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La relazione della Commissione Fioroni e le 'verità dicibili' della Repubblica

La relazione conclusiva dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Un ritratto con nomi e cognomi di una grande manipolazione

La relazione della Commissione Fioroni e le 'verità dicibili' della Repubblica
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7 Gennaio 2018 - 22.30


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di Ga.Si.

 

Il 7 dicembre del 2017, pochi giorni prima della fine della XVII legislatura della Repubblica, è stata consegnata la terza relazione, conclusiva dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro – cosiddetta “commissione Fioroni”: lavori dei quali siamo stati tra i pochissimi ad occuparci diffusamente su clarissa.it, in occasione della presentazione della seconda relazione, nel dicembre 2016. Il silenzio che sta seguendo anche questa volta la pubblicazione integrale negli atti parlamentari di questo documento (doc. XXIII, n. 29) è sintomo impressionante di quanto la verità sulla nostra storia politica sia stata sistematicamente manipolata dalla nostra classe dirigente e, di conseguenza, non abbia più alcun impatto su di un’Italia sempre più inerte e sfiduciata.
Avevamo a suo tempo già accennato ad alcune delle più rilevanti novità emerse dal lavoro della Commissione e presentate nella precedente relazione: anche in questo caso, vi sono numerosi elementi che meritano studio e riflessione. Basti qui citare il ruolo di un personaggio come Giorgio Conforto, sul quale qualsiasi investigatore di mezza tacca si sarebbe soffermato a lungo. Presentandosi pubblicamente come uomo di sinistra, collabora dal 1933 e almeno fino al 1941 con l’ufficio informazioni segrete del Ministero degli esteri e con Guido Leto, capo della polizia politica; passa nel 1946 a fornire informazioni a James Angleton dell’OSS americano e, di conserva, al ben noto prefetto Federico Umberto D’Amato, responsabile quest’ultimo dell’Ufficio Affari Riservati per l’intera epoca della strategia della tensione, in linea con i meriti acquisiti durante la guerra, meriti che gli hanno meritato la Bronze Star americana.

Conforto, la cui figlia ospiterà Morucci e Faranda in clandestinità, è quindi una figura chiave per capire cos’è avvenuto in Italia durante la guerra fredda: la Commissione afferma infatti di “ritenere che il ruolo spionistico di Conforto a favore dell’Urss fosse quanto meno bilanciato da una sua funzione di confidente o fonte delle strutture di polizia italiane” (p. 101), funzione della quale la Commissione ha avuto finalmente conferma incontrovertibile dall’audizione di un alto ufficiale dei nostri servizi segreti. Viene confermata quindi la condizione dell’Italia dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, quella di un terreno libero dove Usa e Urss collaborano quando occorre nella gestione del terrorismo, quando la destabilizzazione serve a garantirne la stabile collocazione nell’area Nato, alla quale l’Italia è stata assegnata dagli accordi di Yalta, e dalla quale non deve uscire.
Non sorprende in questo contesto quanto emerso dal lavoro della Commissione anche sulla questione della reale collocazione della prigione di Aldo Moro, che ora si ipotizza possa aver trovato sede in uno dei condomini di via Massimi 91, a Roma. Vale a dire in un’area (di proprietà di una ben nota banca vaticana) nella quale hanno sede numerose società, istituzioni e personaggi operanti nel mondo in cui si scontrano, interagiscono e trattano i poteri forti che agiscono nel nostro Paese: il mondo atlantico, la Chiesa cattolica, le massonerie, l’allora impero sovietico.
Lo abbiamo detto all’inizio: quello che però più colpisce della relazione è ben altro. Qualcosa che in un popolo desto e consapevole dovrebbe suscitare una forte reazione, poiché qui abbiamo una delle prove più drammatiche di quanto, al riparo dell’articolato sistema dei partiti che manovrano la nostra raffinata democrazia parlamentare, venga negato agli Italiani il diritto basilare di una vera democrazia – la conoscenza della verità sulla condizione dell’Italia.
La Commissione infatti ricostruisce minutamente, con nomi e cognomi, la trattativa condotta da esponenti delle Brigate Rosse in via di dissoluzione con i vertici delle istituzioni italiane, per tramite dei servizi di sicurezza e di canali informativi gestiti dal mondo ecclesiastico. Scopo di questa operazione, scrive testualmente la Commissione era la “stabilizzazione di una «verità parziale» sul caso Moro, funzionale ad una operazione di chiusura della stagione del terrorismo che ne espungesse gli aspetti più controversi, dalle responsabilità di singoli appartenenti a partiti e movimenti, al ruolo di quell’ampio partito armato, ben radicato nell’estremismo politico, di cui le Brigate rosse costituirono una delle espressioni più significative, ma non certo l’unica” (p. 139).

Si assiste quindi a ben costruiti e riusciti “tentativi di interloquire col Presidente Cossiga, con parti del mondo politico e col SISDE, sin dal 1984-1985, e di costruire, nelle dichiarazioni a Imposimato, un preciso perimetro politico-giudiziario entro il quale si sarebbe dovuta muovere la ricostruzione della vicenda Moro. Il tutto nel quadro dell’elaborazione della legge sulla dissociazione che avrebbe in qualche modo «canonizzato» una posizione garantita, nella quale Morucci e gli altri dissociati potevano rilasciare, nei modi e tempi da loro ritenuti congrui, elementi testimoniali”.
Per chi abbia conoscenza non superficiale di quanto accaduto nei cosiddetti “anni di piombo”, e più in generale nella stagione della strategia della tensione, queste affermazioni sono di una straordinaria gravità. Esse confermano infatti la responsabilità morale e politica di uomini ai più alti livelli dello Stato italiano (Cossiga e Andreotti per fare solo due nomi apicali), i quali con estrema lucidità gestirono la costruzione di quella “verità dicibile” in parallelo sui due versanti degli opposti estremismi, di cui erano stati tra i più spregiudicati strumentalizzatori.

