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Apprendisti stregoni

Nessun apprendista stregone può ricacciare nella bottiglia del solo Medio Oriente questa conflagrazione, uno dei sottoprodotti del mondo globale. [Gian Paolo Calchi Novati]

Apprendisti stregoni
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16 Dicembre 2015 - 21.54


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di Gian Paolo Calchi Novati

L”articolo è stato pubblicato sul quotidiano [url”il manifesto”]www.ilmanifesto.info[/url] il 17 novembre 2015.

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Da quando gli Stati Uniti e l’Europa sono impegnati così direttamente e così
pesantemente, la «guerra» non potrà più avere come solo teatro operativo il Medio Oriente.
Quando si evoca l’Apocalisse tutto diventa lecito. Francis Coppola, per dare un tono di particolare
drammaticità all’evento, collocò l’Apocalisse nella giungla del Vietnam, ma senza nascondere che si
trattava pur sempre di un episodio della strategia del neo-imperialismo americano nell’era della
guerra fredda per tenere sotto controllo l’equilibrio fra i blocchi sul confine della Cina.
I toni appunto «apocalittici», usati ampiamente per descrivere la notte dei fuochi di Parigi, il
fanatismo, la barbarie, non possono far passare in secondo piano il contesto reale: la storia, la
politica, i rapporti di forza fra gli attori in loco, nella regione e nel mondo.

Seguendo le affannose e mediocri immagini televisive di quel 13 novembre c’era chi si rifiutava di
accettare che Parigi potesse essere o diventare come Beirut – veniva in mente Beirut perché la
capitale del Libano il giorno prima era stata teatro di un attentato che, con le debite proporzioni fra
la popolazione delle due città, aveva provocato un numero di morti dieci volte superiore – ma altri
pensavano alle bombe incendiarie su Baghdad, Aleppo o Tripoli di un recente passato.
La rottura più netta che si è prodotta con la guerra che per comodità viene detta fra Occidente
e jihadismo, soprattutto in quest’ultima congiuntura, riguarda lo spazio. Da tempo immemorabile le
guerre fra Nord e Sud si sono combattute fuori dell’Europa. In Europa non si ricorda a memoria
d’uomo o di storia un’invasione in casa propria da parte di un paese terzo non europeo (includendo
i turchi). Gli Stati Uniti brillano per una semi-impunità storica, con le due eccezioni, sia pure
clamorose, di Pearl Harbour e delle Torri Gemelle, con un intervallo di sessant’anni e in entrambe le
occasioni senza nessuna violazione di sovranità sul terreno.

Senza tornare ai tempi del colonialismo, anche le guerre dell’immediato dopo-colonialismo sono
state combattute in Africa o in Asia: l’Algeria, il Vietnam, i possedimenti portoghesi. Le guerre si
svilupparono per intero in perimetri esterni (a meno di non considerare come fronte «interno» le
coscienze dei patrioti che difendevano i «nostri valori» condannando e avversando le scelte dei
rispettivi governi). Il contraltare della resistenza dei vietcong in America era il campus delle
Università della California. Quando nel 1961 la sezione francese del Fln organizzò una grand
manifestazione a Parigi per accelerare la fine della guerra d’Algeria giunta al settimo anno, le forze
di polizia francesi soffocarono in poche ore la canaille e il prefetto Papon fece gettare nella Senna
i corpi degli arabi senza distinguere bene fra morti, feriti o vivi. Si deve al coraggio di un sindaco
socialista di Parigi se da qualche anno una lapide posta sulla spalletta del fiume in fondo a Boulevard
St Michel ricorda l’eccidio.

Le guerre coloniali o paracoloniali avevano un progetto istituzionale preciso e identificato:
mantenere il potere della madrepatria contro i «ribelli» o difendere un governo amico, magari
cambiato più volte anche con mezzi spicci come accadeva a Saigon e in parte a Kabul e più tardi
a Baghdad. Le guerre Nord-Sud del post-bipolarismo hanno per lo più un obiettivo destruens: far
cadere un regime, provocando un Putsch al suo interno o contrapponendogli un movimento
insurrezionale più o meno spontaneo e che per decenza i suoi «padrini» non possono aiutare troppo
scopertamente. La scena resta la stessa. Stati Uniti e potenze Nato agiscono fuori dei propri confini
e, se ci sono, i contraccolpi interni sono limitati. È avvenuto soprattutto in relazione al contenzioso
arabo-israeliano: il Blitz di Settembre nero alle Olimpiadi di Monaco, attentati isolati a un aeroporto,
qualche dirottamento aereo (fra terra e cielo).

Dall’inizio del nuovo secolo quasi tutte le guerre sono concentrate in quello che Bush chiamava il
Grande Medio Oriente e che per la diplomazia internazionale è l’area Mena (Middle East North
Africa). Una successione iniziata con l’Afghanistan e continuata con l’Iraq. Le cause dei vari conflitti
sono molteplici e sarebbe impossibile darne conto qui in modo esauriente. Nel 2011 è intervenuta la
scossa delle Primavere arabe, che sembrava destinata a inaugurare una fase di democratizzazione
ma che ha finito per determinare una totale destabilizzazione prima del Nord Africa e poi dell’intero
Medio Oriente, decretando l’indebolimento e la quasi sparizione dei due stati che ospitano Damasco
e Baghdad, le capitali dei Califfati storici.

