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Il pericolo della fine delle Università così come le conosciamo

Sotto il volto apparente di un sapere on line più accessibile, i MOOCs americani rischiano di estinguere gli studi umanistici e favorire cartelli mediatici

Il pericolo della fine delle Università così come le conosciamo
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13 Luglio 2016 - 04.49


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di Paolo di Leo.

SINGAPORE – In
Italia
l’università americana viene
osannata
. Tuttavia, non la si conosce affatto, o comunque molto poco.
Troppo poco. Quando in Italia si pensa alle università americane, le si
immagina come luoghi di
fervente vita
intellettuale
, nei quali la ricerca ad altissimi livelli viene favorita,
mentre allo stesso tempo si
guarda al
mondo
, per il quale i giovani vengono preparati.

La prima
delle due cose è quasi del tutto falsa, e la seconda è tragicamente vera.

E dico
tragicamente, perché l’attenzione al mondo si riduce di fatto ad un
appiattimento totale alle esigenze e alle richieste
del mercato
, come già acutamente notava ormai quasi trent’anni fa Tiziano
Terzani in una acuta intervista a Giovanni Agnelli. [1]

Prova di ciò
sono da un lato la minaccia di
estinzione degli studi umanistici
, dall’altro la crescente difficoltà di una ricerca negli ambiti delle scienze pure che
non sia rivolta ad una ricaduta immediata nell’ambito della tecnologia, che
solo interessa il mercato. Questo per quanto riguarda il livello superiore
degli studi, quello cioè di coloro che studiano a livello di dottorato e poi di
ricerca.

Per quanto
riguarda, invece, il livello degli studenti regolari, gli undergraduate come li chiamano in inglese, l’università, sempre
secondo la logica di appiattimento al mercato, serve a fornire certificati di competenza professionale.

Anni fa, un
vecchio professore americano della University of Pennsylvania, a queste mie
osservazioni replicò con malinconica rassegnazione: «Di cosa ti stupisci,
ragazzo mio? Almeno dagli anni ’70 in poi le nostre università hanno dismesso
ogni missione intellettuale: ora si limitano a vendere ‘university stuff’». In
altre parole, le università americane vendono roba con sopra stampigliato il marchio di fabbrica, per cui un
corso universitario nella sua essenza è né più né meno di una delle magliette o
delle tazze con su scritto Columbia University o Harvard University ecc…

Un passo
ulteriore in questa direzione di subalternità
pressoché totale al mercato e alle sue leggi
le università americane
l’hanno fatto a partire dal 2012. Per ora sembra che il passo sia ancora
timido. Ma non c’è da dubitare che sia solo questione di tempo, prima che ciò
che ora appare come un qualcosa di marginale, al più suppletivo e sperimentale,
diventi uno dei pezzi più importanti del sistema.

Di cosa sto
parlando? Dei MOOCs. L’acronimo
sembra una brutta imprecazione barese o quanto meno il muggito di una mucca
lamentosa. In realtà sta per: Mass Open Online Courses. È la
trovata di due professori di Stanford, Sebastian
Thrun
e Peter Norvig. Nel 2012
questi due signori ebbero l’idea di divulgare via internet video dei loro
corsi, sì da renderli accessibili gratuitamente al largo pubblico (ricordiamo
che le università americane, buone e meno buone, si pagano, e molto caro). Si
tratta, dunque, di video-lezioni di professori universitari offerte gratuitamente al grande pubblico di
utenti della rete. L’idea, se ne dedurrebbe, non è affatto malvagia, anzi.
Renderebbe, invece, accessibile a tantissima gente, che non può permettersela,
la cultura superiore. E questo è l’argomento usato dai sostenitori dei MOOCs.
Tuttavia, come sempre, la realtà è molto più complessa e dietro ogni buona idea si possono trovare uno o più diavoli.

A parer mio,
i punti sui quali riflettere sono tre:

1) l’impatto
che una cosa del genere avrà sul sistema universitario in generale riguardo
all’aspetto del lavoro;

2) il tipo
di idea che porta in sé e che imporrà riguardo a cosa sia il rapporto educativo;
3) le ricadute sulla possibilità stessa della
ricerca
.

Ognuno di
questi tre punti è di uguale importanza, essendo essi strettamente legati l’un
l’altro in maniera inestricabile.

Cominciamo,
dunque, dal primo punto. Come dicevo, i sostenitori dei MOOCs, che sono in
numero considerevole, affermano che essi rendono accessibile a tutti in maniera
gratuita un’istruzione ed una cultura di tipo universitario. Questo finora… È
notizia di pochi mesi fa che i certificati
di frequentazione
di questi corsi
online
saranno ora a pagamento.
La cosa non stupisce. Infatti, fin dall’inizio importanti università americane
erano saltate su questo carro. Io scoprii l’esistenza di questi MOOCs una bella
mattina dell’eterna estate di Singapore, quando alcuni colleghi della nostra
casa madre, il MIT, qui in visita, ci proposero di usare in via sperimentale  anche alla Singapore University of Technology
and Design i MOOCs che la loro università stava elaborando. Cosa che
prontamente tutti rifiutarono.