Verso il terrorismo “rosso”, mediante appunto la gestione del memoriale Morucci sul caso Moro; verso quello “nero”, mediante il sapiente dosaggio di informazioni riduttivamente manipolate sul caso Gladio – nel momento in cui ciò si rendeva vitale per due ragioni chiarissime: impedire che emergesse la regia degli apparati Nato nella strategia della stabilizzazione attraverso la destabilizzazione; secondo, confermare il loro ruolo di garanti dell’allineamento italiano nei confronti del sistema internazionale di spartizione del potere mondiale.

Quest’azione parallela si conclude infatti in precisa coincidenza temporale, nell’estate del 1990, cioè proprio quando, caduto il muro di Berlino, si rendeva necessario in tutta fretta prepararsi ad un futuro nel quale era ben chiaro il ruolo di unica potenza egemone degli Stati Uniti d’America e degli apparati Nato utilizzati nella stabilizzazione nel suo campo dell’intera Europa occidentale. Era dunque necessario “riaccreditarsi” per il futuro, da una parte, e coprirsi le spalle per il passato, dall’altra.
Per chi segue fin dal principio il lavoro condotto, in sede giudiziaria e ancor più in sede di studio storico, da Vincenzo Vinciguerra in merito appunto alla strategia da lui denominata destabilizzazione per stabilizzare – troviamo qui la più netta conferma di quanto Vinciguerra abbia lavorato per la verità – proprio quando, non solo i mandanti, ma anche tutti gli epigoni dei terrorismi strumentali, rosso e nero, hanno preferito rinchiudersi nell’area protetta delle “verità dicibili”, quella gestita sapientemente dalla regia atlantica.
Se in merito alla propria individuale condotta ognuno è richiamato a questioni di fondo sulle quali è inutile qui spendere parole – sul piano della storia d’Italia, possiamo dire che ci troviamo davanti, con questa relazione della Commissione, alle prove di un tradimento del nostro popolo che ha ben poco da invidiare a quanto avvenuto l’8 settembre del 1943, e che anzi si colloca in piena continuità storica con esso. In entrambi i casi, infatti, i detentori istituzionali del potere dello Stato hanno difeso questo loro potere a scapito della sovranità, dell’indipendenza, dell’identità e della missione dell’Italia contemporanea.
Nessuna sorpresa dunque, se in taluni appunti del giudice Giovanni Falcone pubblicati anch’essi lo scorso dicembre, tra i nomi di coloro che rappresentavano il possibile “quarto livello” della mafia, torna il nome di quel Vito Guarrasi che, presente a Cassibile nel 1943 per firmare quell’armistizio che dell’8 settembre è l’indiscutibile premessa, ha poi operato come uno dei principali uomini del raccordo Stato-Mafia. Nessuna sorpresa dunque se, chiusa perché superata la stagione della strategia della tensione rosso-nera, è stata la mafia a prendersi carico della nuova strategia della tensione, negli stessi mesi in cui i vecchi epigoni del sistema italiano della Guerra Fredda si preoccupavano di delimitare ben chiaramente, a tutela della propria sopravvivenza, il perimetro della verità dicibile.
Impossibile quindi per noi oggi accettare, se si è alla ricerca di verità vere e non solo di quelle “dicibili”, il genuflettersi dei mass-media italiani nella commemorazione dell’anniversario dell’uccisione di Piersanti Mattarella, allorché anche in quel caso una possibile verità è stata da tempo rigorosamente delimitata, in quanto collocata anch’essa nella stessa stagione della destabilizzazione per stabilizzare, quella che pochi mesi dopo avrebbe portato ad uno dei suoi episodi più impressionanti, la strage di decine di innocenti italiani alla stazione ferroviaria di Bologna.
Inevitabili di conseguenza anche gli interrogativi su tutto quanto viene oggi detto ritualmente, per esempio agli studenti delle scuole italiane, sulla lotta alla mafia: se si include infatti in questa informazione ai giovani l’illustrazione della storia dello Stato-Mafia, è necessario in nome della verità risalire ai patti occulti che permisero lo sbarco americano in Sicilia e che consentirono l’armistizio di Cassibile; è necessario fare anche menzione dell’art. 16 del trattato di pace, con la protezione da esso accordato tra gli altri ai mafiosi; nonché la celebre risposta che su questo argomento diede proprio il povero Aldo Moro, il 20 giugno del 1974, ad un’interrogazione dell’on. Carraro, allora presidente dell’Antimafia, risposta quanto mai rivelatrice proprio del compito fondamentale che i vertici dello Stato italiano hanno assegnato a se stessi: perimetrare la verità perché sia dicibile. La stessa verità dicibile che Moro ha dunque pagato con la propria vita, insieme a quella degli uomini della sua scorta: con la differenza che della verità vera questi ultimi erano probabilmente del tutto ignari, e restano dunque tra le sue vittime innocenti.

 

Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1992/La-relazione-della-Commissione-Fioroni-e-le-verita-dicibili-della-Repubblica

 

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