Il futuro della nostra scuola come a Singapore? Un momento, parliamone | Megachip
Top

Il futuro della nostra scuola come a Singapore? Un momento, parliamone

La ministra Fedeli, da ultima, adatta la scuola ai modelli del produttivismo e del guadagno. Ci dicono che a Singapore fanno così e sono i migliori. Ma una nostra esperienza smentisce che lo siano.

Il futuro della nostra scuola come a Singapore? Un momento, parliamone
Preroll

Redazione Modifica articolo

5 Ottobre 2017 - 11.36


ATF
di Paolo di Leo.
 
SINGAPORE – Le cose tutto intorno a noi stanno cambiando vorticosamente. Certezze che sembravano incrollabili sono già crollate nell’arco di appena vent’anni, e un nuovo gioco è emerso, le cui regole è molto difficile decifrare. Forse perché non vanno affatto al di là della primordiale ferinità umana. La scuola non è esente da questo terremoto. Sebbene in ritardo, essa si sta adeguando – o viene adeguata – ai cambiamenti che ormai hanno preso piede. A farne le spese in primis la generazione che è stata presa nel mezzo di questa mutazione. Una generazione epigonale, cresciuta per funzionare nel vecchio schema e che si è trovata, al momento dell’entrata piena nella società, a doversi confrontare con uno schema tutto nuovo. Questo schema lo si subisce, ma si può almeno cercare di comprenderlo: forse è questo l’ultimo riparo contro una soggezione totale.
Tutto ormai si svolge in funzione del produttivismo e del guadagno: il secondo dei pochi, anzi pochissimi, il primo dei molti. Si può far parte del nuovo gioco o come produttori eterodiretti o come vincitori, esempi di success stories, come si dice nel mondo anglosassone. La scuola si sta adeguando.
È di questi giorni la notizia che “la ministra” Fedeli – teniamola contenta – voglia accorciare gli anni liceali a quattro, in vista di una immissione più rapida nel mercato del lavoro. Benché i dettagli della riforma non siano ancora chiari, chiaro ne appare lo scopo, in continuità con “la buona scuola” di Matteo Renzi. Vale la pena chiedersi se la minestra che la ministra vuole ammannirci sia la prima nel suo genere o se ve ne siano già esempi in giro per il mondo. Se si accetta l’ipotesi che lo scopo sia quello di raccordare sempre più la scuola al mercato del lavoro, cioè farne un centro di formazione, un training center, dei futuri impiegati-produttori, allora il modello più compiuto al quale guardare è Singapore.
Alcuni brevi cenni su Singapore. Si tratta di una città-stato, situata sull’omonima isola prospicente la Malesia. Dal 1965 Singapore è Stato indipendente, dopo essersi separato dalla Malesia, sotto la guida quasi cinquantennale del padre-padrone Lee Kuan Yew. Il suo partito, il PAP, è stato alla guida dell’isola ininterrottamente dal giorno dell’indipendenza fino ad ora. Primo ministro è ora il figlio di Lee Kuan Yew, Lee Hsien Loong. Una volta l’isola faceva parte del vasto impero di sua maestà britannica, del quale ha mantenuto una parte importante dell’apparato giuridico e la lingua. L’inglese è, infatti, la lingua ufficiale dell’isola, assieme al mandarino, al malese e al tamil; tuttavia, l’istruzione e tutti gli affari dello Stato vengono svolti rigorosamente soltanto in inglese. L’isola è uno strano miscuglio di socialismo statalista e di super-capitalismo: una sorta di Cina in miniatura. Non per niente il governo di Pechino guarda a Singapore con una certa ammirazione.
Singapore si vanta di molte eccellenze, più presunte che reali, a parer mio, che ci vivo e lavoro da ormai quattro anni. Una di queste è il sistema educativo. E precisamente di questo vorrei parlare, rimandando ad un’altra occasione una descrizione più accurata di Singapore e del suo funzionamento [1]
Io insegno alla Singapore University of Technology and Design, della quale sono cronologicamente uno dei primi membri di facoltà. Questa istituzione è stata fondata in collaborazione stretta col MIT di Boston, allo scopo di creare una nuova classe di innovatori e creativi in campo tecnologico e architettonico.
A convincermi a venir qui fu il programma dell’università, tutto centrato sulla collaborazione stretta fra esperti di varie discipline per l’esplicitazione e possibilmente la soluzione dei problemi più urgenti del nostro presente.
Mi interessava – e mi interessa ancora – la possibilità di aprire un dialogo con architetti, ingegneri, fisici e biologi a partire dalle conquiste proprie del mio campo di studi, la filosofia. Devo dire che le mie aspettative sono sfumate nell’arco dei primi sei mesi e le cose in quattro anni non sono cambiate, anzi. A tutt’oggi, la così detta “mission” dell’università non appare che come un insieme di slogan. Ma tralascio questa parte e vengo al dunque.
