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Crolla il ponte, muore una città, cade un sistema

La caduta di quel ponte ha un’origine molto più profonda, nel tempo e nello spazio; non è stato solo un cedimento strutturale quanto più un cedimento morale. [Simone Lombardini]

Crolla il ponte, muore una città, cade un sistema
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21 Agosto 2018 - 11.23


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di Simone Lombardini

 

Il crollo del “Ponte Morandi” nella mia Genova non è stato un incidente fortuito. Non è stato un fulmine. Non è stata un po’ di pioggia. La caduta di quel ponte ha un’origine molto più profonda, nel tempo e nello spazio; non è stato solo un cedimento strutturale quanto più un cedimento morale. Costruito in pieno boom economico, quando l’Italia investiva in grandi opere pubbliche infrastrutturali, era diventato uno dei simboli della rinascita italiana, riscattata dal ventennio fascista e proiettata verso lo sviluppo economico; oggi il ponte del boom è diventato il ponte della morte, dell’incuria e della corruzione, ed è per questo che la sua caduta assume il valore simbolico della triste decadenza in cui versa il nostro paese. Un paese che ha rinunciato al proprio futuro avendo smesso di investire in infrastrutture, un paese senza un piano industriale ma che esporta i suoi talenti umani migliori a centinaia di migliaia ogni anno; un paese dove gli abitanti non fanno più figli, un paese che invecchia soltanto, immobilista e demoralizzato.

Copertina della Domenica del Corriere del 1 marzo 1964 dedicata al ponte Morandi.

La catastrofe del 14 agosto non è ascrivibile a un evento fortuito ma nemmeno a responsabilità meramente individuali indirizzabili a un manipolo di malfattori, sarebbe troppo facile in questo caso: migliaia tra operai, tecnici, ingeneri, geometri e architetti monitoravano il ponte ogni istante di ogni giorno fino al minuto prima del suo crollo, eppure il ponte è caduto comunque. Il fatto è parecchio nebuloso e non aiuta di certo la secretazione da parte del tribunale del filmato ufficiale di Autostrade per l’Italia che riprende per intero la dinamica del crollo (che nessuno ha visto). Tuttavia alcune osservazioni del sistema si possono già fare. Dal 2016 poi è nota alle autorità l’audizione parlamentare dell’architetto Mauro Coletta che denunciava le condizioni di lavoro della Vigilanza sulle concessioni: i dipendenti devono anticipare le trasferte di tasca loro attendendo 4-5 mesi prima di vedere il rimborso (e infatti dal 2011 al 2015 sono passate da 1400 a 850) ma cosa ancor più grave non hanno alcuna assicurazione legale contro i contenziosi giuridici che le concessionarie aprono quando essi segnalano irregolarità. E non sono poche le volte che ciò accade: dal 2012 al 2016, in soli 4 anni, si sono aperti 327 procedimenti di contenzioso. Nonostante tali impedimenti, i lavori per la ristrutturazione proprio del pilone crollato erano stati decisi, ma sarebbero partiti solo a settembre. Purtroppo la decisione è arrivata troppo tardi. Ed è questo il punto; il sistema di licenze, gare, deroghe, ricorsi e profitti adottato non è stato sufficiente a prevenire il disastro. Probabilmente però, cercheranno di chiudere la vicenda trovando in Tizio o Caio il colpevole, così che fatta giustizia prendendosela con qualche individuo, si preservi il sistema, permettendo che il banchetto dei porci continui. Ma la verità è che esiste una responsabilità che trascende gli individui e che mette in discussione direttamente il sistema, ossia come gli individui si organizzano in società e quali codici di comportamento economico legittimano.

Il sistema stesso degli appalti, tanto per cominciare, è una calamita di corruzione senza fine in cui  mangiano imprenditori, mafia e politici. Soprattutto per le medie e grandi opere edili, continuare ad adottare il sistema degli appalti pubblici è insensato; come si può credere che il decisore pubblico su una gara d’appalto miliardaria non possa venir “influenzato” dai colossi nazionali e multinazionali del mattone? L’indecenza è tale che ormai non è più nemmeno costretta a nascondersi ma diventa legge con lo “Sblocca Italia”, un decreto che ha concesso le opere pubbliche sotto i 5,2 milioni di euro ad affidamenti senza gara d’appalto, dove questi stessi limiti sono stati superati nel 50% dei casi analizzati dall’Anac oltre che aver concesso ampie proroghe proprio alle concessorie autostradali, ufficializzando di fatto il preesistente sistema mafioso di scambio di favori tra politici e grandi gruppi edilizi. Vogliamo poi mettere tutti i costi sostenuti dalla Pubblica Amministrazione per i ricorsi che puntualmente vengono impugnati dalle imprese che hanno perso la gara di appalto, qualora questa venga ancora fatta? E le lungaggini conseguenti che in attesa di risposta da parte del tribunale bloccano per mesi o anni i lavori?