Ma non è
solo il MIT a sponsorizzare questi MOOCs. Basta andare sul sito edx.org per vedere quante importanti
università prendano parte a questo progetto. EDx è la piattaforma messa in piedi dal MIT e da Harvard per
sviluppare MOOCs.

Qual è il
rischio concreto? Molto semplice: la scomparsa
delle piccole università
o comunque la drastica
riduzione del loro organico
a favore dei MOOCs. Ciò sta già avvenendo in
Texas, dove il sistema delle università statali di quello stato ha deciso che
gli studenti del primo anno non dovranno più seguire i corsi tradizionali, ma
dovranno invece seguire le video-lezioni dei MOOCs, le quali – si badi bene –
non sono create dai professori delle varie università statali del Texas, bensì
da un’associazione, che si dice no-profit, la Modern States Education Alliance,
e alla quale comunque bisogna pagare 90 dollari per ricevere il certificato di
frequenza. Dunque, questi MOOCs vengo creati
e sviluppati da imprese
, che hanno nulla
o poco a che fare col mondo accademico
, con la collaborazione di alcuni
membri di facoltà di importanti università, che hanno i mezzi per investire
nella creazione dei MOOCs stessi.

Quindi,
vengono messi sul mercato, per ora ancora sfruttando la rete delle piccole
università, il cui corpo docente
viene così ridotto al ruolo di
facilitatori della comprensione dei contenuti offerti dai MOOCs

stessi.  Non è improbabile che ben presto
questo passaggio venga saltato e i MOOCs vengano offerti direttamente e semplicemente
online, chiaramente a un costo che si può prevedere superiore ai 90 dollari.

Tuttavia,
anche ammesso che il prezzo del certificato continui ad aggirarsi sui 90 dollari,
il monopolio esercitato da queste
grandi istituzioni universitarie su un bacino possibile di utenza enormemente
più grande del numero di studenti che finora ha servito un’università – tipo la
University of Pennsylvania – creerebbe un profitto
gigantesco
. In poche parole, assisteremmo alla creazione di cartelli formati da grandi università in collaborazione con imprese della comunicazione.

Questo ci
porta ad affrontare il punto 2. Che tipo di concezione del rapporto educativo è
sottesa all’idea dei MOOCs? È presto detto: un’idea secondo la quale lo scopo del rapporto educativo è
l’acquisizione da parte degli studenti di conoscenze
tecniche determinate
, tali da consentire l’accesso e la funzionalità
all’interno del mercato del lavoro. Di ciò è prova il fatto che la maggior
parte dei MOOCs s’incentra su materie prettamente tecniche, come ad esempio
scienze informatiche o management o cose del genere.

Ma questa
idea del rapporto educativo viene applicata de
plano
anche a tutte le altre discipline. Sicché l’università smette di essere il luogo nel quale, ancora più che al
liceo, al centro non è tanto l’acquisizione di contenuti, quanto la capacità di
sviluppare il potere critico, certo
a partire da solidi contenuti. Essa diventa, invece, il luogo dell’acquisizione di dati e contenuti in vista della formazione professionale.

Infatti, lo
sviluppo del potere critico può avvenire solo lì dove vi è uno scambio
dialogico e dialettico tra insegnante e studenti. L’insegnante, soprattutto a
livello universitario, non si può e non si deve limitare soltanto a trasmettere
agli studenti contenuti, a inzepparli cioè di dati. Egli deve, piuttosto,
aprire con essi un dialogo a partire
dalle questioni che quei contenuti pongono. All’inizio di ogni mio corso di
filosofia io faccio sempre presente ai miei studenti che la cosa importante
nello studio della storia della filosofia non è tanto imparare e ricordare ciò
che Plotino o Hegel, Schopenhauer o Heidegger hanno detto e scritto, quanto
prima di tutto comprendere l’urgenza delle domande che essi hanno posto e quindi
sviluppare la capacità di ragionare intorno a queste domande, certo anche
tenendo presente quanto ogni autore ha proposto come risposta.

Questa è
l’essenza del dialogo che costituisce il rapporto educativo.

Un dialogo
rischioso e per gli insegnanti e per gli studenti: infatti, in esso posizioni
che pure si pensavano acquisite possono essere messe in dubbio, il che è una delle spinte
alla ricerca
.

Ora, abbiamo
visto prima come già nelle università statali del Texas il ruolo degli
insegnanti sia o del tutto scomparso, almeno per gli alunni del primo anno, o
comunque sminuito a quello di facilitatori, essi stessi subordinati
all’interpretazione che un altro dà di determinati testi o problemi. Non siamo
più di fronte ad un rapporto essenzialmente paritetico nella sua umanità
–perché creato all’interno di un circolo in cui in gioco non è il ruolo
sociale, ma l’umanità dei partecipanti nella sua più alta manifestazione – ma
piuttosto davanti ad un rapporto gerarchico, in base al quale i contenuti vengono calati dall’alto,
da uno schermo con il quale non si può interloquire. In pratica, è lo stesso rapporto che intercorre tra la
televisione e lo spettatore
: un rapporto, come acutamente già notava
Pasolini, di sudditanza gerarchica.  Inoltre, con la televisione questo nuovo
assetto del mondo universitario condivide anche l’aspetto monopolistico della
conoscenza
e della sua diffusione.
Dato non affatto irrilevante.

