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Il sintomo Trump: una guerra fra bande

Una guerra fra bande si sta svolgendo davanti ai nostri occhi e c’è perfino chi ritiene opportuno parteggiare per le une o per le altre. [Paolo Bartolini]

Il sintomo Trump: una guerra fra bande
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31 Maggio 2017 - 07.30


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di Paolo Bartolini

Qualcosa sta accadendo, stiamo entrando in una nuova fase della crisi sistemica accelerata dalle logiche ottuse del turbocapitalismo. La globalizzazione economica, per come l’abbiamo conosciuta, sta cambiando pelle. I suoi rappresentanti istituzionali (quelli anglosassoni in particolare) sembrano aver individuato altre strategie per ridefinire le sfere di influenza dei poteri industriali e finanziari. L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti è un evento comprensibile all’interno di queste coordinate, i cui vettori principali sono il rilancio della grande industria, un ripensamento parziale del sistema finanziario mondiale e una potente retorica identitaria finalizzata a rispondere alle paure collettive generate dal combinato disposto dell’impoverimento di massa e dell’aumento massiccio dei flussi migratori.

Sbaglia, a mio avviso, e di molto, chi intravede nei fenomeni della Brexit e nella vittoria di Trump un segnale di speranza per le forze progressiste ovvero per i sostenitori di un’emancipazione dell’umano dalle catene dei Mercati. La mia impressione, rafforzata da una prevalente polarizzazione tra globalisti acritici e sovranisti nazionali, è che l’odierno passaggio storico rappresenti un assestamento (ancora incompleto e decisamente turbolento) nei rapporti interni fra le élite dominanti. Una guerra fra bande si sta svolgendo davanti ai nostri occhi e c’è perfino chi ritiene opportuno parteggiare per le une o per le altre.

Lo scontento di ampi strati popolari viene così manipolato e indirizzato verso soluzioni semplici e brutali. La Brexit e l’elezione del “nuovo” presidente U.S.A. sono leggibili, in tal senso, come eventi composti di due livelli di realtà diversi. Sul piano basso, quello dei “molti”, abbiamo registrato un misto di rabbia reattiva (tutt’altro che immotivata) diretto verso una classe politica incapace di regolare minimamente le contraddizioni generate dalla globalizzazione neoliberista e verso i “nemici” più facili da additare in queste circostanze: i poveri, i migranti, i non conformi da demonizzare per ridare corpo e confini a un’identità nazionale e comunitaria estremamente fragile. Ai piani alti, quelli dove alloggiano coloro che impiegano con arte il potere economico, finanziario, militare e il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, le élite hanno preparato il loro progetto di ripensamento (dei pochi e per pochi) degli attuali equilibri geopolitici.

La via intrapresa è tanto più chiara se seguiamo i quotidiani pronunciamenti di Trump, l’uomo forte che mantiene le sue promesse elettorali centrate sui princìpii di isolamento, protezionismo e segregazione. Il tentativo, disperato, è quello di salvare il capitalismo da un declino inarrestabile, cercando di compattare un nuovo consenso popolare attorno a poche mosse sostanzialmente di destra (su questo punto mi trovo in aperto dissenso da Marcello Foa e da altri commentatori che vedono in Trump il volto liquido di una politica non più incardinata negli assi tradizionali della destra e della sinistra).

La transizione in corso è quella che, da una globalizzazione astratta su base finanziaria, sta virando in direzione di un capitalismo di potenza inevitabilmente internazionale, ma giocato simbolicamente sull’importanza di ristabilire e rafforzare i confini (tra paesi, tra etnie diverse ecc.). Se come ha ben illustrato Pierluigi Fagan nel suo recente Verso un mondo multipolare (Fazi, 2017) assisteremo sempre più a negoziazioni e accordi bilaterali tra Stati, in barba alle logiche globaliste favorite da istituzioni mondiali e trattati a vocazione universale, ciò non significa, a mio avviso, che si possa tornare indietro nel tempo cancellando gli effetti, nella vita delle persone, degli ultimi trent’anni di indottrinamento liberista. Nell’analisi del cambiamento in corso raramente si pone attenzione ai fattori psicosociali e antropologici innescati dall’interdipendenza esplicita di tutti con tutti portata a compimento (seppure nella forma del dominio del denaro e della tecnica) dal cosiddetto finanzcapitalismo.

Gli scambi comunicativi attraverso internet, l’immaginario della crescita infinita, l’uniformità crescente negli stili di vita e di consumo, sono tutti fenomeni che hanno unificato a forza il pianeta e sono penetrati nella psiche di miliardi di persone. Le logiche separative attivate da un modo di vivere individualista e insostenibile non verranno attenuate o compensate da un richiamo generico allo Stato nazione, all’identità, alla protezione dei confini. Al contrario, la tendenza a dividersi, a distruggere l’Altro, a vivere solo secondo la guida dell’istinto di appropriazione, troverà un terreno già concimato per riprodursi. Non vedo in questo processo alcuna possibilità emancipativa, a meno che… A meno che una prospettiva finalmente internazionale, conscia del comune destino che ci lega agli altri e al pianeta Terra, non prenda vita e si diffonda come pensiero critico capace di ridefinire il rapporto tra l’Uno e i Molti, non sulla base di universalismi astratti o di ripiegamenti identitari, bensì in nome di un Comune che si tesse a partire dalle situazioni minime della vita quotidiana fino alla dimensione trascendentale dell’Intero, quella Gaia che tutte/i ci tiene in vita sostenendoci.

Alla luce di quanto detto è bene riconoscere e studiare il sintomo Trump, senza scambiare la malattia (oltremodo grave) per la cura. La patologia, piuttosto, deve essere un’occasione di conoscenza, di apertura a un nuovo che sia davvero tale, messa in discussione delle pessime abitudini che hanno concorso a danneggiare così profondamente la nostra salute democratica. Questa autocritica deve essere fatta, in tempi brevi e senza facili autoassoluzioni, soprattutto da quella sinistra che ha dato spazio al contagio collezionando una serie inarrestabile di errori politici e di sviste culturali, mancando l’appuntamento con la Storia e lasciandoci in balia di loschi figuri al servizio dell’ennesima ristrutturazione del Potere.

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