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Storia di una foto virale

'L''immagine più condivisa della manifestazione No Expo. Il racconto fatto dall''autore dello scatto di cosa è successo prima e dopo.'

Storia di una foto virale
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6 Maggio 2015 - 09.06


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di Ivan Carozzi

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista [url”Studio”]http://www.rivistastudio.com/[/url] il 5 maggio 2015. Viene qui pubblicato per gentile concessione dell”autore. (la redazione)

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Quel giorno ho deciso di esserci, di partecipare alla MayDay. Sono una persona di sinistra, ci tengo alle ricorrenze, forse anche alle apparenze, e se non fossi stato in quella piazza, mi sarei sentito in colpa. Quindi, per non scontare un senso di colpa, ho preso la bicicletta e quel pomeriggio alle 14 ero in piazza XXIV maggio. Ripeto: senso di colpa.
La più ottusa delle motivazioni. Sono anche qualcuno che lavora, e vive, come la maggioranza delle persone che conosco, una delicata e complessa quotidianità. A volte fonte di un’ansia che mi sveglia nel cuore della notte. Perciò volevo esserci. Volevo onorare quella giornata. Una questione simbolica. Una questione politica. Una questione personale. Ma c’è un’altra ragione: il voyeurismo. Immaginavo, come tutti, che sarebbe accaduto qualcosa. Sapevo che c’erano tedeschi, francesi, greci, in città. Da giorni. Sapevo che sarebbe accaduto qualcosa. E io volevo esserci. Volevo, appunto, vedere.

Alle 14 ero in piazza XXIV maggio. Da solo, cane sciolto. A mio agio con questa libertà e questa solitudine. E dopo una mezz’ora mi sono allontanato. Per la ragione che il corteo tardava a partire e un po’ perché, provato da un cocktail di agorafobia e di avversione per la decrepitezza di alcuni pezzi, grandi pezzi, di quella piazza; la sento ancora mia e fraterna, ma ogni volta in un modo sempre più sofferto. Per cui mi sono allontanato, servendomi della mia bicicletta nera, che mi offre la possibilità ogni momento di traslocare. Di sottrarmi alla pressione degli altri.

Ho preso prima per corso San Gottardo e poi per una stradina che porta verso il Due spade, un bar. Ho girato intorno a piazza Tito Lucrezio Caro, perfettamente rotonda e completamente deserta. Col suo cerchio di panchine, sfiorate dal verde dei ciuffi d’erba incolta. E ho preso per via Pietro Custodi, sempre molto lentamente, guardandomi attorno, nella quiete della città svuotata, dove dura la meraviglia pietrificata delle auto parcheggiate e dei condominii anni Settanta. Qui mi sono fermato di fronte alla vetrina di un rigattiere. Dentro la vetrina, sopra un mobiletto coperto da un plaid verde cosparso di peli, c’era un gatto. Dal pelo castano. Volevo fotografarlo, dentro quella vetrina. Essere vivente, con un piccolo cuore caldo, tra una zuppiera di ceramica, un binocolo da teatro e una statuetta egizia in madreperla. Il gatto mi dava le spalle, così ho cominciato a picchiettare sul vetro.

Volevo fotografarlo nell’atto di voltarsi, nel momento in cui ruotava il muso e scopriva la presenza di un umano al di là del vetro. Girati. Girati. Girati. Ma il gatto non si girava, nonostante le nocche continuassero a battere sul vetro. Non si è girato neppure quando con un paio di bambini, che passavano per il marciapiede, ci siamo messi tutti e tre a tamburellare sul vetro. Dai, girati. Ma niente. Allora me ne sono andato e ho continuato a pedalare per via Giovenale e poi verso la Bocconi, non sapendo che questo mio girovagare e rimbalzare con le gomme sui sampietrini, e questo fare continui cerchi nella città e nella mente, e poi questo cercare di trovare l’occhio e il muso di un gatto, stavano fecondando un evento che non aveva ancora preso forma.

Ho raggiunto la manifestazione, che nel frattempo si era mossa, ho fatto un pezzo di corteo – spezzone CUB, con i migranti – fino a piazzale Cadorna, e me ne sono tornato a casa, sotto un cielo cupo e una pioggia che veniva giù a schizzi. Sul divano ho acceso il computer e ho visto che i siti aprivano con le foto delle auto bruciate, del fumo e delle vetrine spaccate. Era successo. In mia assenza. Era scoppiato il tumulto annunciato da settimane sulla stampa. Fuori pioveva ed ero indeciso se uscire di nuovo. Ero sdraiato sul divano, col computer sulle ginocchia, rilassato, pronto a seguire la diretta su repubblica.it. Poi mi ha preso qualcosa. Di nuovo una specie di senso di colpa, ma pure una curiosità e una voglia immensa di andare e vedere con i miei occhi. Quindi sono uscito di nuovo, ancora in bicicletta, in un’aria grigissima.

