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L’Euro è sbagliato quindi fuori dall’Euro?
L’Euro è sbagliato. Tiene legate insieme economie diversissime per
forza economica, tassi di inflazione, competitività e produttività ,
senza che nell’UE esistano meccanismi di riequilibrio o compensazione
efficaci. In breve, l’Italia si ritrova una valuta troppo forte, la
Germania troppo debole rispetto a quelli che sarebbero i fondamentali
delle rispettive economie. La Germania può esportare grazie a una moneta
sottovalutata, l’Italia e gli altri Paesi della periferia europea
vedono al contrario i propri conti con l’estero peggiorare sempre di
più.
Non potendo aggiustare i cambi, tali squilibri si risolvono sui costi
di produzione, e tra questi, principalmente sul costo del lavoro.
Semplificando, se non puoi svalutare la moneta devi “svalutare†stipendi
e diritti di lavoratrici e lavoratori per tornare competitivo. Negli
slogan del governo, la soluzione passa dalla diminuzione del cuneo
fiscale, ovvero diminuire il costo del lavoro agendo sulla leva fiscale.
In realtà , essendo tale intervento del tutto insufficiente, l’unica
strada è un calo degli stipendi e un aumento della precarietà .
Ecco spiegata austerità , perdita di diritti, aumento della
disoccupazione. Con l’austerità diminuisce la spesa pubblica ma
soprattutto si ha un aumento della disoccupazione, il che porta
lavoratrici e lavoratori ad accettare condizioni di lavoro peggiori,
permettendo all’Italia di recuperare almeno in parte il gap di
competitività con il centro dell’UE e la Germania in particolare.
La conseguenza sembra essere semplice: se l’euro è sbagliato, usciamo
dall’euro. Torniamo alla lira (o ad altra valuta, non importa certo il
nome), permettendo alla nostra moneta, in un regime di cambi flessibili,
di svalutarsi e a quella tedesca di rivalutarsi. Questo significa per
l’Italia esportazioni più semplici e importazioni più care, ovvero un
riequilibrio della bilancia dei pagamenti (e in particolare del conto
delle partite correnti). Secondo alcune stime, se ci fosse un cambio
fluttuante e non bloccato la lira naturalmente si svaluterebbe di un
20-30% (alcuni ipotizzano fino al 50%) rispetto al valore attuale
dell’euro. All’opposto il marco tedesco si rivaluterebbe di un 30%
circa. Questo significherebbe per l’Italia (il secondo Paese
manifatturiero d’Europa proprio dopo la Germania) un vantaggio
competitivo enorme rispetto ai tedeschi.
In estrema sintesi, è questa la posizione di molti “no euro†che
chiedono l’uscita dalla moneta unica come elemento fondamentale per
uscire dalla crisi, o addirittura secondo i quali “l’euro è la causa
principale della crisiâ€. Un’affermazione che sembra dimenticare, o per
lo meno sottovalutare, come sia un sistema finanziario ipertrofico che
si è trasformato in un gigantesco casinò ad averci trascinato nella
situazione attuale. Se non si mettono in campo regole severe a partire
da uno stretto controllo sui movimenti di capitale, potremmo ragionare
in euro, in lire o in sesterzi, ma continueremmo a essere in balia dello
stesso casinò speculativo. Stiamo guidando un’automobile su cui
scopriamo che è montata una bomba ad orologeria al posto del motore.
Possiamo preoccuparci di fare il pieno di benzina e non di gasolio, ma
probabilmente non cambierà molto.
In questo senso sono la finanziarizzazione dell’economia e le
crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza le “cause principali
della crisiâ€, non l’euro che più propriamente è semmai uno dei fattori
che contribuiscono ad aggravarla e che rende più difficile uscirne.
Questo non è però il problema centrale. Anche ammettendo che l’euro sia
alla base di tutti i problemi attuali, anche affermando che l’euro sia
sbagliato, la domanda oggi deve essere: uscirne permetterebbe di
risolvere gli attuali problemi o ne creerebbe altri anche peggiori?
Come uscirne?
Il primo punto riguarda il percorso per un’eventuale uscita. Vanno
considerati non solo i rischi di un “referendum consultivo non
vincolante†sulla permanenza nell’euro (non entriamo nel merito
giuridico della sua fattibilità ), ma più in generale quelli di una
qualsiasi campagna di pressione o iniziativa dal basso per costruire
consenso intorno all’uscita dall’euro.
Nell’UE vige la libera circolazione dei capitali. Posso prendere i
miei risparmi depositati presso una banca o un gestore italiani e
spostarli in una qualsiasi banca o gestore di un altro Paese. Mettiamo
allora che la posizione “no euro†inizi a guadagnare consensi. Questo
può avvenire perché vincono i “no†in un eventuale referendum consultivo
o perché i partiti “no euro†guadagnano consensi o per qualsiasi altro
motivo che possa spingermi a pensare che da qui a breve l’uscita
dall’euro possa diventare reale.
