ceto politico al potere ha
accuratamente fatto in modo che non ci sia. Ed un gruppo dirigente
alternativo non cade dalle nuvole come un dono del Cielo.

All’interno dei partiti è la totale
assenza di democrazia interna ad impedire qualsiasi ricambio. Beninteso,
non mancano le liturgie congressuali o le primarie, ma alla linea di
partenza arrivano solo già quanti sono dentro la casta e la scelta è
sempre fra diverse frazioni della stessa burocrazia. Per affermarsi un
nuovo gruppo dirigente ci sarebbe bisogno di una dialettica aperta per
tutto il periodo che va da una consultazione all’altra, tenendo conto
tanto della difficoltà dell’affermarsi di una nuova cultura politica in
presenza del naturale conservatorismo delle organizzazioni. C’è una
viscosità interna che penalizza le novità e punisce le innovazioni, per
cui, per affrontare le sfide interne, al gruppo dirigente in carica
basterà monopolizzare l’immagine esterna del partito ed escludere dalla
sua discussione interna ogni “terzo incomodo” che cerchi di inserirsi.
Anche quando si conceda qualche avarissimo spazio marginale (le lettere
al direttore del giornale di partito o qualche raro post nel blog
vigilato dalla direzione), questo non avrà alcun effetto.

Quando si arriverà al congresso o alle
primarie, i giochi saranno già fatti: il regolamento provvederà a
rendere quasi impossibile ai nuovi arrivati anche solo di presentare una
loro mozione e loro candidati; se anche qualcosa dovesse accadere, i
dirigenti uscenti potranno usare le risorse economiche del partito per
le loro manifestazioni, spostamenti, inserzioni pubblicitarie, manifesti
ecc. mentre i nuovi dovranno fare tutto da soli. Poi ad indirizzare i
consensi provvederanno i funzionari sul territorio e la stampa nazionale
che, ovviamente, darà spazio solo a  quelli che già sono i principali
esponenti di partito. Qualche nuovo candidato al massimo sarà preso in
considerazione come una curiosa e divertente anomalia. E, sempre che il
conteggio dei voti sia corretto (del che…) i consensi si suddivideranno
più o meno nella misura dei rapporti di forza preesistenti fra le
diverse frazioni burocratiche.

Questo poi si rifletterà anche nelle
elezioni politiche, dove l’elettore si troverà sempre a scegliere  fra
le solite offerte politiche. A scoraggiare la formazione di nuove liste
influirà anche la legge elettorale maggioritaria che, con il richiamo al
voto utile e le soglie di sbarramento, mette fuori gioco eventuali
nuovi arrivati.

Per dimostrare come tutto questo sia
ancor più vero nel caso delle organizzazioni di sinistra, nel prossimo
articolo mi occuperò di un caso da manuale di “paralisi del gruppo
dirigente” ed impossibilità del ricambio: Rifondazione Comunista.

 
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