Gli studenti ammessi alla Singapore University of Technology and Design sono molto pochi, perché rappresentano la crema del sistema educativo singaporiano. Ci si aspetterebbe allora un livello molto alto di preparazione. Soprattutto visto che, come dicevo sopra, Singapore si vanta moltissimo di avere un sistema educativo eccellente. E in effetti, gli studenti singaporiani figurano sempre tra le primissime posizioni nei vari test con i quali si pretende calcolare il livello di apprendimento.
In realtà quei test non misurano che la capacità degli studenti di immagazzinare dati, ma nulla dicono circa la capacità degli stessi di comprendere le nozioni apprese. Tutto ciò viene fuori nelle aule universitarie. Gli studenti con i quali finora ho avuto a che fare hanno un’infima conoscenza della lingua inglese: non conoscono le regole più elementari della grammatica, leggere un loro saggio –essays li chiamano- equivale a raccapezzarsi in uno slalom di svarioni così madornali, da rendere impervia anche la comprensione di quanto chi scriveva voleva dire. Per non parlare della padronanza lessicale, quasi pari allo zero.
Più volte mi sono trovato nella curiosa situazione di dover spiegare a dei madre-lingua il significato di parole inglesi di base. Spesso gli studenti usano una parola, della quale non conoscono affatto il significato, pur trattandosi di parola d’uso corrente, pensando che essa voglia dire tutt’altra cosa. Si può immaginare la difficoltà che ne consegue nel comunicare idee. Le cose non vanno meglio con il mandarino (la maggior parte dei singaporiani sono di etnia cinese): un mio collega cinese, che insegna letteratura classica cinese e tiene alcuni corsi in mandarino, mi dice che la conoscenza che gli studenti ne hanno è inferiore – se possibile – a quella dell’inglese. Insomma, essi non sono abitatori di nessuna lingua, per usare un’espressione un po’ heideggeriana.
Il risultato più immediato è che i miei studenti sono incapaci di affrontare qualsivoglia testo, per breve e semplice che sia. Anche messi davanti ad un paragrafo molto breve e chiaro di Cartesio, per esempio l’esposizione del dubbio metodico nelle Meditationes, e dopo che lo stesso passo è stato loro spiegato più volte e ogni volta con parole diverse, essi sono del tutto incapaci di afferrarne e riassumerne il senso. Del resto, la più parte di loro non ha mai letto un libro in vita sua, se non manuali di matematica da scuola superiore e anche quelli in vista dei test da sostenere.
Il sistema educativo singaporiano prevede fin dalla scuola elementare che gli studenti, tutti quanti, si concentrino in pratica esclusivamente su materie “scientifiche”. Metto l’aggettivo tra virgolette, perché in realtà non si insegna loro la fisica, la matematica, la biologia ecc… sottolineando il lato dei principi teorici di queste materie e quindi la necessità di ragionare per risolvere problemi. Li si ammaestra, invece, a imparare a memoria soluzioni a problemi di aritmetica e di geometria, senza dargli alcuna base teorica. Il tutto in vista del fatto che debbano superare con un buon voto – to score well – i test, il risultato dei quali garantirà loro l’accesso all’università.
Ripeto, l’insegnamento non si concentra per nulla sull’introdurre i ragazzi ai principi teorici di quelle discipline, ma solo sul fatto che debbano imparare a rispondere correttamente alle domande del test. Una sorta di mega quiz per l’esame teorico della patente, per il quale si studiano le risposte a memoria proprio a partire dalle domande del test.
Pochissimi tra di loro seguono alla scuola superiore il corso incentrato sulle humanities, che viene offerto durante gli ultimi due anni. Su cinquanta studenti se ne troveranno al massimo tre o quattro che abbiano seguito quel corso e anche questi sono stati esposti a due o tre libri, tra i quali una tragedia di Shakespeare e qualche romanzo novecentesco, spesso di dubbio valore.
A soffrire gli effetti di questo tipo di sistema educativo è la capacità di pensiero critico, pure tanto sbandierato anche qui a Singapore. La Singapore University of Technology and Design si fonda proprio sull’idea di sfornare “critical thinkers and innovators”. Ma i nostri studenti sono di fatto incapaci di pensare, e non per cretinismo innato, ma a causa del fatto che negli anni precedenti le loro menti non sono state spronate a pensare e a interrogarsi –cosa che si può fare solo sulle orme dei grandi che hanno pensato prima di noi-, ma solo a imparare a memoria risposte già fatte, che non dovevano comprendere. Infatti, hanno sempre una qualche risposta, chiaramente prefabbricata, come dimostra il fatto che, appena si chieda loro di spiegare e sostenere la loro risposta, ammutoliscano.
