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La paralisi araba

Note a margine della lettura de “L’infelicità araba” di Samir Kassir (Einaudi, 2006). [Pier Luigi Fagan]

La paralisi araba
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14 Dicembre 2015 - 12.00


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di Pier Luigi Fagan

Stimolata dalle pagine del libro di Samir Kassir, “L”infelicità araba”, un”attenta riflessione sul mondo arabo, le sue strutture e le stratificazioni storico-culturali del dominio e del conflitto nella società moderna del Medio Oriente. Ringraziamo come sempre Pier Luigi Fagan, che ci offre la possibilità di riprendere qui i suoi testi. Buona lettura. (pfdi)

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Il mondo arabo consta di una ventina di stati per una popolazione di poco superiore a quella degli Stati Uniti d’America (più di 350 milioni), per il 60% posti nel Nord Africa e per il 40% nel Medio Oriente. Non sono “arabi” ovviamente i turchi, gli iranici, gli israeliani ebrei. Gli arabi sono solo il poco più del 20% dell’islam. Questo vasto mondo dal glorioso passato, vive uno scabroso presente connotato in particolare da una sorta di paralisi socio – politico – culturale che Kassir compendia nello stato d’anima dell’infelicità. Questa infelicità è triplicemente determinata. C’è l’infelicità della condizione, una condizione oggettivamente marginale, paralizzata, regredita. C’è l’infelicità dell’inazione, dell’impotenza. Nulla sembra politicamente possibile in un mondo sclerotizzato in mafie al potere, quasi sempre protette dai poteri del neocolonialismo occidentale la cui alternativa è data dal “sogno” del ritorno all’islam puro di più di mille anni fa, “sogno-incubo” a sua volta sponsorizzato dalle potenze petrolifere del Golfo anch’esse protette dai poteri neocoloniali. Infine, l’infelicità stessa del pensiero a cui è vietata ogni evasione, ogni ricerca, ogni sperimentazione, quindi, ogni libertà.

L’elenco dell’immediato passato storico di questo mondo è agghiacciante: la prima questione palestinese e l’umiliante conflitto arabo israeliano, la crisi di Suez, la guerra d’Algeria, la guerra libanese, la continua diaspora palestinese, il lago di sangue della guerra tra Iraq ed Iran, il massacro di Sabra e Chatila, la prima e seconda guerra civile in Sudan, la guerra civile in Algeria, il genocidio del Darfur, la prima e seconda Guerra del Golfo, l’occupazione americana, i sussulti dell’islamismo in Algeria ed Egitto, le ripercussionegrande dell’11 Settembre, le Intifada, il fallimento delle Primavere arabe, la repressione, la guerra in Libia, il disfacimento iracheno e poi siriano, strangolamento e massacri a Gaza, lo Stato islamico, il colpo di stato in Egitto, le stragi tunisine, egiziane, la guerra per bande in Libia, la guerra dei sauditi a gli sciiti houti dello Yemen. Di contorno, attentati, prigioni, torture, colpi di stato. Come si è giunti a questo stato di apparente “senza speranza”? Non ci si è arrivati tutto in una volta ma sovrapponendo strati e strati di vincoli che infine, hanno portato alla paralisi.

Il primo, e forse più importante, strato di eventi fu il colonialismo. Il colonialismo impose la partizione stato-nazionale laddove essa era non solo del tutto aliena ma contraria a due principi fondamentali, quello della tradizione culturale e quello della tradizione storica dell’islam arabo. L’islam nacque con la decisiva azione di Muhammad il cui fine politico era chiaramente quello di unire le fragili e disperse tribù beduine superandone il frazionamento in un unico amalgama: i sottomessi a Dio. L’Arabia del VII° secolo era al confine tra l’Impero bizantino (cristiano) e l’Impero sasanide (zoroastriano e poi manicheo), oltretutto in reciproca lotta, queste due entità statalizzate monopolizzavano la regione. Si sa che Muhammad osservò con attenzione gli ebrei, un “popolo” di identica origine clanico-tribale, senza terra, che però aveva mantenuto la sua unità ed identità tramite la condivisione del credo religioso. I musulmani, similmente, avrebbero dovuto superare il frazionamento clanico-tribale per fondersi in una unica comunità (umma) ma con una terra ben precisa, il dar-al-Islam (la casa dei sottomessi a Dio). Da questo paradigma culturale che forma la comunità religiosa dei musulmani, conseguì il califfato, dalla morte di Muhammad (632) fino alla fine dell’Impero ottomano (1922). La contraddizione dello stato-nazione era quindi duplice. Da una parte si divideva in presunte nazionalità quello che era e doveva essere per esplicito volere di Dio, un unico popolo, quindi una unica nazione. Dall’altra il bene comune della Casa dei sottomessi, veniva frazionato in entità tra loro in competizione com’è nella logica naturale originaria dello stato-nazionale europeo.