Posso prendere i miei risparmi e affidarli a un gestore o banca di un
altro Paese dell’Eurozona, mettiamo in Germania. Se l’euro rimane in
piedi non ho perso nulla (tranne pochi euro di commissioni bancarie). Se
invece si torna a marco e lira, ecco che i miei risparmi in Germania
verranno cambiati in marchi, che si rivalutano del 30%. A quel punto
decido se tenerli li o se riportarli in Italia, dove la lira si è
svalutata del 30%. Senza fare nulla, ho praticamente raddoppiato i miei
risparmi rispetto all’eventualità di tenerli fermi in Italia (se prima
erano 100 euro, in marchi “varranno†130 e in lire 70). Se buona parte
dei risparmiatori (e in primo luogo le fasce più ricche della
popolazione che hanno liquidità da spostare senza problemi) seguono
questo ragionamento, il rischio evidente è una gigantesca fuga di
capitali, corsa agli sportelli bancari e prosciugamento finanziario
dell’Italia.
La situazione sarebbe se possibile ancora peggiore per i nostri
titoli di Stato. In caso di uscita dall’euro tali titoli verrebbero
ridenominati in lire, e quindi svalutati del 30%. Il problema può non
essere così rilevante per un risparmiatore italiano, che vede tutto
diminuire contemporaneamente della stessa percentuale e non subisce
quindi impatti. Ma un investitore statunitense o giapponese dovrebbe
accettare di perdere il 30% del proprio investimento, nel momento in cui
provasse a rivendere Bot e Btp (un tedesco anche di più per ricambiare
il suo investimento in marchi). Questo significa che al minimo accenno
di un successo dei “no euro†tali investitori scapperebbero dall’Italia e
andrebbero a investire in altri mercati (magari proprio in Germania, se
c’è la possibilità che la moneta si rivaluti). Dovrebbero essere
abbastanza chiari i rischi di una fuga degli investitori esteri sullo
spread e sulla capacità di rifinanziare il debito pubblico. Un’uscita
dall’euro dovrebbe quindi probabilmente andare di pari passo con una
ristrutturazione e rinegoziazione del debito pubblico italiano. Se in
assoluto non è detto che una ristrutturazione del debito pubblico sia
negativa, ed è anzi auspicata da diversi economisti, abbastanza
chiaramente il modo migliore per arrivarci non appare una subitanea fuga
degli investitori esteri che ci lasciano con il cerino in mano.
Per questo motivo, se si volesse uscire, evidentemente andrebbe fatto
in maniera diametralmente opposta: il più segretamente e velocemente
possibile. [Anche le ricerche che propongono percorsi di uscita
dall”euro riconoscono l”importanza di questo aspetto. Il paper “Leaving the euro – A practical guideâ€, di Capital Economics, come primo punto
segnala che “non sarà possibile fare sapere dei preparativi se non per
un tempo breve. Il ministro delle Finanze, il Primo ministro, il
governatore della Banca Centrale e poche altre persone in posti chiave
dovrebbero quindi incontrarsi per discutere e pianificare l”uscita in
segretoâ€. Come conciliare tale necessaria segretezza con campagne
pubbliche e referendum consultivi?] Venerdì sera, a banche e mercati
chiusi, l’annuncio del governo che da lunedì mattina non abbiamo più gli
euro ma le lire, con un ferreo controllo sui movimenti di capitali
(intervenendo quindi su banche, gestori, e altri operatori finanziari) e
durissimi controlli alle frontiere. E’ per lo meno decisamente
improbabile pensare di potere fare una cosa del genere di colpo e in
completa segretezza.
I cambi riflettono lo stato delle economie?
Poniamo però che si riesca a procedere segretamente e nel giro di un
week-end. Da lunedì mattina abbiamo le lire, libere di fluttuare in un
mercato dei cambi non più bloccato. Cosa avviene? Come accennato,
naturalmente la lira tenderà a svalutarsi e il marco a rivalutarsi per
riflettere la forza delle rispettive economie. Per semplicitÃ
continuiamo a considerare Italia e Germania, ma è chiaro che un discorso
simile varrebbe anche per altri Paesi dell’area euro che decidessero di
uscire o per tutti nel caso di una dissoluzione dell’euro.
Le valute dovrebbero allora fluttuare per andare a riflettere la
forza e i fondamentali dell’economia italiana. Ma siamo certi che sia
proprio così? Oggi su scala globale il totale di beni e servizi
importati ed esportati nel mondo vale circa 20.000 miliardi di dollari
l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 5.000 miliardi di dollari
al giorno. Questo significa che girano più soldi in 4 giorni sui mercati
finanziari che in un anno di “economia realeâ€, o in altri termini che
il 99% delle transazioni in valuta non è legato ad alcuna importazione o
commercio. Sono soldi che inseguono altri soldi per fare altri soldi.
