di Carlo Formenti
Dopo Trump, dopo la Brexit, dopo il referendum sulla Costituzione italiana del dicembre 2016, erano arrivate la vittoria di Macron nelle elezioni presidenziali francesi e il recente, travagliato rilancio della Grande Coalizione CDU-SPD in Germania, alimentando nell’establishment liberal democratico l’illusione che la marea populista fosse sul punto di rifluire. Invece no. Il risultato delle elezioni politiche italiane di pochi giorni fa testimonia che l’onda prosegue il suo cammino e rischia di travolgere la diga eretta da partiti tradizionali, media e istituzioni nazionali ed europee.
M5S e Lega triplicano le rispettive rappresentanze parlamentari e i loro voti sommati superano il 50%, certificando che metà dei cittadini italiani sono euroscettici e non credono più alle narrazioni sulla fine della crisi e sui presunti benefici della globalizzazione. Partirò da alcuni commenti giornalistici sullo tsunami populista per affrontare quattro interrogativi: 1) quali sono le radici sociali del populismo, 2) quali sono le differenze fra le sue due anime principali; 3) perché le sinistre (tanto le socialdemocratiche quanto le radicali) stanno affondando nell’insignificanza politica; 4) perché, malgrado tutto, l’establishment è ancora in grado resistere e quali scenari si apriranno se e quando la diga crollerà davvero.
Dario Di Vico (“Corriere della Sera” del 5 marzo) spiega il trionfo della Lega nelle regioni del Nord scrivendo che i voti dei ceti medi produttivi e quelli delle periferie del rancore si sono potuti sommare grazie a un’agenda politica chiara quanto facile da comunicare: meno tasse e più controllo dell’immigrazione. A sua volta Enzo d’Errico (“Corriere del Mezzogiorno” del 6 marzo) attribuisce la valanga dei voti pentastellati al Sud a un’altra convergenza: quella fra le masse meridionali martoriate da disoccupazione e miseria e ceti medi a loro volta impoveriti dalla crisi, le une e gli altri sedotti dalla promessa grillina di istituire un reddito di cittadinanza. Al secondo interrogativo non ho viceversa letto riposte significative, probabilmente perché – dopo la “normalizzazione” del movimento creato da Grillo e l’accentuazione del rifiuto di definirsi di destra o di sinistra – le differenze fra M5S e Lega appaiono meno radicali di quelle che oppongono populismi di destra e di sinistra in altri Paesi (vedi Podemos e Ciudadanos in Spagna, o Marine Le Pen e Mélenchon in Francia).
Sul punto tre abbondano viceversa le diagnosi: Massimo Franco (“Corriere della Sera” del 5 marzo) parla di un potere che non è stato in grado di vedere quanto stava accadendo; Luciano Violante, intervistato sullo stesso numero, dice che la sinistra viene punita “perché c’è stato uno scivolamento verso il politicamente corretto, abbandonando l’etica dell’uguaglianza”; Onofrio Romano, intervistato dal “Corriere del Mezzogiorno” (6 marzo), punta il dito contro l’illusione dei fan nostrani della Terza Via di contemperare mercato e diritti sociali e di costruire un europeismo “buono e sociale”. Per quanto riguarda il quarto punto, l’attenzione si concentra su quali espedienti tecnico-politici potranno essere messi in atto per impedire a chi ha vinto di governare: alchimie parlamentari e presidenziali, condizionamenti finanziari e istituzionali da parte di mercati e organismi internazionali, soprattutto per scongiurare un patto fra M5S e Lega che, commenta Franco, “terrorizzerebbe l’Europa”.
Proviamo a scavare più a fondo. Le diagnosi di Di Vico e d’Errico sono sostanzialmente corrette, anche se richiederebbero analisi più approfondite sulla composizione di classe del nostro Paese e delle sue macroregioni. Il fallimento delle campagne propagandistiche che, da noi come in tutto il mondo, hanno tentato di rintuzzare l’ondata populista nasce dal reale, drammatico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di milioni e milioni di cittadini colpiti dalla crisi e dagli effetti di una globalizzazione che diventa sempre più difficile spacciare come un’opportunità per tutti. Chi paga il fio di disoccupazione, precarizzazione, degrado delle periferie slum dove si ammassano bianchi poveri e immigrati chiede protezione. Protezione economica e sociale dai fallimenti del mercato e messa in sicurezza del territorio. E protezione è proprio ciò che offrono i programmi populisti. Ed è qui che è possibile distinguere fra populismi di destra e di sinistra: entrambi utilizzano la retorica dello scontro fra popolo (buono) ed élite (cattive), entrambi vogliono difendere la nazione dalle ingerenze esterne (per cui condividono l’euroscetticismo), entrambi hanno leadership carismatiche, e tuttavia, mentre i primi offrono protezione dall’ondata migratoria e dai suoi effetti, nonché dall’invadenza statale (tasse, burocrazia, sprechi, ecc.), i secondi si propongono di contrastare la mobilità di capitali e merci più che quella dei flussi migratori, auspicano un ruolo attivo dello stato in economia e ripropongono la lotta di classe, ancorché trasfigurata in opposizione alto/basso (una differenza analoga– sia pure indebolita a causa della perdita di radicalità del M5S – esiste anche fra Lega e grillini).
