Mancano circa tre settimane al prossimo grande appuntamento elettorale in Occidente. L’8 giugno 2017 sapremo chi governerà la Gran Bretagna da qui al 2022. Theresa May ha annunciato a sorpresa le elezioni anticipate confidando su un percorso in discesa. Plausibile, visti i sondaggi, soprattutto quelli iniziali. Ma. C’è un grande “ma”. E non riguarda tanto la scarsa affidabilità dei sondaggi, che abbiamo appurato nei precedenti appuntamenti elettorali.
Ora, diversamente dalle elezioni statunitensi e francesi, dove le forze genuinamente antisistema sono state tagliate fuori, il caso britannico ci presenta un’anomalia: l’evenienza di un elettorato fortunato, che può a tutti gli effetti scegliere fra un governo dichiaratamente conservatore, pro-austerity e guerrafondaio e un governo di chiaro intento progressista, di matrice storica socialista e senza velleità centriste o accomodanti rispetto all’ordine costituito. Al netto di tutto si può dire che il positivo di queste elezioni è che non ci sono ipocrisie. L’elettore saprà con precisione chi e soprattutto le politiche che andrà a scegliere. Ma si sa che soprattutto nei grandi appuntamenti elettorali, accanto ai votanti, si muovono nel sottobosco altri attori – più o meno in vista, più o meno invisibili – capaci di formare, indirizzare, manipolare il consenso dei suddetti elettori.
Quel che ci pare di capire da una serie di segnali è che si sta aprendo la strada ad una possibilità diversa rispetto alla vittoria facile di Miss May. Ovvero, non possiamo escludere che pezzi dell’establishment politico-mediatico – nonché i vari cenacoli più o meno segreti a tutti i livelli – non solo stiano cominciando a fare i conti con l’ipotesi di una vittoria del Labour di Jeremy Corbyn, ma addirittura potrebbero preferire questa ipotesi rispetto a un nuovo governo della riottosa e testarda Theresa May: una che non prende gli ordini, una che non intende scendere a patti con l’UE. La Commissione Europea di Jean-Claude Juncker non ha mai fatto mistero della propria avversione alla Prima Ministra britannica, fino a raddoppiare il conto del divorzio Brexit.
Non che Jeremy Corbyn sia meno caparbio a suo modo, nella sua coerenza di attivista. E i progressisti più veraci non si facciano illusioni: non è neanche che le élites ruotanti attorno a Troika e NATO si siano convertite improvvisamente al corbynismo sulla via di Damasco.
Per capire in anticipo le loro intenzioni bisogna pensare in termini di convenienza politica. Ed in questo senso un governo Corbyn potrebbe risultare preferibile per un motivo molto semplice: per il principio del falso pluralismo (lo stesso per cui Corbyn è diventato inavvertitamente leader del Partito, contro ogni pianificazione), in caso di vittoria, al neo governo Corbyn potrebbe essere data l’illusione di “poter lavorare”, magari con qualche concessione di spazi in ambito di politiche domestiche. Tuttavia alla prima occasione opportuna le élites al potere mondiale potrebbero attivare le risorse che già hanno in campo nonché accenderne di nuove. Fra le prime troviamo un nutrito gruppo di deputati laburisti: elementi tossici legati a doppio filo al New Labour di Tony Blair e che gli anticorpi della nuova leadership non hanno ancora avuto il tempo materiale di espellere.
Bisogna tener presente che uno dei motivi di chiamata anticipata alle urne da parte di May, sondaggi a parte, è chiaramente non dare il tempo ai laburisti di deselezionare i propri deputati rimpiazzandoli con altri più in linea con il leader, operazione che si sarebbe svolta legittimamente entro il 2020. In soldoni: uno sparuto ma potentissimo gruppo di deputati New Labour, dotato di forti agganci nel complesso finanziario-militar- industriale, tiene per i testicoli – mi scuso con l’espressione poco elegante ma efficace – sia la leadership che migliaia di nuovi tesserati che con la leadership sono in linea (mille nuovi tesseramenti solo nella prima settimana dall’annuncio delle elezioni).
In seguito, naturalmente, potrebbero ricorrere sempre ai noti vecchi metodi: cooptazione di altri deputati, ritorsioni, etc. il tutto ovviamente mirato alla deviazione delle politiche del governo dal loro intento originale, se non alla esplicita rimozione del neo primo ministro, una volta convinti tutti rispetto a una sua inadempienza agli obblighi nazionali e soprattutto internazionali. Per poi ovviamente rimpiazzarlo con un proprio tecnocrate obbediente, che porti avanti una Brexit – o non la porti avanti affatto – come vogliono loro, che faccia le guerre previste, etc. Magari un rassicurante Hillary Benn o una figura analoga (al momento non dispongono di una ‘persona pubblica’ giovanilistica sull’onda incipriata di Macron da tirare fuori dal cilindro).