Questa sovra imposizione strutturale, farà nascere per reazione, due linee di resistenza: il panislamismo ed il panarabismo. Le due linee, strutturalmente, dicono una cosa sola: gli islamici, gli arabi, debbono vivere in una unica entità politica coordinata. Il panislamismo chiaramente altro non è che la riproposizione della tradizione storico-culturale dell’umma califfale, il panarabismo in un certo senso prende atto della partizione nazionale che pure ebbe una sua logica per quanto imposta dall’esterno ma tende a superarla in quello che potrebbe essere una federazione o una confederazione o un progressivo fondersi in un super-stato composto poi da province. Il panarabismo, non solo tratta il popolo arabo in quanto tale cioè laicamente (gli arabi non l’umma) ma interpreta poi il riscatto anticoloniale anche come rifiuto del classismo capitalista inteso come prodotto socio-culturale dei colonizzatori. Ne conseguì quel “socialismo con caratteristiche arabe” che rappresentò forse l’unica vera affermazione di identità originale lungo tutto il secolo scorso. La classe sociale motore di questa idea è stata una piccola borghesia nazionale la cui unica possibilità di ambizione sociale ai tempi delle colonie, era l’arruolamento nei ranghi dell’esercito ed in parte, nella burocrazia statale. L’esercito, prese così caratteristiche rivoluzionarie anticoloniali ed al contempo, risultò di sua natura, l’ambio sociale più impermeabile alla penetrazione dell’islamismo degli imam, generali ed imam divennero due figure in conflitto per il potere.

Il conflitto tra arabismo laico ed islamismo religioso, pur volendo in effetti la stessa cosa ovvero la liberazione dal colonialismo ed il ritorno all’unità del popolo, depotenzierà entrambe le interpretazioni. In effetti, gli uni avrebbero voluto avere il potere sul proprio popolo che era comunque ripartito in nazioni che, per quanto da superare, davano ad ogni esercito una sua forza specifica e quindi ad ogni generale il suo potere, gli altri avrebbero voluto cancellare del tutto questa partizione ritenuta innaturale e tornare all’unica entità ammessa, un solo popolo di sottomessi a Dio regolati da un corpo scritturale (Corano e Sunna) di cui gli imam erano gli ermeneuti, in ciò traendone la posizione di potere. Se in esercizio di astrazione, potessimo immaginare questo conflitto come libero ovvero non coartato dalle dinamiche esterne (interessi coloniali o post-coloniali, grandi potenze, allineamenti da guerra fredda, interessi capitalistici, soprattutto legati alla “disgrazia del petrolio”), ne sarebbe sicuramente nato un nuovo equilibrio avanzato del mondo arabo-islamico, una feconda spartizione di potere tra Dio e Cesare, magari in quel “politico” che stritolato tra imam e generali ebbe ben poca possibilità di evolversi. Ma così non fu e, mentre il panarabismo ebbe poi la sua confusa chance (la Repubblica Araba Unita di Egitto e Siria, poi anche Yemen ed una qualche influenza nei principi costitutivi del partito siro-iracheno Ba’th) per altro fallita, il panislamismo rimase una vocazione inespressa, repressa sia dagli interessi coloniali, sia dai nuovi interessi delle élite borghesi laico-militari nazionali. Il pan-islamismo divenne così l’unica fucina di pensiero e poi di azione politica “contro”, legale o del tutto illegale, da cui discendono le varie forme di islamismo armato che lotta sia contro il nemico lontano (l’Occidente, i russi, i cinesi, gli “Altri”), sia contro il nemico vicino (le borghesie “nazionali” ritenute traditrici).

