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La battaglia per Mosul e la spartizione dell'Iraq

Il vero scopo della battaglia nella grande città irachena controllata dall’ISIS non è liberarla ma decidere se, come e tra chi si dovrà spartire l’Iraq a guerra finita

La battaglia per Mosul e la spartizione dell'Iraq
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21 Aprile 2017 - 21.54


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di Fulvio Scaglione.


A differenza di quanto si vuol far credere, il vero scopo della battaglia di Mosul, il grande centro iracheno della Piana di Niniveh che dal luglio 2014 è controllato dall’Isis, non è liberare la città ma decidere se, come e tra chi si dovrà spartire l’Iraq a guerra finita.

Far fuori i miliziani di Al Baghdadi da Mosul è impresa che la grande coalizione internazionale (67 Paesi guidati dagli Usa) poteva portare a termine assai prima. Bastava fare come hanno fatto i russi ad Aleppo. Se qualcuno si scandalizza, forse non sa bene che cosa significhi combattere una battaglia in una città densamente popolata. E soprattutto non sa che a Mosul, appena gli americani e i loro alleati ci provano, succede esattamente ciò che successe ad Aleppo, ovvero un sacco di civili innocenti ammazzati. Basta dare un’occhiata a Air Wars (https://airwars.org/), l’Ong internazionale che segue i bombardamenti in Siria e in Iraq. I dati dimostrano che da tre mesi i bombardamenti “occidentali” fanno più vittime tra i civili di quelli russi e siriani, e si parla di centinaia e centinaia di morti.


La coalizione, invece, per due anni e mezzo ha bombardato la sabbia. Da un lato sperando che l’Isis desse la spallata decisiva a Bashar al-Assad in Siria. Dall’altro perché gli ambienti neocon a stelle e strisce, che ora hanno messo sotto tutela anche Donald Trump, non hanno mai rinunciato al vecchio progetto di spartire l’Iraq in tre piccoli Stati a base etnico-religiosa (uno sunnita, uno sciita e uno curdo). Soluzione che verrebbe chiamata “federazione” ma che in realtà vorrebbe dire: uno staterello controllato dall’Iran (quello sciita), uno controllato dagli Usa via Arabia Saudita (quello sunnita) e il terzo controllato dagli Usa via curdi. Per Washington un doppio affare: far sparire qualunque prospettiva di uno Stato-nazione iracheno e, insieme, mettere le mani sui due terzi del territorio, isolando gli sciiti filo-iraniani e, via Kurdistan, interrompendo la continuità geografica della Mezzaluna Fertile (Iran, Iraq, Siria, Libano) che è il bastione degli sciiti del Medio Oriente.


Per questo le forze in campo, invece di concentrarsi sulle operazioni militari per liberare Mosul, hanno affrontato una serie di manovre e contromanovre a sfondo politico. Il Governo di Baghdad, dominato dagli sciiti filo-iraniani, ha chiesto di occupare la prima fila dell’offensiva sulla città, restando però del tutto dipendente dal supporto aereo della coalizione. Nel frattempo, ha inserito le milizie sciite a pieno titolo nei ranghi dell’esercito, garantendo loro anche l’immunità per eventuali “eccessi” commessi durante la campagna militare: una specie di assoluzione preventiva che andrà a coprire tutto ciò che accadrà durante l’effettiva presa della città.


Dall’altro lato, non appena l’esercito iracheno e le altre forze armate schierate contro l’Isis si sono avvicinate a Mosul, i curdi hanno cominciato a farsi sentire. Prima il governo della provincia di Kirkuk ha annunciato un referendum (contestatissimo dai rappresentanti arabi e turkmeni) per decidere l’eventuale annessione al Kurdistan. Poi lo stesso Massud Barzani, presidente del Kurdistan, ha detto che “un Iraq unitario non esiste” e che entro quest’anno in Kurdistan si terrà un referendum per decidere il distacco da Baghdad e la costituzione di uno Stato indipendente.


La vera battaglia per Mosul è questa. Ed è per questo, cioè perché i tempi per questa battaglia non erano maturi, che a quasi tre anni dall’irruzione l’Isis è ancora saldamente attestato in Iraq.



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