Fantapolitica? Può darsi. Ci rileggiamo fra tre settimane. Tuttavia si tratta di dinamiche che, in tutto o in parte, abbiamo già visto. Vien quasi naturale comparare il Labour di Corbyn a Syriza e Tsipras. Entrambi di forte impronta socialista, entrambi con la determinazione di aggirare i gangli del sistema. Abbiamo visto come alla Grecia e ai greci abbiano tagliato le gambe.
Eppure qualcuno potrebbe fare male i conti stavolta. Tutto sommato l’attempato Corbyn non è il giovane entusiasta Tsipras, ha alle spalle una militanza lunga più di trent’anni. Si è trovato spesso nella condizione di essere attaccato per difendere una posizione impopolare e per poi ritrovarsi in seguito “dalla parte giusta della storia” (Apartheid, Guerra in Iraq, Siria, etc): su questo ha costruito un costante e solido consenso. Si è abituato ad avere a che fare con le insidie prima di tutto interne al proprio partito, prima ancora che dall’esterno.
E poi il Partito Laburista Britannico non è un movimento antisistema nato su due piedi in pochi anni: bisogna considerare che per una vasta proporzione di elettorato britannico non è Corbyn a voler rimbalzare il paese in moto nostalgico-retrogrado tradendo le sfide del mondo contemporaneo – come la propaganda mediatica fa passare da quando è stato eletto leader- ma è piuttosto il contrario: è la parentesi New Labour di Blair ad aver costituito un tradimento delle radici socialiste del Partito.
I disillusi e frustrati dell’era Blair-Milliband hanno le tasche piene dell’austerity e della politica estera guerrafondaia dei primi ministri degli ultimi 15/20 anni; sono più propensi ad una rimessa in gioco in chiave moderna di quelle radici, che più socialiste sono umanitarie, se non “common sense”, senso comune.
A onor del vero, pochi giorni fa è stato un altro eminente esponente labour, l’ex primo Ministro Gordon Brown – non esattamente un corbynista – a rimarcare come un altro governo tory porterebbe il paese a livelli di povertà più alti rispetto a quelli esperiti durante l’epoca Thatcher. Quindi chi sarebbero quelli che in realtà riporterebbero il paese indietro agli anni ’80?
Ma il segnale forse più importante non è neanche questo e nemmeno il gap sempre più corto fra i due maggiori partiti nei sondaggi.
Nemmeno la conversione della stampa finto-progressista incarnata dal The Guardian, che negli ultimi due mesi ha cambiato completamente rotta arrivando a definire il programma/manifesto di Corbyn “la cornucopia delle delizie”.
Nemmeno i sondaggi in crescita, che danno le politiche del manifesto laburista in forte consenso nonostante l’incognita legata alla personalità Corbyn, che piace un po’ meno (lì Theresa May potrebbe ancora giocarsela, i suoi slogan, per quanto vuoti, fanno ancora presa).
Nemmeno l’impressionante differenza fra le folle che circondano Corbyn nelle piazze e i comizi blindati di Miss May, che in taluni casi ha negato l’accesso a dei giornalisti (e poi si parla di dittature in altri paesi.).
Il messaggio più forte, di certo non scontato, è stata l’esposizione finalmente chiara di Corbyn in fatto di politica estera: Corbyn ha dichiarato in sostanza di non essere un pacifista tout-court ma di ricorrere alle armi solo come ‘ultima spiaggia’. Ed ha dichiarato di non voler più eliminare il progetto nucleare Trident, ma semplicemente – che non è peraltro una novità – di non voler premere il bottone nucleare.
E’ bastato questo. Praticamente ha dato l’osso ai cani da guardia del complesso militar-industriale, che se fino a ieri abbaiavano con la bava alla bocca ora possono finalmente rimettersi a cuccia e scodinzolare sereni. Va ricordato che per i membri di quel complesso non è tanto necessario muovere effettivamente guerre, quanto mantenere in piedi un clima per cui l’industria militare si regga in piedi e continui a fare i suoi profitti.
Non c’è che dire, dal punto di vista tattico-strategico si tratta di una mossa eccellente da parte di Jeremy Corbyn. D’altra parte sul Trident non potrebbe fare nulla neanche volendo, perché è già stato pianificato e votato due volte dai governi Cameron e May. E una volta al potere potrebbe comunque far entrare di soppiatto quelle politiche di riconversione di cui parla sin dalle primissime interviste, nonostante i mass media mainstream non le abbiano mai riprese.
In ogni caso nei circuiti di cui sopra ciò che conta sono i messaggi che si lanciano. D’ora in poi nessuno potrà dargli del vecchio idealista senza piedi per terra e potrebbe persino lasciargli gustare l’idea di diventare Primo Ministro. L’establishment, con l’osso in bocca, non lo teme più come prima.
Quel che succederà dopo sarà un’altra storia. Dove se la vedranno i cani da guardia del complesso militar-industriale e i guardiani del diritto e della democrazia.