di Paolo Bartolini
L’attività sismica, nel mondo della politica italiana, sta raggiungendo picchi impressionanti in queste ultime settimane. Un po’ tutti sono preoccupati, ma per motivi molto diversi. Concordano comunque sul fatto che il nostro Paese è sull’orlo di una crisi democratica senza precedenti. Le ultime azioni messe in campo dal Presidente della Repubblica hanno spianato la strada a un’accelerazione drammatica degli eventi.
Il momento è scivoloso e delicatissimo, perché la credibilità delle istituzioni sta toccando il punto più basso da anni a questa parte, mentre i sussulti popolari non riescono ancora a prendere una forma “sostenibile”. C’è chi invoca la rottura e chi, al contrario, si erge a paladino dell’odierna architettura europea, da amare così com’è, come un destino.
La cecità delle élite nostrane, che per decenni hanno svenduto sovranità e diritti in nome di un’appartenenza acritica a questa Unione Europea dominata dalla diarchia Germania-Francia, pare andare di pari passo con reazioni scomposte e ambigue. Il fronte gialloverde, che tiene insieme Lega e Movimento 5 Stelle, è stato frenato dall’intervento a gamba tesa di Mattarella. Il vulnus democratico sarà ora difficile da rimarginare, e temo che di ferite ne accuseremo fin troppe quando torneremo ad elezioni (sempre che non vengano abolite per decreto regio).
L’equivocità e l’inesperienza del M5S, di fronte alla furbizia lupesca di un Salvini cresciuto sui banchi del Parlamento e nelle sezioni di partito, è saltata agli occhi di chiunque consideri la politica un’attività equidistante dalla vile accettazione dell’esistente e dall’urlo inarticolato. Altrettanto lampante è la condizione di pre-morte di un Partito Democratico che, ostentando una pelosa responsabilità istituzionale, non riesce a riconoscersi come esempio chiarissimo di calamità naturale. Costoro pensano di incarnare l’ultimo baluardo capace di difenderci dalla barbarie, e invece sono tra i primi responsabili di questa fase lib-pop (come l’ha chiamata giustamente Mario Pianta) della politica italiana.
Berlusconi, nel frattempo, si atteggia a uomo di fiducia, miliardario moderato che avrebbe a cuore le sorti dei nullatenenti e dei ceti medi impoveriti. Altre schegge destroidi dedicano le loro giornate a studiare il brand Lega e la natura del suo crescente successo. Un successo che, se praticassimo ancora la virtù dell’onestà, ci dovrebbe sembrare folle e nulla più.
Il partito verdastro viene da decenni di comunella con il centro-destra e si è ancora presentato con l’ex cavaliere alle ultime elezioni. Mentre si grida al superamento della dicotomia destra/sinistra, in nome della new thing Popolo vs Elite, si dimentica l’opportunismo politico di Salvini, il cambio di pelle dal mito secessionista al nazionalismo coatto di questi ultimi anni, e si ha persino il coraggio di considerare “nuova” una componente politica che ha puntualmente votato le peggiori politiche antipopolari delle scorse legislature.
A sinistra, dove minuscoli vagiti dicono di qualche forza giovane che muove i primi passi, è comunque difficile trovare realtà capaci di mettere in discussione il capitalismo con un linguaggio comprensibile per le nuove generazioni. Come non rimanere immobili mentre le acque fangose del fiume avanzano e già si sente in lontananza il boato del prossimo terremoto politico (parlo delle future elezioni e del rischio enorme di trovarci una Lega intorno al 30/35%)?
La prima cosa da fare, in queste ore convulse, è imparare a diffidare delle semplificazioni e degli slogan facili – quelli che in campagna elettorale assordano il cittadino benevolo e non, diffondendo senso di separazione, lotta tra poveri, spinta verso sintesi precarie che ci vorrebbero precipitare in forme di convivenza sociale individualiste e comunitariste insieme.
La seconda è difendere il diritto dei popoli di autodeterminarsi senza cadere nel culto del “popolo” in quanto tale. Quale popolo? Ce ne sono molti, e non tutte le sovranità costruite per acclamazione popolare rappresentano un bene. La storia dovrebbe insegnare qualcosa.
La terza è chiederci con chi e come vogliamo restare in Europa od uscirne. In altre parole, dobbiamo iniziare a pensare a una sovranità che non può essere rinchiusa dentro i confini nazionali (i cambiamenti climatici e i flussi migratori, ad esempio, non sono fenomeni che travalicano potentemente le logiche di frontiera?), perché senza costruire ponti e raccordi tra forze sociali di diversi paesi diventa inutile, e velleitario, credere di potersi sottrarre ai centri di potere finanziari, alla tecnocrazia insediata a Bruxelles e agli artigli delle nazioni più forti che desiderano destabilizzare il quadro geopolitico attuale (per riconfigurarlo a loro piacere).
In assenza di un orizzonte volto a trascendere, gradualmente e nei molteplici contesti, le logiche mercantili e burocratiche del tecnocapitalismo, rischiamo di affidare la pancia delle persone a rappresentanti politici confusi e pericolosi, la testa ai mass media e ai partiti che hanno rovinato l’Italia dal 1994 a oggi in nome di un riformismo falso e timoroso, e il cuore alla disperazione di chi, non credendo a nulla e volendo tutto (e subito), si dispone a sacrificare il prossimo per salvarsi la pelle, accontentandosi di sopravvivere a spese degli ultimi della Terra.
Le ideologie che pensano di imporre con la violenza un orizzonte utopico particolare, sono nemiche dell’umanità tanto quanto le forme politiche che si arrabattano giorno per giorno per accaparrarsi il potere senza coltivare alcuna visione del mondo a parte quella, di cortissimo respiro, dell’utilitarismo. Prima, durante e dopo la ricerca di una sacrosanta sovranità (non solo monetaria) sarebbe il caso di guardarci allo specchio e di chiederci se davvero sappiamo dove siamo e cosa possiamo fare in questa fase storica, ma anche di domandarci quale idea di società ci guida nelle nostre più o meno rumorose rivendicazioni.