Sarebbe molto più saggio costituire in sostituzione delle attuali imprese edili, enti pubblici edili locali organizzati in forma cooperativa, che si occupino di tutta l’edilizia, sia infrastrutturale sia residenziale, limitatamente al comune o area di competenza sotto un certo numero di abitanti. Dovrebbero essere enti senza scopo di lucro, ma col solo obiettivo di assolvere alle necessità edili espresse dal governo centrale e dalla popolazione locale, con il divieto di distribuzione degli utili che dovrebbero invece essere integralmente investiti per il rinnovo dei propri macchinari e del personale, così che sia spezzato l’incentivo negativo ad alzare i costi per distribuire utili ai pochi grandi azionisti e manager. Il prezzo dovrebbe essere concordato con l’amministrazione locale dotata di tecnici esperti di valutazione immobiliare/infrastrutturale per impedire la speculazione e se i costi finali risultassero gonfiati per inadempienza, i lavoratori e gli amministratori da essi eletti (e non dai politici), dovrebbero essere finanziariamente responsabili, almeno parzialmente, così che siano incentivati a lavorare con onestà e professionalità. In tal modo i governi locali e il governo centrale potrebbero rispondere immediatamente, senza lungaggini o corruzione, alle esigenze edili insorte, contando su enti pubblici edili responsabili e professionali.

Veniamo poi al sistema dei mercati internazionali, che anche in questa vicenda non si risparmia di intervenire con la sua rigida disciplina antisociale. Alle dichiarazioni del governo di prendere in considerazione l’eventualità di ritirare la concessione ad Autostrade per L’Italia s.p.a., immediata è la reazione dei mercati: il titolo in borsa crolla; i mercati internazionali si innervosiscono, sale la tensione, cade l’intera borsa coinvolgendo anche gli altri settori del paese; insomma è subito il finimondo. Tutta la vicenda è emblema delle contraddizioni del sistema. Autostrade per l’Italia è un’impresa privata, controllata al 100% del capitale sociale da Atlantia, la capogruppo anch’essa privata, che opera nello stesso settore anche in Brasile, Cile, India, Polonia e gestisce gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino in Italia e altri tre aeroporti in Francia. Questo colosso internazionale, espressione della globalizzazione capitalistica, aveva firmato addirittura un accordo segretato con il governo precedente per la gestione delle nostre autostrade italiane. Questo vuol dire che noi cittadini della Repubblica non avremmo potuto leggere le clausole del contratto che il nostro governo finanziato con le nostre tasse aveva concluso con un privato. Il che già è assurdo. Come se non bastasse poi gli azionisti della società hanno subito dichiarato, in risposta alle dichiarazioni del governo sul ritiro della concessione, che “a noi spetta il valore residuo della concessione”, avvertendo che se necessario richiederanno l’intero “indennizzo” per mancato profitto pari a 20 miliardi di euro. Ma la cosa più assurda è che Atlantia, per far valere i propri “diritti”, potrebbe rivolgersi a un arbitrato internazionale della Banca Mondiale (International Center for Settlement of Investment Disputes, ICSID) al quale non potremmo sottrarci perché anche noi siamo nella Banca Mondiale. Di fronte all’ICSID , Atlantia potrà chiamare in causa il nostro paese per mancato profitto, costringendoci in caso le venisse data ragione, a risarcirla, esattamente come è successo in Germania quando i tedeschi hanno dovuto pagare 2 miliardi di euro alla Vattenfall (e altri 3 ad altre imprese dello stesso settore) per aver scelto di uscire dal nucleare dopo i fatti di Fukushima. Ora, non si possono demonizzare questi azionisti oltre un certo punto perché il loro comportamento riflette ciò che la legge si attende da investitori privati orientati al profitto. Se si comportano così non lo fanno necessariamente perché vogliono “punire” ma semplicemente perché non sono filantropi e se investono lo fanno per vedere incrementati i propri rendimenti. Pertanto ai primi segnali di pericolo i capitali è ovvio che si rivolgeranno verso titoli più sicuri e questo non può cambiare perché è l’unico modo dei mercati di funzionare. Pertanto o contestiamo che soggetti privati mossi da interessi economici particolari possano controllare a proprio vantaggio produzioni di interesse collettivo, oppure non ha alcun senso strapparsi le vesti.

