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Di che Tfr sei?

Tfr in busta paga: un magistrale esercizio di marketing politico. [Guglielmo Forges Davanzati]

Di che Tfr sei?
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17 Ottobre 2014 - 08.33


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di Guglielmo Forges Davanzati La riforma del mercato del lavoro che il Governo si accinge a varare presenta il contratto unico a tutele crescenti come il superamento della precarietà, e l’anticipazione del TFR in busta paga come un aumento dei redditi dei lavoratori. Ma, in entrambi i casi, si tratta di provvedimenti che si muovono nella direzione opposta a quella annunciata.

Il dibattito di politica economica in Italia ha subìto una fortissima accelerazione nel corso dell’ultimo mese sui temi della “riforma” del mercato del lavoro. A fronte del fatto che pressoché tutti i commentatori concordano che non si crea lavoro con un tratto di penna, occorre chiedersi innanzitutto per quale ragione sono state investite tante energie nella diatriba sull’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori (di fatto, peraltro, già superato dalla c.d. riforma Fornero del 2012), e ci si accinge a investirne ulteriori per discutere dei possibili effetti dell’inclusione in busta paga del trattamento di fine rapporto (TFR) e del contratto di lavoro a tutele crescenti.

Al netto della dialettica politica interna al PD che è alla base delle priorità che il Governo intende dare alla sua azione, si può rilevare che la centralità assegnata dal Governo alla riforma del mercato del lavoro rientra in una strategia di respiro non propriamente alto, per la quale, come ha dichiarato il Ministro Poletti, occorre presentarsi a Bruxelles dichiarando di “aver fatto delle cose”. Sembra di capire, indipendentemente dalla bontà di quello che si è fatto, ma a condizione di aver fatto qualcosa che si possa definire una “riforma”.

Si tratta, peraltro, di temi annunciati dal Governo, sui quali non esiste, al momento, un’indicazione certa, con l’ovvio esito di generare il proliferare di interpretazioni talvolta fuorvianti.

Per provare a mettere ordine nel discorso, è opportuno porre due punti fermi. Le “riforme” del lavoro messe in atto in Italia negli ultimi anni sono state propagandate con due assiomi: il mercato del lavoro italiano non premia il merito, ed è duale nel senso che vede contrapposti lavoratori iperprotetti e lavoratori precari. E’ bene chiarire che si tratta di due assiomi molto discutibili.

In primo luogo, non è esattamente chiaro, al di là degli slogan, cosa si intende per merito. Non si tratta di una disquisizione sui massimi sistemi, ma di un passaggio tecnico ineludibile per impostare un’eventuale (ulteriore) riforma del mercato del lavoro. La capacità di un lavoratore di svolgere bene una determinata mansione può dipendere da una molteplicità di fattori che esulano del tutto dal suo personale impegno: i lasciti ereditari, il grado di scolarizzazione della famiglia di provenienza, a titolo esemplificativo, esercitano un’influenza rilevante sulle abilità dei singoli, del tutto indipendentemente dal loro sforzo individuale.

In secondo luogo, è vero che il mercato del lavoro italiano è duale, ma non nel senso che vede contrapposti lavoratori anziani iperprotetti e lavoratori giovani privi di garanzie. Il mercato del lavoro italiano è duale perché in esso sono presenti individui con reti relazionali forti, che riescono a ottenere più facilmente un’occupazione solo in virtù delle conoscenze che le loro famiglie hanno, e individui privi di relazioni informali tali da garantire loro facile accesso al mercato del lavoro, buone condizioni di lavoro ed elevate retribuzioni.

Nel merito delle riforme annunciate, si possono porre le seguenti considerazioni:

1) Il contratto di lavoro a tutele crescenti, parte integrante del c.d. jobs act, per il quale il costo del licenziamento individuale cresce al crescere dell’anzianità di servizio, presenta almeno due criticità. In primo luogo, se l’impianto dell’intera riforma del mercato del lavoro vuole fondarsi su basi meritocratiche, non si capisce per quale ragione un lavoratore anziano debba avere più tutele di un lavoratore giovane, solo appunto perché più anziano. In secondo luogo, non è ancora chiaro se questa tipologia contrattuale sostituirà – per le nuove assunzioni – il tradizionale contratto a tempo determinato. Se così stanno le cose, si tratta di un ulteriore impulso all’attuazione di politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, non, come viene detto, di misure di contrasto alla precarietà.

2) La recente proposta di inclusione in busta paga del TFR (per quanto è dato sapere, su richiesta dei singoli lavoratori) è anch’essa alquanto discutibile. Le criticità, in questo caso, sono fondamentalmente le seguenti.

In primo luogo, come è accaduto per il provvedimento che ha aumentato di ottanta euro gli stipendi mensili di una platea ristretta di lavoratori, c’è da aspettarsi che l’aumento delle retribuzioni non si traduca in misura significativa in un aumento dei consumi. Ciò a ragione del fatto che, con aspettative pessimistiche, l’aumento dei salari può tradursi semmai in maggiori risparmi a fini precauzionali.

L’ISTAT attesta un aumento della propensione al risparmio e un aumento dei risparmi complessivi, che sono passati dai 20 miliardi del 2012 ai 26 miliardi di euro nel primo trimestre del 2014, con un incremento del 26.7% in termini reali, e a fronte della riduzione dell’1.2% dei redditi disponibili nel medesimo periodo e della riduzione del tasso di inflazione. Si tratta, con ogni evidenza di risparmio precauzionale finalizzato a far fronte a eventi futuri percepiti come sempre più incerti, soprattutto in considerazione del fatto che i tassi di interesse sui depositi a breve termine sono irrisori. A ciò si può aggiungere che, con tassazione effettiva o attesa in aumento, la probabilità del verificarsi di questo effetto [url”è ancora maggiore”]http://www.istat.it/it/files/2014/05/cap1.pdf[/url].