Veniamo al
punto 3. Qual è il destino della ricerca
all’interno di questo assetto?
A questa domanda bisogna rispondere e dal
punto di vista economico e da quello puramente intellettuale. In entrambi i
casi, la risposta non è confortante. Dal
punto di vista economico
, è chiaro che sia gli studi scientifici sia ed
ancor più quelli umanistici ne soffrirebbero tremendamente. Il numero
dei posti di lavoro offerti per questi ultimi verrebbe tanto ridotto da portarli
quasi a scomparire.

Meno
necessità vi sarà di assumere gente altamente competente nell’insegnare,
diciamo, storia della filosofia antica, meno opportunità ci saranno per i
cultori di questa materia di trovare un posto di lavoro che gli consenta di
avere quella stabilità necessaria per continuare le proprie ricerche.

Solo
pochissimi fortunati – perché di fortuna si tratta in realtà, e quasi mai del
tanto decantato merito – avranno la possibilità di essere assunti dalle poche
università rimaste, che poi sono le stesse, non dimentichiamolo, che stanno
mettendo in piedi questo nuovo assetto.

Per la
ricerca nelle scienze pure, le cose
sarebbero probabilmente diverse. In quel caso, ricerche scientifiche che
abbiano o promettano di avere immediate e tangibili ricadute tecnologiche e
quindi economiche continueranno ad esser lautamente finanziate. Cambierà però la relazione tra ricerca e
didattica
: finora, nella maggior parte dei casi, le due cose erano andate
mano nella mano e si erano alimentate a vicenda. Coll’affermarsi di questo
nuovo assetto, è prevedibile che la ricerca scientifica verrà confinata nei
laboratori, che sì continueranno ad esser finanziati e ospitati nelle università,
ma non avranno più nulla di accademico,
perché tanto per cominciare non ci sarà più l’università come l’abbiamo pensata
finora e di conseguenza questi laboratori di ricerca saranno staccati e avulsi
da ogni contesto di vita accademica e intellettuale.

Quanto poi
lì scoperto, verrà trasmesso come attraverso un filtro tramite i MOOCs.

Quanto
appena detto tocca direttamente il secondo aspetto della risposta alla domanda
che ci stiamo ponendo. Una volta spezzato
il legame tra ricerca e didattica
, che ha da sempre alimentato la vita
intellettuale, proprio per la natura dialogica e delle scienze pure e degli
studi umanistici, la didattica sarà ridotta, come dicevo, ad una sorta di indottrinamento, la ricerca invece ad
un meccanico quanto elitario progredire all’interno di laboratori per le
scienze pure.

La
conseguenza sarà un impoverimento delle
scienze pure
, la cui capacità di ricerca sarà di certo fortemente limitata
dal punto di vista teorico a favore di ciò che può avere risultati pratici;
mentre le discipline umanistiche saranno quasi del tutto spazzate via, perché
per esse il legame organico tra ricerca e didattica è ancor più vitale che per
le scienze pure.

Il quadro
che vado dipingendo è quanto meno deprimente, per non dire terrificante.
Tuttavia, siamo ancora in tempo per far
sì che nulla di tutto ciò avvenga
. L’Europa e l’Italia sono state finora al
riparo da tutto ciò, ma non a causa di una loro particolare virtù, bensì grazie
ad una sorta di torpore nel quale siamo caduti negli ultimi anni rispetto a
quello che si sta muovendo nel resto del mondo. In maniera un po’ forte direi
che l’Europa e più profondamente l’Italia vivono in un infelice provincialismo da Hobbit, i quali non
sanno nulla e nulla vogliono sapere di ciò che accade al di fuori della Contea.
Il guaio è che il mondo fuori dalla Contea, anche qualora non s’interessi
specificamente ad essa, ha comunque degli effetti non trascurabili su di essa. Qualunque tempesta si stia preparando là
fuori, non tarderà a colpire anche noi
.

Conviene, dunque,
prender coscienza del gran mondo che si agita là fuori e cominciare a
predisporre le dovute contromisure.
Quali esse possano e debbano essere sarà argomento di un altro discorso. A mo’
di apertura ad una riflessione, dico soltanto che bisogna cominciare a
riflettere su una parola, la prima dell’acronimo MOOCs, ovvero “massa”: è possibile un’educazione di
massa che sia vera introduzione alle cime della cultura, cioè alla possibilità
reale di libertà?

NOTA:


[1] Si tratta di un’intervista del 1996, ora nel volume In Asia, TEA 2011, che si intitola
“Giovanni Alberto Agnelli: il futuro breve”, pp. 366-377; mi riferisco in
particolare alla domanda che Terzani pone ad Agnelli a p. 368, dove chiede se
il rapporto tra mercato e ricerca non rischi di ridurre quest’ultima a qualcosa
di “eterodiretto”.

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