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Il crollo di Atlantia in borsa.

Il crollo del ponte Morandi però è anche responsabilità dell’ideologia alla base delle spending review e delle conseguenti ideologie statofobiche che in nome dell’iniziativa privata e del libero mercato hanno fatto piazza pulita dell’intervento pubblico economico imprigionando le capacità di manovra dei governi europei entro stretti e assurdi vincoli di bilancio imposti da trattati mai votati o discussi pubblicamente. Sono quasi trent’anni che dissanguano il risparmio privato con avanzi primari di bilancio per ripagare inesauribili interessi su interessi su un debito infinitamente crescente detenuto quasi esclusivamente dalle banche. Il debito oggi ci costa 70 miliardi solo di interessi ogni anno, altri 30 miliardi vanno nelle spese militari per restare nella NATO, e a questi vanno aggiunti i fondi da destinare alla riduzione del debito pubblico che secondo Maastricht dovrebbero costarci decine di miliardi l’anno. Per sostenere tutte queste spese totalmente inutili dal punto di vista della società, ma perfettamente funzionali ai percettori delle rendite del grande capitale, hanno tagliato un pò in tutte le direzioni: trasporto pubblico, infrastrutture, scuole, sanità.

E nonostante tutta questa macelleria sociale, imperterrita, l’Europa dei vincoli fiscali non retrocede di un passo, e di fronte alla proposta del governo di mettere in campo fino a 50 miliardi di euro di investimenti sulla sicurezza delle infrastrutture, anche a costo di sforare i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, Bruxelles ha risposto a stretto giro, con il più gelido dei rifiuti. “L’Italia è uno dei principali beneficiari della flessibilità all’interno del patto di stabilità e crescita”, afferma Jean-Claude Juncker, spiegando di non voler entrare in “uno scambio politico di accuse”, stroncando di netto qualsiasi discussione. Di questo passo ci saranno altri 100 ponti Morando, perché quelle grandi opere infrastrutturali risalgono tutte all’incirca alla stessa epoca ed erano pensate per durare sino a non più di 50 anni; oramai andrebbero ricostruite. E oltre alle grandi opere infrastrutturali ci sarebbero da mettere in sicurezza tutte le case costruite nel boom economico, totalmente al fuori dei vincoli edilizi antisismici. Ci sarebbe tanto di quel lavoro da fare che è un assurdo avere ancora 3 milioni di disoccupati. E non è vero che mancano i soldi perché per la guerra e le rendite dei banchieri i soldi ci sono; inoltre è il lavoro che genera ricchezza e non la ricchezza che dà lavoro! È chiaro che la disoccupazione, di fronte a così tante esigenze sociali e bisogni da soddisfare, non sia una fatalità esterna alla volontà umana, quanto piuttosto una condizione da mantenere nel tempo per ridurre il potere contrattuale della manodopera dipendente.

Giri di denaro.

Bisogna allora  ricostituire gli enti pubblici economici che perseguendo il mero equilibrio finanziario (costi pari ai ricavi), soddisfino le direttive emesse dal governo centrale e bisognerebbe che il governo dia avvio a un piano di ammodernamento infrastrutturale continuo. Già, perché un mero piano emergenziale non può essere una soluzione lungimirante; viceversa sarebbe saggio imbastire un piano permanente che nel continuo innovi, ammoderni e ricostruisca le proprie infrastrutture, senza interruzione, proprio perché senza sosta è l’effetto degli agenti atmosferici sulle stesse. Ed è altresì necessario un cambio nelle modalità, finalità e organizzazione del modo di vivere e fare impresa: da uno individualista e autocratico a uno comunitario e democratico. E lo stesso dovrebbe valere per le altre aziende strategiche del paese come ferrovie, telecomunicazioni, energia, acqua, edilizia residenziale, automobilistica, trasporto pubblico locale, industria del riciclo e trattamento rifiuti. Servono miliardi di investimenti, milioni di nuovi posti di lavoro e un cambio di paradigma radicale, che ci porti dal sistema del profitto privato (alias Dio Denaro) verso un sistema di fare economia ispirato finalmente al servizio comune. Senza il riconoscimento di tale necessità è perfettamente ipocrita indignarsi di fronte a questa immane tragedia.

 

(19 agosto 2018)

 

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