Il secondo trauma portato dal colonialismo è stato culturale. In breve: il trauma della modernità. La modernità occidentale fu un trauma per diverse ragioni: 1) era uno stile di essere e fare del tutto alieno; 2) era la ragion per cui gli arabi persero sistematicamente ogni confronto con le potenze coloniali ed ogni possibilità concreta di resistenza e ribellione accumulando frustrazione ed umiliazione; 3) era affascinante ed oggettivamente (in parte e contraddittoriamente) desiderabile. Era cioè quella forma di intrusione violenta da cui scaturisce un dominio di cui, malgrado tutto, si riconosce il fascino, la potenza. Quando iniziò la fase coloniale, il mondo arabo era di suo in una valle discendente di espressione storica. Di sicuro, sarebbe risalito da questo sprofondo così come è sempre avvenuto per ogni longeva civiltà non esente da una certa ciclicità della potenza ma non ebbe mai più la possibilità di cercarsi questa risalita da solo perché impedito da un intruso dotato di potenza imperativa ma attraente. Kassir rispolvera il promettente movimento di rinascita culturale conosciuto come Nahda (rinascita) che prese il via nella seconda metà del XIX° secolo, arrivando soprattutto lungo l’asse egiziano – siro-libanese a spingere verso una nuova stagione di florescenza culturale: giornali, biblioteche, università, i movimenti femministi egiziani, la grande passione politica, la poesia, il teatro, il cinema e la musica, la ripresa dell’interrogazione scientifica e filosofica. Se non altro, tutto ciò dimostra che non c’è una tara antropologica araba nei riguardi di un possibile sviluppo in direzione di una cultura moderna. Qualcos’altro impedì la continuazione di questo sviluppo che poi s’interrò, s’insabbiò nelle dune dei regimi polizieschi, della disattenzione occidentale, del fallimento del socialismo statalista, della grande sabbia dell’ortodossia e del tradizionalismo religioso.

A questo doppio strato di paralisi portato dal colonialismo si vennero ad aggiungere poi altri strati. Il colonialismo europeo si trasformò. Da una parte, le ex potenze europee mantennero anche dopo la presenza coloniale, radici e frondosi rami di interessi. La fine del colonialismo più esplicito e manifesto ha lasciato spesso il posto ad una forma di presenza ramificata meno visibile ma non meno intrusiva, presenza che ha sempre prodotto il fenomeno della paralisi politica. Le élite politiche, militari, economiche europee non avevano altro interesse che mantenere stabili le élite locali che davano loro il permesso di svolgere i propri piani ed interessi. Quando proprio non si poteva fare a meno di accettare qualche cambiamento perché ormai inevitabile, questo sarebbe dovuto esser presto sottomesso a prorogare i vantaggi di esclusività delle relazioni precedenti. La presenza prima decisiva degli europei, lasciò parte del campo al nuovo dominus mondiale: gli Stati Uniti d’America. Questi si presentarono assieme alla loro diade dialettica che dall’altra parte prevedeva l’Unione Sovietica ed il rispettivo modello socio-economico-geopolitico.

Proprio il progetto panarabo (la R.A.U.) tentò uno smarcamento non allineato ma questa terza posizione fu difficile da mantenere anche perché era una non posizione. Nel frattempo, il mondo arabo era stato percorso dalle dinamiche del tutto aliene di ben due conflitti intra-occidentali, le due guerre “mondiali”, venuti qui come altrove, a portare le proprie dinamiche di disputa che originavano dal cuore dell’Europa continentale. Alla fine, il mondo arabo, si ritrovò impiantato nel cuore antico della Palestina, anche la presenza aliena degli ebrei formattati in stato-nazione: Israele. Il mondo arabo era storicamente intriso di ebrei non meno che di cristiani ed altre religioni. Il problema non era la religione, né gli ebrei in quanto tali ma la loro istituzionalizzazione statale, imposta dalla forza dei coloniali ed oltretutto per ragioni di loro specifici sensi di colpa da riparare con un’azione il cui prezzo veniva però pagato dagli arabi. Pagato tra l’altro, al prezzo più alto, cancellando il diritto di un popolo non meno antico di quello ebraico (in teoria, addirittura più antico), proprio nel terzo centro più sacro dell’islam. Il tutto si accompagnò con una lunga catena di umiliazioni inflitte ed auto inflitte come nelle varie guerre perse contro Israele.

