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Quali sacrifici, tra Covid e maggior gloria del capitale?

Il tweet del 'governatore' ligure Toti su anziani e Covid ha il pregio di chiarire una serie di retropensieri che si agitano da tempo nel discorso politico contemporaneo. [Andrea Zhok]

Quali sacrifici, tra Covid e maggior gloria del capitale?
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2 Novembre 2020 - 11.27


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di Andrea Zhok.

Il tweet di ieri del governatore della Liguria Toti ha avuto il pregio di mettere in tavola con chiarezza una serie di retropensieri che si agitano da tempo nel discorso politico contemporaneo.
Il tweet recitava:
“Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate.”
Qui troviamo insieme due punti, uno tecnico, legato ad una proposta di ‘soluzione’, e uno ideologico, legato agli ordini di valore.
Il punto tecnico è, nella sua vaghezza, quello stesso che è stato promosso pochi giorni fa dalla Voce.it, e sostiene che per evitare i problemi del Covid basterebbe ‘proteggere le fasce deboli’.
Ora, come sempre accade, finché si lascia un argomento nella sua indeterminazione e genericità se ne può sempre dare una lettura plausibile.
Ma quando si parla di politica bisogna chiarire la sostanza materiale delle proposte.
Se l’idea è proteggere TUTTI i soggetti potenzialmente a rischio questo appare immediatamente una meta impossibile, per il banale motivo che non sappiamo esattamente quali siano i soggetti a rischio. Per quanto siano una minoranza, c’è un congruo numero di casi gravi o mortali di persone non anziane e senza patologie pregresse (basta ricordare il caso 1 di Codogno).
Ma naturalmente si può avere un obiettivo più modesto, ovvero non quello di proteggere tutti, ma di proteggere il maggior numero. Questo sembra avere senso: visto che il principale problema che ci troviamo ad affrontare è quello di un collasso del sistema ospedaliero, se proteggiamo il maggior numero evitiamo il collasso.
Il problema successivo da affrontare è dunque dove tracciamo la linea di quelli da proteggere.
Se la tracciamo in maniera comprensiva, includendo la stragrande maggioranza dei casi, dovremmo porre la linea intorno ai 50 anni di età. Così proteggiamo il 99% delle persone.
Ma questa linea si presenta immediatamente come catastrofica: in Italia – dove ci hanno spiegato per anni che oramai il sessantenne è nel fior fiore degli anni e ha un’ubertosa vita lavorativa davanti – abbiamo una delle età medie del lavoro più alta al mondo: il 34.1% della popolazione lavorativa ha più di 50 anni. Pensare di mettere dunque la stragrande maggioranza in sicurezza significa bloccare il paese come, se non peggio, di un lockdown.
Si può pensare allora ad un piano più modesto, ovvero incidere sul grosso del gruppo, escludendo le fasce ancora impegnate sul piano lavorativo. Questo piano sembra sostenibile: l’85% dei decessi copre le fasce sopra i 70 anni, che sono anche fasce quasi assenti sul piano lavorativo.
Naturalmente, si deve sempre tener conto che il numero dei decessi non è una fotografia per età degli occupanti di posti letto e terapie intensive: molti pazienti in età più giovane sono comunque presi in carico dal sistema ospedaliero, ma con esiti più positivi. Ad ogni modo proteggere le fasce coinvolte nelle forme più gravi promette di ridurre in modo cospicuo l’impatto sul sistema.
Il problema che si pone a questo punto è: cosa vuol dire ‘proteggere gli ultrasettantenni’? Partiamo di nuovo dai numeri: quanti sono gli ultrasettantenni in Italia? Ad oggi sono circa 10 milioni.
Cosa vorrebbe dire ‘proteggere’ dieci milioni di persone?
E’ subito ovvio che non può significare fornire a ciascuno un ricovero separato da qualche parte (es: una stanza di albergo). Innanzitutto non esistono quelle capienze (il totale di posti letto in strutture alberghiere e paraalberghiere in Italia al 2016 era di 4.942.000 posti letto (non stanze, posti letto).
In ogni caso sarebbe uno sforzo economico ed organizzativo mostruoso.