È in questo sconvolgimento di potestà, frontiere e alleanze, in larga misura provocato più o meno ad
arte dall’esterno, che ha preso corpo il cosiddetto Stato islamico fra Iraq e Siria con la duplice
funzione di coordinare azioni di terrorismo sulle lunghe distanze e – a differenza di quanto accadeva
con al-Qaida – di amministrare un territorio più o meno omogeneo con una popolazione, servizi e una
specie di governance.

Invece che esaurirsi essenzialmente nelle dinamiche interne, la politica del regime change ha
assunto ormai gli aspetti di una ingerenza diretta (e sconclusionata) della Nato con l’appoggio di
alcuni stati arabi (che spesso praticano il più spregiudicato doppio gioco). Con l’impresa imposta agli
Stati Uniti (e all’Italia) da Sarkozy e Cameron in Libia tutti i freni sono caduti. Lo sfacelo della Libia
dopo Gheddafi è solo l’accidente il più gratuito e doloroso. La catastrofe dell’Egitto, il potenziale
pilastro di tutto il sistema, ha aperto un «buco» senza fondo perché – a parte l’ovvio disincanto della
Fratellanza musulmana in tutto lo scacchiere (dove non è stata messa fuori legge) – ha reso sempre
meno credibile l’alternativa democratico-rappresentativa al posto del ricorso sistematico alla forza.
Adesso si cita la Tunisia come success story ma anche a Tunisi i problemi potrebbero non essere
finiti (se non altro per contagio dalla Libia).

La «madre di tutte le tragedie» è diventata però dal 2011 la Siria. La sua posizione centrale e le sua
natura di mosaico di minoranze la rendono l’obiettivo di tutti gli appetiti. Assad è l’ultimo alleato di
Putin in Medio Oriente. Hollande ha creduto di compiere il salto di qualità, probabilmente
guardando da una parte agli Usa e dall’altra appunto alla Russia. I risultati di questo protagonismo,
fin troppo esibito e vantato, finora sembrano disastrosi per tutti. L’inquilino dell’Eliseo sconta anche
la contraddizione – che non è solo sua perché l’aiuto tattico fornito agli estremisti islamici da parte
degli stessi Stati Uniti d’accordo con i servizi pakistani incominciò ai tempi della resistenza
anti-sovietica in Afghanistan – di aver prima aiutato le formazioni islamiste e poi di aver cambiato
bersaglio.

Piangiamo tutti insieme i morti di Parigi. Nessuno può tuttavia far finta di ignorare che è nell’area
arabo-islamica che si fa sentire il peso maggiore della guerra. La raffigurazione dei bombardieri
occidentali che colpiscono solo obiettivi militari a confronto delle stragi di civili commesse dai
terroristi non dice tutta la verità. Prima e dopo l’Isis, milioni di persone hanno lasciato quelle terre
per sfuggire alla guerra senza curarsi troppo di «buoni» e «cattivi». Ci sono contendenti domestici.
Ci sono le rivalità fra gli stati della regione. C’è il contrasto fra sunniti e sciiti. Ma sempre e ovunque
spicca la «forza» esibita, agita, minacciata dalle potenze occidentali con i loro raids, altrettanto
mortiferi per la popolazione delle scorribande e dei crimini dell’Isis e che la propaganda del Califfo
sfrutta a suo vantaggio. Da quando Stati Uniti e Europa sono impegnati così direttamente
e pesantemente la «guerra» (serve poco derubricarla a terrorismo sul versante del nemico perché
essa è e rimane comunque asimmetrica) non potrà più avere come solo teatro operativo il Medio
Oriente. Nessun apprendista stregone può ricacciare nella bottiglia del solo Medio Oriente questa
conflagrazione, uno dei sottoprodotti del mondo globale, come gli spostamenti massicci di
popolazioni, i flussi di profughi e la circolazione delle informazioni, che investirebbe l’Europa anche
se non ci fossero i neo-adepti reclutati da Daesh, sia esso in crescita o, come sostengono alcune fonti,
potrebbe essere invece, sulla difensiva un po’ ovunque.

Anche prima della recente escalation, da quasi dieci anni Usa e alleati sono impelagati in Iraq
e chissà da quanto in Afghanistan. Non solo violenze, manomissioni, totale dispregio dei diritti più
elementari ma incapacità ormai acclarata di far emergere e tanto più consolidare lo stato che si
diceva di voler riformare o ammodernare per far fronte alle sfide della globalizzazione. Anni fa fallì
anche l’operazione Restore Hope in Somalia. La presunta coalizione anti-Isis è divisa al suo interno
da profonde divergenze (pro o contro Assad, Iran sì o Iran no, pro o contro una patria curda
trasversale, ecc.), ma la diplomazia ha sicuramente più chances della guerra, che, per definizione,
può solo distruggere. Si deve alla diplomazia del resto l’unica mezza intesa che in questi anni sia
stata raggiunta sulla Siria con la distruzione dell’arsenale chimico del regime del Baath.

(17 novembre 2015)

© Gian Paolo Calchi Novati © 2015 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE.

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