di Alessandro Gilioli
Ai vertici del Pd ultimamente si fa quasi a gara a negare qualsiasi possibile alleanza con il Movimento 5 Stelle e ci si scanna a chi è più antigrillino. Ieri, ad esempio, è circolata on line questa simpatica card – presumibilmente opera di renziani, anche se “unofficial”:
Zingaretti, peraltro, aveva appena detto in pubblico, anzi quasi gridato: «È evidente che non voglio allearmi con i 5 stelle!», il che rende il tutto un filo grottesco.
Poi Renzi in tivù è andato a rincarare la dose, «come si fa a fare un’alleanza con chi ha fatto la campagna contro di noi, con chi mette in discussione i vaccini» etc etc: si vede che è ancora lì a mangiare pop corn mentre Salvini sequestra i migranti nei porti e prepara la flat tax (stendiamo poi un velo di pietoso silenzio sul fatto che Renzi, en passant, ha attribuito la sconfitta del 4 marzo a Gentiloni).
Curiosamente tutto questo è avvenuto lo stesso giorno in cui il presidente della Camera Fico è stato accolto alla festa del Pd di Ravenna con abbracci e applausi, il che certo non è un’indicazione statistica sulla volontà della base del partito ma magari qualche dubbio potrebbe insinuarlo, a qualcuno.
Forse, vivendo nel mondo reale e lontano dalle tribù dei palazzi, i volontari degli stand ravennati hanno un’idea un po’ più pragmatica di come stanno le cose.
E sanno che, certo, la prima cosa sensata da fare nel loro disastrato partito non è discutere di alleanze ma di chi si è e che cosa si propone. Senza tante pippe su Macron o Corbyn, hanno tuttavia capito benissimo che oggi il maggior partito di centrosinistra non è né carne né pesce, ondeggia tra il suo passato socialista (ormai poco) e il suo presente liberista-competitivista; e, più in generale, sanno che è stato dato troppo poco ascolto (fin da prima di Renzi, sia chiaro) ai ceti bassi e mediobassi, perdendone così buona parte.
Questo vuol dire allearsi domani mattina con il M5S, che ha appena sposato il razzista (e liberista) Salvini? No, evidentemente. Questo vuol dire prima di tutto cambiare se stessi e, possibilmente, liberarsi da chi quegli errori esiziali li ha portati all’estremo (e qui sì, sto parlando dell’ultimo quinquennio).
Poi però, sempre nello spirito pragmatico di cui sopra, rischia di esserci anche una qualche decisione pratica da prendere, in prospettiva (neanche troppo lontana, la prospettiva).
C’è cioè una questione che potrebbe diventare addirittura urgente se – com’è possibile – dovessero ulteriormente peggiorare i rapporti tra i due soci gialloverdi oggi al comando insieme. Lo vede chiunque che l’ircocervo M5S-Lega è fortissimo quanto a consensi complessivi, ma sempre più fragile al suo interno sulle scelte delle cose da fare, specie in materia economica. Lo vede chiunque che Salvini sogna – forte dei sondaggi – di cannibalizzarsi tutto il centrodestra e sottrarre voti ai suoi stessi attuali alleati, per poi dargli il benservito. Lo vede chiunque (perfino Di Battista) che il M5S è ogni giorno sotto ricatto, la Lega comanda o strappa, cioè fa saltare il banco per prenderselo tutto.
E dato il realismo di questo scenario, praticamente, cos’è meglio fare (una volta decisa la propria identità politica, s’intende)?
È meglio continuare a cementare l’attuale maggioranza o provare a smontarla?
È meglio gridare al mondo ogni giorno che sono tutti uguali e “pentafascisti” – da Salvini a Fico, dalla Mussolini alla Nugnes – o cercare di fare esplodere le contraddizioni che anche un cieco vede benissimo?
E se per sbaglio nel 2019 si andasse al voto politico, è meglio cullarsi nel sogno di riprendersi la maggioranza assoluta dei seggi da soli (magari con il famoso e improbabilissimo asse che va da Calenda a De Magistris…) o accettare la realtà fattuale di un sistema proporzionale nel quale o si sta all’opposizione per vent’anni o si cerca un qualche dialogo con il meno lontano degli altri due blocchi per ribaltare l’attuale maggioranza e – se non migliorare le cose – almeno evitare che scivolino verso il peggio assoluto (cioè Salvini solo al comando)?
Queste sono le questioni pratiche, concrete, che probabilmente si sono posti i militanti del Pd ieri a Ravenna, applaudendo tanto Delrio quanto Fico.
Certo, tutto questo non può passare attraverso una semplificazione, tanto meno un ribaltone di palazzo in cui Madia o Boschi si siedono nel governo accanto a Toninelli o Taverna. Tutto questo è un gran casino, condizionato dalla necessaria crescita politica e culturale dei pentastellati, così come da una radicale mutazione del Pd rispetto alla catastrofica deriva renziana.
Ma, almeno se si guarda a possibili elezioni politiche l’anno prossimo o quello dopo, voi vedete altri scenari, a parte l’ingresso in un ventennio salviniano?
(4 settembre 2018)
Il titolo dell’articolo è un verso di una poesia di Oscar Wilde.
Link articolo: Di Ravenna meditando