Infine, la “disgrazia del petrolio”, portò un perno fisso di importantissimi interessi che vincolavano l’intera geografia politica dell’area, poiché quella risorsa era la precondizione di attivazione dell’intero ciclo della produzione capitalistica industriale, il cuore del sistema moderno occidentale. Ma poi, la “disgrazia del petrolio” divenne anche il capitale di sostegno al modello del Golfo, monarchie dinastiche assolute, intrecciate a doppio filo con l’hanbalismo, l’interpretazione più retriva, letterale ed astorica delle scritture. Queste “finanziarono” non solo i nuovi network delle scuole coraniche e delle moschee diffuse strategicamente in tutto il mondo arabo (in tutto l’islam e in Occidente), non solo l’islamismo armato al fine di espellere il dissenso dai loro confini per inguaiare quelli degli altri ma unendo a tutto ciò un surrogato di modernità: la modernità da free shop. La modernità da free shop del Golfo riveste e protegge con il suo chiassoso ed esibizionista feticismo modernista, l’essenza più immobile ed antica: la solidarietà clanica tra i maschi di potere rinforzata dal dogma religioso. Così oggi lo Stato islamico che riveste di estetica hollywoodiana, il flusso continuo della sua agit-prop tramite i social network, per poi dire: torniamo alla tradizione di mille anni fa.

Abbiamo accennato al mondo arabo come teatro periferico dei due conflitti mondiali e della successiva Guerra fredda. Ma la stessa dominazione coloniale rispondeva in parte ad una logica geopolitica (cioè di più generale concorrenza competitiva tra Francia e Gran Bretagna) e financo oggi, l’eterna esigenza occidentale di contenere la Russia al Sud, riporta a questa stessa logica. Anche una delle tante componenti che tutte tra loro intrecciate fanno il conflitto nel Siraq, è riconducibile alla geopolitica dei gasdotti. Tra le corse alle posizioni di Gibuti[1] ed Aden[2], la corsa ai contratti di fornitura tra i produttori del Golfo, l’ampliamento del Canale di Suez, lo stazionamento muto di una avanguardia della sua marina militare al largo delle coste siriane, già s’intravede il motivo del prossimo conflitto geopolitico: contrastare l’espansione cinese. Per dire che l’ennesima disgrazia del mondo arabo, soprattutto per il Mashreq (ad Est del Cairo, quello ad Ovest è il Maghreb), è quello di essere teatro naturale di scontri e linee di tensione e frizione geopolitica che originano altrove.

La società araba, frutto di tutti questi vincoli paralizzanti e depressivi, ha oggi uno dei più bassi indici di alfabetizzazione, alti indici di diseguaglianza al reddito, indici di sviluppo umano appena sopra l’Africa sub sahariana, una condizione femminile quantomeno problematica, tassi di fertilità ancora sopra la semplice riproduzione e quindi avanzo di popolazione giovanile. Le burocrazia statali sono kafkiane, le dinamiche di potere opache, l’ultraliberismo ed il globalismo accettati acriticamente, le prospettive personali limitate alla possibilità date da questo o quel clan, entrare nell’esercito o in qualche apparato di repressione, votarsi alla religione. L’alternativa è l’umiliazione dello sradicamento, la migrazione, l’andar a pietire un po’ di futuro da chi mal ti sopporta. Le uniche forme politiche di governo ammesse sono la dittatura militare, la monarchia assoluta, blande forme di ininfluente rappresentanza e comunque, sempre, di puro contorno alle élite dinastiche più o meno mafiose. La morte della sinistra europea, ha privato anche dell’unico orizzonte politico ideale di riscatto. Sul piano comparativo, escluso ovviamente il primo mondo, si è lontani sia dalla rinascenza emancipativa sudamericana, sia dal nuovo protagonismo asiatico e, a differenza degli africani, gli arabi hanno anche da rimpiangere un passato glorioso. Il mondo arabo è quindi del tutto privo di “eroi” o di primati d’orgoglio, sa di poter essere qualcosa d’altro ma ha smarrito la strada per impossessarsi del suo percorso, le gambe paralizzate, l’orizzonte occluso. Questa infelicità, questa depressione, questa paralisi certo che trova allora conforto nell’unica forma possibile oggi di apparente riscatto: il jihadismo.