In secondo luogo, il provvedimento si configura come anticipazione del salario differito e, dunque, [url”non è una fonte aggiuntiva di reddito”]http://www.controlacrisi.org/notizia/Lavoro/2014/10/3/42557-il-tfr-in-busta-paga-il-danno-oltre-la-beffa/[/url] [1]. Si può osservare che l’impatto della misura potrebbe essere molto modesto, per quanto attiene alla crescita dei consumi, in considerazione della duplice constatazione che la propensione al consumo tende a essere più elevata per gli individui più giovani[2] e che, in Italia, è estremamente ristretta la platea di lavoratori giovani che potrebbero usufruire dell’anticipazione del TFR.

In terzo luogo, il TFR viene utilizzato da molte imprese come principale fonte di autofinanziamento degli investimenti. Soprattutto in un contesto di restrizione del credito bancario, privarle di questi fondi significa rendere ulteriormente difficile la realizzazione di nuovi investimenti, e, per quanto riguarda i lavoratori, tenere il TFR in azienda costituisce un deterrente al licenziamento, dal momento che è ragionevole attendersi che un’impresa che decida di licenziare opterà verosimilmente per i lavoratori ai quali non deve corrispondere la liquidazione[3].

Occorre poi sottolineare che l’aumento dei redditi derivante dall’anticipazione del trattamento di fine rapporto significa maggiore tassazione, dal momento che il TFR è oggi tassato meno del reddito da lavoro[4]. Si stima, a riguardo, che nel caso in cui l’anticipazione riguardasse tutti i lavoratori occupati, le entrate fiscali ammonterebbero a oltre cinque miliardi. Desta, peraltro, molte perplessità l’ipotesi di far gestire questa operazione al sistema bancario, dal momento che non è affatto chiaro, al momento, per quale ragione un Istituto di credito dovrebbe farsene carico.

Per quanto è possibile ora capire, le banche (le sole banche che aderiranno al protocollo siglato con il Governo) svolgeranno, per così dire, una funzione di ‘tesoreria’: erogheranno i finanziamenti alle imprese nel caso i loro dipendenti richiedano l’anticipazione del TFR, e, in caso di insolvenza, saranno rimborsate da un fondo di garanzia statale, che consentirà loro di non subire aggravi patrimoniali. E desta anche molte perplessità l’impatto che l’anticipazione del TFR potrebbe avere sulle detrazioni delle quali attualmente i lavoratori beneficiano, a ragione di un aumento del loro ISEE.

Va anche ricordato che l’incidenza della produzione industriale sul Pil, in Italia, è in costante riduzione. Su fonte ISTAT, si registra una flessione della produzione industriale pari a -3.2% nel 2013 e pari a -6.4% nel 2012. In questo scenario, l’aumento dei consumi – nel caso si verifichi – potrebbe in larga misura tradursi in un aumento delle importazioni, riducendo ulteriormente la domanda interna. L’effetto esattamente opposto a quello che il Governo si attende.

Vi è, infine, una considerazione di carattere più generale, sulla quale occorre soffermarsi. La sostanziale abdicazione dell’operatore pubblico a farsi carico della retribuzione dei lavoratori all’atto della cessazione del rapporto di lavoro costituisce la certificazione del principio secondo il quale la gestione dei fondi pensionistici deve rientrare nella sfera delle libere scelte individuali, non solo con riferimento al quando spendere i propri risparmi, ma anche al dove allocarli, ovvero se destinarli alla previdenza pubblica o ai fondi pensione.

Il Presidente Renzi ha legittimato questo indirizzo con il suggestivo argomento dello Stato non più “paternalista”, tacendo sul fatto che, nel primo caso, è lo Stato, non i singoli, a poter meglio pianificare l’allocazione dei risparmi a fini pensionistici (a ragione della “miopia” che può caratterizzare le scelte individuali) e, nel secondo caso, che la relazione fra singolo risparmiatore e Istituto privato di gestione dei fondi pensionistici non si svolge in condizioni di parità contrattuale, se non altro per la minore “alfabetizzazione finanziaria” del risparmiatore.

Ma, al di là dei discutibili aspetti tecnici dell’operazione, assimilabile alla “finanza creativa” di tremontiana memoria, vanno riconosciute al Governo notevoli competenze di marketing politico: impinguare la busta paga genera verosimilmente un immediato effetto di illusione monetaria che tende a indurre i lavoratori a identificare un incremento monetario del loro reddito in un incremento del loro reddito reale disponibile; a fronte del quale il Governo otterrà maggiori entrate fiscali (via imposizione sul salario differito) e compirà un passo ulteriore verso quello che è stato definito il “[url”capitalismo dei fondi pensione”]http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/10/10A20001011.html[/url]”.

(16 ottobre 2014)

NOTE

[1] Per un inquadramento teorico della questione, si rinvia a S.Cesaratto, Pensions reforms and economic theory, Northampton: Elgar, 2005.

[2] Cfr, fra gli altri, S.Enlandsen and R.Nyoen, Consumption and population age structure, “Journal of Population Economics”, 2008, pp.505-520.

[3] V. T.Boeri, Il TFR di Pantaleone, “La Repubblica”, 13 ottobre 2014.

[4] Il prelievo sui rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell11.5%, mentre il TFR in busta paga sarebbe soggetto a una tassazione di circa il 23%.

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