Dunque che cosa si può intendere per ‘mettere al sicuro’?
Sembra che ciò che molti abbiano in mente sia la chiusura in casa degli ultrasettantenni.
E qui abbiamo i seguenti scenari.
In Italia il 17% degli anziani vive in famiglia, il 3% in case di riposo e l’80% circa vivono autonomamente.
Quelli che vivono in famiglia difficilmente possono essere ritenuti ‘protetti’ se rimangono in casa, visto che naturalmente le altre persone che entrano ed escono li espongono.
Situazione abbastanza simile si è dimostrato avvenire per i residenti in case di riposo, per quanto qui in linea di principio la protezione potrebbe essere più accurata.
Quanto all’80% che vive autonomamente, cosa comporterebbe ‘metterli in sicurezza’? Chiuderli in casa e fargli arrivare i rifornimenti dal supermercato? A otto milioni di persone su tutto il territorio nazionale? Per quanto tempo?
Dovrebbe risultare chiaro che nessuno ha idea di cosa possa significare davvero qui ‘mettere in sicurezza’. E neanche interessa molto chiarirlo, perché il punto non sta nel ‘mettere in sicurezza’, ma nel ‘mettere da parte’.
Mi sono soffermato sulle tecnicalità almeno prima facie coinvolte nel problema di ‘mettere in sicurezza le persone più deboli’ perché questo aiuta a capire meglio il senso profondo del tweet di Toti e di tutta la miriade di pensieri simili che si muovono nelle menti di molti concittadini.
La semplice verità è che di tutte quelle tecnicalità nessuno ha pensato di preoccuparsi perché sono essenzialmente irrilevanti, semplicemente fastidiose.
L’unica immagine attrattiva che hanno davanti agli occhi è quella in cui possiamo mettere fuori scena (ob-scenus) l’imbarazzante problema di tutta questa gentaglia improduttiva che ha bisogno di cure e vuole vivere, mentre io c’ho da andare a lavorare.
Il tweet di Toti si limita ad esplicitare lo spirito profondo del periodo storico in cui viviamo, dove vivere è una funzione accessoria del produrre.
In ciò non c’è niente di strano. Dal punto di vista di ciascun singolo agente economico il messaggio ideologico introiettato è che l’unico senso e dignità di ciò che sei sta nella tua ‘produttività’, la quale si dovrebbe rispecchiare (idealmente) nel tuo reddito.
In questa prospettiva è semplicemente ovvio che ogni discorso che mini questa visione di sé e del proprio ruolo è praticamente una bestemmia, un abominio.
ll problema di questo, come di altri problemi collettivi (ad es. quelli ecologici) è che possono essere affrontati solo secondo due agende di fondo.
Un’agenda concepisce la produzione come fine e la vita come mezzo, l’altra viceversa, la vita come fine e la produzione come mezzo.
Se la produzione è un mero mezzo, allora devi assumere che il ritorno al business as usual non è un fine, e che devi creare le condizioni per mettere la vita al centro della scena. E questo significa accettare sacrifici redistribuendone i carichi secondo giustizia, e significa soprattutto concepire il denaro (il ‘credito’) come un mezzo da mettere a disposizione delle attività umane, e non viceversa.
In quest’ottica tutto il peso della discussione dovrebbe dunque andare in due direzioni: quella della creazione di liquidità necessaria a sostenere i sacrifici, e quella dell’accettazione di sacrifici che reindirizzano la forma di produzione, redistribuendo gli oneri richiesti.
Se invece la produzione è il fine, tutto il resto sono detriti, ingombri, e a qualunque cosa io possa aggrapparmi per ritornare al più presto al business as usual lo farò. In questa prospettiva ciò che fondamentalmente pensi vada sacrificato – anche se magari ti trattieni dal dirlo – sono le vite ‘improduttive’.
Questa visione è quella che crea bizzarre alleanze trasversali che spaziano dai Toti, a Confindustria ai ‘negazionisti’ (sedicenti ‘libertari’). Tutta questa gente, qualunque cosa dica, qualunque cosa creda di pensare, è in effetti semplicemente un ingranaggio del sistema che rende ogni vita spendibile a maggior gloria del capitale.

Fonte: https://www.facebook.com/andrea.zhok.5/posts/1690932161088176.

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