Torniamo ora agli ultimi due interrogativi. Tutte le diagnosi sulle cause del crollo delle sinistre citate in precedenza hanno un difetto di fondo: sostengono che le sinistre non sanno più intercettare i bisogni reali della gente perché hanno perso la capacità di analizzare la realtà sociale, ma la verità è che la sinistra non rappresenta più il popolo perché – come scrive Luca Ricolfi in “Sinistra e popolo” (Longanesi) – questo non è più il suo popolo. È dagli anni Ottanta (ma si potrebbe risalire più in là), a partire cioè dalla conversione alla fede nel mercato, che il suo blocco sociale di riferimento è cambiato, slittando progressivamente dalle classi subalterne agli strati medi colti e benestanti (classi creative, professionisti, quadri intermedi, quadri superiori dell’amministrazione, lavoratori dipendenti qualificati e garantiti, ecc.). La connotazione di sinistra, a suo tempo associata alla difesa dei più deboli, è oggi affidata esclusivamente all’ideologia del politicamente corretto: diritti delle comunità LGBT, matrimoni gay, quote rosa, tutela delle minoranze, tolleranza per ogni differenza, apertura ai flussi migratori (i migranti sono ormai gli unici soggetti deboli di cui si occupino).
I germi della mutazione erano del resto già presenti nella comune opposizione di liberali di sinistra (i liberal anglosassoni) e socialdemocratici alla destra conservatrice. La destra liberal liberista, infatti, non è mai stata conservatrice nel senso classico (vedi le “rivoluzioni” di Reagan e Tatcher) e quando i socialisti alla Blair e alla Clinton si sono convertiti al credo liberista, la convergenza è stata rapida; una convergenza che oggi si rinsalda nella nuova opposizione polare che sta sostituendo quella destra/sinistra vale a dire l’opposizione apertura/chiusura. Socialisti e liberali sono entrambi per l’incondizionata libertà di circolazione di capitali, merci e persone; condividono una visione cosmopolita da “cittadini del mondo” che esalta il superamento dei confini nazionali come un immenso progresso; infine sono accomunati dal disprezzo per i rozzi bisogni di un popolo che si oppone ai “benefici” della globalizzazione. È per questo che lottano ovunque uniti per fermare la marea populista. È per questo che qui in Italia speravano in un voto che creasse le condizioni per una santa alleanza fra Renzi e Berlusconi. È per questo che faranno di tutto per impedire che i populisti riescano a governare.
All’ultimo interrogativo (cosa succederà se e quando non potranno più impedirlo) non si può rispondere univocamente: se fossimo in Spagna o in Francia potremmo dire che dipende da quale delle due anime populiste avrà l’egemonia, ma in Italia l’evoluzione moderata del M5S non alimenta illusioni: ammesso e non concesso che il movimento riesca a dribblare tutti gli ostacoli che si frappongono alla sua andata al governo, non appena i mercati e l’Europa detteranno le condizioni per lasciarveli, assisteremo a una calata di braghe ancora più veloce di quella di Tsipras. Si apriranno allora spazi inediti per vere alternative antisistema? Temo di no, visto che le ultime elezioni non hanno certificato solo il fallimento del PD, ma anche quello delle “sinistre sinistre”.
Non stupisce quello di Leu, che gli elettori hanno giustamente riconosciuto come una costola della casa madre, dalla quale si è diviso a seguito di guerre intestine per il potere, ma con la quale condivide la centralità del politicamente corretto quale unico attestato di un’identità “di sinistra”. Ma non stupisce nemmeno il misero 1% raccolto da Potere al Popolo. Per fare di meglio, si sarebbe dovuto costruire per tempo un progetto politico sul modello di quelli di Podemos e Mélenchon. Qualcosa del genere – ancorché a livello embrionale – sembrava poter sortire dalla piattaforma Eurostop che, in ogni caso, non avrebbe potuto – né dovuto! – affrontare un’avventura elettorale, bensì lavorare a progetti di medio-lungo termine. Invece ha deciso di convergere nell’ennesima federazione elettorale di cespugli vetero-comunisti, “annacquando” la chiarezza dell’opposizione all’euro e alla Ue in un discorso “internazionalista” che inorridisce di fronte a ogni progetto che affermi la necessità di recuperare la sovranità nazionale quale condizione per la riconquista della sovranità popolare (e di rapporti di forza più avanzati per le classi subordinate). Un’impazienza che renderà ancora più lungo e difficile il cammino verso la costruzione di alternative politiche credibili (e non pateticamente minoritarie) al regime liberale.
(7 marzo 2018)
Link articolo: Populismo vs establishment, la diga è crollata
Immagine di copertina © Edoardo Baraldi