Un avvilente esempio di quanto diceva Sartre: l’idiota è colui che ha tutte le risposte, ma nessuna domanda.
Ma la cosa più avvilente è che in loro anche lo slancio vitale, quell’entusiasmo adolescenziale e della prima giovinezza più matura, sia assente. Non intendo con questo far la lode sperticata della giovinezza e dei suoi slanci, che spesso sono delle ingenue sciocchezze: tuttavia, va riconosciuto che è proprio dall’interno di quegli ingenui pensieri che qualcosa di più solido, una riflessione più articolata su se stessi e sulla vita può svilupparsi. Quegli slanci ingenui, quando sono genuini, corrispondono ad altrettante domande. Ebbene, anche questi sono in loro del tutto spenti. In media, su venticinque studenti solo due sono lì perché interessati all’ingegneria o all’architettura: la maggior parte è lì perché la società nella quale sono cresciuti li ha obbligati fin dalla prima infanzia a studiare per diventare dei tecnici e quindi trovare un impiego a tempo pieno e ben remunerato. Un impiego che, ça va sans dire, divorerà tutto il tempo delle loro giornate fino alla pensione, quando ormai la giovinezza non sarà forse neanche un ricordo.
Questo sistema educativo produce, insomma, degli utili idioti: gente che dovrebbe trovare soluzioni per i problemi del mondo, in quando “technologically minded leaders” –come dice un altro slogan dell’università-, ma che in realtà non sa nemmeno abbozzare una mappa approssimativa del nostro pianeta, ignorando quasi del tutto la posizione reciproca e la grandezza dei continenti. Senza parlare poi della storia: la stragrande maggioranza dei miei studenti non ha nessuna idea né della storia occidentale né di quella cinese o indiana. Nulla di nulla. E lo stesso vale per la realtà contemporanea: molti di loro non sanno per esempio che la Cina è un paese in linea di principio comunista e quei pochi che lo sanno, non sanno poi dire cosa ciò di fatto significhi. Gente, dunque, alla quale si può dar a bere qualsiasi cosa, per bislacca e falsa che sia. E del resto, se lo scopo ultimo del sistema educativo è quello di produrre futuri docili impiegati, che abbiano però competenze tecniche precise (parola questa molto cara al progetto della “buona scuola”), a che pro far sì che questi ultimi pensino?!
Non c’è bisogno di sottolineare come questo tipo di sistema educativo sia ideale per creare dei soggetti, invece che dei cittadini. La passività mentale, basata sull’ignoranza e la mancanza di potere critico, produce la spoliticizzazione, desiderata da chi sta al potere.
Grottesco contrappunto alla passività intellettuale ed emozionale degli studenti sono i video, dei quali l’università fa bella mostra attraverso i moltissimi schermi disseminati per il campus: in essi si vedono studenti che ballano, che si danno ad attività fisiche o a giochi di gruppo e simili. L’entusiasmo giovanile, privato di qualsiasi dimensione intellettuale, e quindi d’impegno e civile e morale, è così ridotto alla prestanza fisica e alla capacità di essere “fighi” o “cool”. Si fa qui evidente la trasformazione ormai avvenuta e completa dell’università in una ditta imprenditoriale: proprio come una qualsiasi impresa, l’università non coltiva il pensiero degli studenti, che sono invece ormai solo degli impiegati –anche se solo in pectore –, ma li incoraggia a svolgere attività ludiche a scopo ricreativo. Chi appartiene alla mia generazione si ricorderà delle parodie feroci dei film di Fantozzi: gli agghiaccianti svaghi organizzati dal geometra Filini.
Dunque, ignoranza pressoché totale, assenza di pensiero critico, disinteresse per la dimensione politica: un quadro che più drammatico non si può. Come reagisce il corpo docente a tutto ciò? Qui sta l’altro corno, drammaticissimo, del problema. Il professore universitario è ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, un tecnico specializzato in un segmento del sapere umano, incapace di costruirsi o anche solo di cogliere una visione totalizzante del sapere. Del resto, non fa che venire a compimento, ora, ciò che Heidegger aveva già profeticamente visto ormai settanta anni fa: il sapere ridotto a specializzazione rendicontabile in vista della produttività.