Sono arrivato in piazzale Cadorna, dove ho trovato il corteo smembrato in piccoli gruppi. Ciascuno per i fatti suoi in tante direzioni diverse, sotto il suono delle sirene. Una diaspora. Avanzando ho cominciato a scoprire le prime auto carbonizzate, circondate da tanti coi capelli bagnati che si avvicinavano per fotografare e se ne andavano, e poi centinaia di tag nuove, ramificate sui muri come un’esplosione rampicante, e un palo della segnaletica conficcato come un ariete dentro la vetrina detonata di una banca.

In via Giacomo Leopardi una macchina era stata bruciata, rovesciata su un fianco e lasciata in mezzo alla strada. Mi sono avvicinato per scattare una foto. Lì ho visto un paio di ragazze che stavano fotografando un’amica, in posa di fronte all’automobile. Dovevano essere turiste. Avevano l’aria di venire dall’est. Probabilmente russe. Probabilmente capitate lì per caso. Ho pensato fossero quel tipo di ragazze, scese da un aereo, che si vedono in corso Vittorio Emanuele II, a fare shopping o a fotografarsi davanti alle vetrine di Prada e Ferragamo. Ma sembravano turiste anche in quel senso un po’ povero, giornalistico e peggiorativo del termine. Turiste dei riots, della città a ferro e fuoco.

Fino a quel momento avevo veduto la scena stando nei pressi del baule bruciato dell’auto. Poi ho girato intorno alla scena e l’ho guardata per intero. Ho visto la ragazza fotografata, che era bionda, molto bella e non sembrava più una turista, ma una giovane modella al lavoro, perfettamente innocente e donata allo sguardo. A quel punto le ho chiesto se poteva regalarmi una posa, così come aveva fatto per le amiche. Deve avermi detto Ok, o qualcosa del genere, con una docilità che mi ha stupito e colmato di gratitudine. Ho portato il display di fronte all’occhio, ho detto a mia volta Ok e in quel momento la ragazza ha aperto un leonardesco sorriso baltico e felino, con una mano nella realtà, nel mondo degli oggetti e delle cose pratiche, afferrata intorno al telefono, e l’altra nel regno dell’arte classica, della posa plastica, appoggiata morbidamente al rottame fumante dell’automobile. Le ho detto Grazie, anche per questo suo vivere tra due mondi, ed è sparita veloce. Come un gatto.

Dopo qualche minuto la foto era sul mio profilo Facebook e poco più tardi sul mio blog sul Post. L’immagine era potente, forte, ambigua. Non solo moralmente ambigua, ma esteticamente, formalmente ambigua. Tanto che molti, in rete, si sono subito chiesti, sbigottiti, se si fosse trattato di un falso. Proprio perché la sagoma della ragazza sembrava scontornata e incollata alla carcassa dell’auto bruciata. Come se non avessi fotografato una circostanza reale, ma un set che riproduceva le apparenze di un meme o di un fotomontaggio.

Ho subito postato la foto, preso da un orgasmo della pubblicazione, che è certamente complice di quanto correttamente ha scritto Christian Raimo, parlando di riot porn. Così è andata. Sono uscito di casa da voyeur e mi sono ritrovato in mano una specie di prodotto pornografico, su cui si è avventato lo sguardo di tantissimi. La mia ambigua ricerca è stata ripagata con un premio ambiguo. La foto è esplosa, ha cominciato a circolare. Sul Corriere, al Tg4. Ovunque su Twitter. Ho ricevuto diversi messaggi, qualche telefonata. Mi ha fatto piacere. Era partito un virus che si era proiettato proprio da un mio dispositivo. Euforico e connesso alla rete, come quegli scienziati in camice dei fumetti, con i capelli dritti per aver toccato un cavo in laboratorio.

Arrivato all’ultima tappa del corteo, dove si era raccolta pochissima gente, riguardando la foto mi sono sentito una specie di Maurizio Cattelan o Terry Richardson, partecipe di quella estetica comunicativa pubblicitaria, della giustapposizione e della provocazione, che non mi piace. Però non avevo costruito io la foto. L’avevo davvero trovata così, in mezzo al campo di battaglia.

Quando poi questa ragazza, apparsa in via Giacomo Leopardi, è stata maltrattata nei commenti, deformata nel ciclo narrativo delle parodie e delle bufale, mi sono sentito precipitare da emulo involontario di Cattelan a una sorta di Andrea Dipré. Mio malgrado entrato nel regno della melma digitale. E non mi è piaciuto. Resta in mano questa foto, di una donna gatto, che trovo comunque ancora bella.

(5 maggio 2015)

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