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Il mondo arabo è quindi trattenuto a forza da una rete di vincoli. Vincoli geografici che lo fanno essere sulla faglia storica in cui l’Occidente combatte contro il resto del mondo, vincoli esterni dati dalle potenze ex coloniali e dal superpotere americano, per interessi specifici (petrolio, commesse) o più generali (geometrie geopolitiche). Vincoli interni dati dalla vischiosa tradizione religiosa che oggi ha ricchi sponsor proprio della sua interpretazione più paralizzante e vincoli dati dall’altro potere, quello delle élite militari, dei servizi segreti, delle polizie occhiute e manesche. Vincoli esterni/interni dati dalla geopolitica di Israele, protetta dagli occidentali e vincoli culturali dati dalla difficile relazione tra tradizione e modernità. Ma l’arabo del Maghreb non è più così simile all’arabo del Mashreq, i beduini non sono così simili ai cittadini (sudditi?) delle grandi città e questi dagli abitanti delle campagne o dei deserti e tutti sono poi assai dissimili dagli uomini con thobe (la lunga tunica bianca) e guthra (il copricapo) delle penisola arabica. Anche le quattro scuole giuridiche sunnite oltreché la divisione sciiti-sunniti sebbene molto localizzata, dice di una insopprimibile pluralità pur dentro l’omogeneizzato religioso. Una alta percentuale di giovani generazioni preme per cambiare la rotta dell’appuntamento col futuro.

Fino a quando al molteplice interno arabo, non verrà data la facoltà di espressione politica e culturale, fino a che il mondo arabo non sarà libero di cercarsi da solo la sua strada, zigzagando e sbagliando, liberando i suoi conflitti interni così come ha fatto lo stesso Occidente, questo mondo antico rimarrà immaturo, inespresso, infelice, gonfiandosi il petto col rancore il cui veleno stiamo già vedendo all’opera.

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Samir Kassir (1960-2005), libanese figlio di un palestinese ed una siriana, giornalista, storico, cofondatore del Movimento della Sinistra Democratica, scriveva su le Monde Diplomatique ed An Anhar. Il 2 giugno del 2005, sale in macchina, infila la chiave nel cruscotto, l’accende e salta in aria.

(14 dicembre 2015)

Note

[1] A Gibuti, affaccio africano sull’imboccatura del Mar Rosso, già sono presenti basi militari americane, francese ed italiane ma è stato recentemente annunciato l’affitto decennale ai cinese, di un’area dove sorgerà la loro prima base militare “africana”.

[2] Aden e l’arcipelago di Socotra (un gruppo di isolette, già Patrimonio UNESCO che si trovano tra Somalia e Yemen, in acque territoriali yemenite) sono gli altri due bastioni di controllo dell’imbocco al Mar Rosso. Su Socotra erano già puntate le mire russe ma sono poi circolate indiscrezioni di una possibile autorizzazione ad una base multifunzione (marina, di terra e di aria nonché di spionaggio elettronico) americana. Di certo, la presenza di al-Qaida ed addirittura dello Stato islamico, degli houti ora in guerra con l’Arabia Saudita, houti dietro ai quali forse ci sono gli iraniani, dicono quanto sia in pieno svolgimento il conflitto per il controllo di questo punto strategico dentro il quale s’imbutano tutte le petroliere che vengono dal Golfo Persico e tutte le navi container che vengono dall’Oceano Indiano e dal Mar della Cina.

Pier Luigi Fagan, professionista ed imprenditore per 22 anni. Da più di dieci anni ritirato a confuciana “vita di studio”, svolge attività di ricerca da indipendente. Nel suo [url”blog”]http://pierluigifagan.wordpress.com/[/url] scrive sul tema della complessità, nella sua accezione più ampia: sociale, economica, politica e geopolitica, culturale e soprattutto filosofica.

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