I professori continuano a fare le loro ricerche di settore, allo scopo di poi pubblicare articoli e libri che servano, come produzione rendicontabile, a promuoverne l’avanzamento di carriera. Della didattica, non se ne occupano, se non in incontri e tavole rotonde, nelle quali si parla astrattamente di principi pedagogici e idiozie simili. Del resto, non potrebbero impostare le loro lezioni sulla base delle loro ricerche, perché gli studenti arrivano dalle scuole superiori troppo impreparati per poter seguire e comprendere.
Si produce, quindi, uno scollamento totale tra la ricerca e la didattica, che di fatto svuota di senso la stessa ragion d’essere dell’università. Si dovrebbe, invece, guardare le cose per ciò che sono e cominciare a pensare a dei rimedi. Cosa che si può fare solo se tutto il sistema educativo viene ripensato.
Questa non è cosa facile. Innanzitutto per la complessità della situazione, che si è andata sempre più annodando su se stessa. In secondo luogo, e forse principalmente, a causa di una contraddizione di fondo del sistema educativo.
Nato per sistematizzare la società ed inserire ogni individuo in essa come ingranaggio funzionale al meccanismo, esso è fondamentalmente contrario alla vocazione del sapere, che apre invece alla libertà.
Questa contraddizione è già stata segnalata più volte, da grandi pensatori come Ivan Illich, Carlo Sini, Manlio Sgalambro, Martin Heidegger, e la lista potrebbe continuare. Tuttavia, il sistema educativo è stato necessario alla formazione di una società civile, e come tale ha rappresentato un passo inevitabile. In questo senso, esso ha aiutato a creare la possibilità di una cultura di base e quindi di una capacità critica diffuse, presupposti entrambi per una vera vita democratica.
Il problema è che al giorno d’oggi il sistema si è del tutto appiattito al livello delle masse da un lato, e alle esigenze del mercato dall’altro. Ha smesso di tentare di elevare le prime, ed è diventato in tutto docile strumento del secondo. Viene così del tutto compromessa la possibilità di formare individui indipendenti e responsabili. Dal punto di vista delle discipline del sapere, a fare le spese di questa situazione sono da un lato le materie umanistiche –in primis la filosofia e la storia — dall’altro tutte quelle scienze positive che non hanno un’applicazione immediata.
Va, inoltre, sottolineato che la massificazione e riduzione a impresa del sistema educativo si sono compiuti e sono stati formalmente sistematizzati negli Stati Uniti. I paesi asiatici, per la stragrande maggioranza arretrati culturalmente e materialmente, sempre alla smaniosa rincorsa di ciò che acriticamente percepiscono come “moderno”, non solo hanno adottato il sistema nord-americano, ma l’hanno anche portato a compimento. In questo senso, Singapore, come pure la Corea del Sud o alcune università cinesi e indiane, rappresentano l’esempio più avanzato e compiuto del sistema nord-americano. L’America Latina, dal canto suo, si è messa alla rincorsa dello stesso modello, come ebbi modo di apprendere da alcuni miei colleghi della Universidad de los Andes di Bogotà, durante una mia visita.
In Italia –ed in Europa- non ci si può cullare nella convinzione che questo non potrà mai essere il caso per il sistema educativo e le università del vecchio continente. La mala pianta nord-americana non ha mai mancato di impollinare le varie piante europee. E del resto, la cosa sta già avvenendo. Non a caso, Carlo Sini s’interroga su quali potranno essere i luoghi del sapere di domani, ma anche già del nostro oggi. La riforma in atto e la fanfara intorno alla “buona scuola” giustificano a pieno la sua domanda. Sini pensa che probabilmente la filosofia, e con essa tutto il patrimonio degli studi umanistici, non troverà più posto nel sistema educativo e dovrà organizzarsi altrove [2]. Forse ha ragione. Tuttavia, io mi chiedo se ci si possa rassegnare a questa idea: non ne va della possibilità stessa di una società civile e democratica?
 

 

NOTE


[1] Alcuni cenni e spunti di riflessione alquanto acuti si possono trovare nel breve articolo di Gabriele Battaglia, Viaggio dietro la facciata scintillante di Singapore: https://www.internazionale.it/notizie/gabriele-battaglia/2017/08/10/viaggio-singapore-cartacce-sfruttamento-lavoro   
[2] Si veda il bell’articolo di Carlo Sini, A pezzi e bocconi, in Nóema, n. 8-1: Gli strumenti del lavoro filosofico; come pure la lectio magistralis tenuta presso la libreria Jacabook di Milano il 30 novembre del 2014, il cui video si può trovare a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=Cc4SDgxtgag
Native

Articoli correlati