E’ la forza commerciale dei singoli Paesi, ovvero l’1% delle
transazioni, a determinare il valore delle monete, o all’opposto sono
molto più rilevanti considerazioni puramente finanziarie che
successivamente vanno a influenzare i fondamentali economici? Alla City
di Londra si usa un’espressione per indicare il rapporto tra le attivitÃ
economiche e la finanza che dovrebbe essere al suo servizio: la finanza
è oggi the tail that wags the dog, letteralmente la coda che fa scodinzolare il cane.
Se mai c’è stato un qualche “dividendo†dell’euro, questo è
identificabile con il maggior peso della moneta unica sui mercati
internazionali e quindi con minori possibilità di attacchi speculativi e
minori fluttuazioni. In un momento di debolezza e rischio come quello
di un passaggio da una valuta all’altra, a quali attacchi speculativi
potrebbe essere sottoposta la nuova lira? E con quali conseguenze per la
nostra economia? In ogni modo, sarebbero nuovamente possibili
fluttuazioni speculative tra diverse valute europee.
Chiariamo. Non è detto che un attacco speculativo debba avvenire e
che le conseguenze debbano essere catastrofiche. Semplicemente,
escludere tali considerazioni significa “dimenticarsi†della natura del
99% delle transazioni valutarie per guardare unicamente all’1% legato
all’export di beni e servizi. Un problema per lo meno troppo spesso
sottovalutato.
Se uno degli obiettivi centrali del ritorno a una moneta nazionale è
il recuperare la “sovranità monetariaâ€, è possibile ignorare questo
argomento? Persino alcuni detrattori dell’euro riconoscono come in
presenza di cambi volatili, le economie aperte hanno per lo meno
un’autonomia monetaria estremamente limitata, se non unicamente formale,
perché le autorità devono rispondere alle oscillazioni del mercato dei
cambi.
Salari reali e salari nominali
Un argomento spesso ingigantito dai “si euro†è quello
dell’inflazione. Vengono evocate immagini del tipo “se torniamo alla
lira andremo a fare la spesa con le carriole di lire, che non varranno
più nullaâ€. Questo argomento appare a dire poco esagerato. Svalutazione e
inflazione non sono in nessun modo la stessa cosa, e diversi studi su
analoghe situazioni del passato confermano come un’eventuale
svalutazione del 30% non comporti un’inflazione in doppia cifra,
soprattutto dopo una primissima fase di assestamento. Ciò detto, una
questione legata a una maggiore inflazione comunque esiste e va
considerata. Se con l’euro a rimetterci sono i salari nominali, con
l’uscita potrebbe esserci un impatto rilevante sui salari reali, ovvero
tenuto conto della maggiore inflazione. Come ricorda Claudio Gnesutta,
“con la moneta unica il conflitto si concentra esplicitamente sulla
riduzione del salario nominale, come modo per rilanciare la
competitività (di prezzo). […] Ritornando alla moneta nazionale, il
conflitto si presenta come processo inflazionistico per il
ridimensionamento del salario reale, in cui si inseriscono gli effetti
delle svalutazioni del cambio e le incertezze legate alla speculazioneâ€.
Come per il paragrafo precedente legato a possibili fenomeni
speculativi, non è detto che impatti sui salari nominali con l’euro e
sui salari reali in caso di uscita siano simili, o che non ci sia
comunque nel medio periodo un vantaggio nel tornare alle monete
nazionali. Nel proporre di uscire dall’euro appare però per lo meno
semplificativo guardare agli attuali salari nominali “dimenticandosi†di
analizzare i possibili impatti futuri sui salari reali.
Esportare di più?
Il vantaggio di una svalutazione è abbastanza evidente: le
importazioni diventano più care e le esportazioni più semplici, il che
permette di migliorare la bilancia dei pagamenti. A fronte di questo
vantaggio, bisogna però fare alcune considerazioni. La prima è
nell’andare a vedere cosa è avvenuto storicamente a seguito di
svalutazioni. Le indicazioni appaiono abbastanza chiare. Le imprese
possono sfruttare un vantaggio competitivo rispetto alle omologhe estere
(almeno finché altri Paesi non si lanciano in una gara di svalutazioni
competitive) e sono spinte a concentrarsi su questa competizione di
prezzo, spostandosi verso produzioni a minore contenuto tecnologico.
Come spiega Giuseppe Travaglini, “nei lunghi anni della lira debole,
anche quando l’Italia partecipava allo Sme, il sistema produttivo
italiano si adagiò sul vantaggio implicito delle svalutazioni
competitive senza migliorare la qualità dei prodotti e la produttivitÃ
del lavoro. Anzi, ad un tasso di cambio prolungatamente debole si
associò l’involuzione della struttura produttiva industriale verso le
medie e piccole dimensioni, e verso i settori a basso contenuto
tecnologico e bassa produttività comunque mantenuti artificiosamente
competitivi, nel mercato internazionale, dalle continue svalutazioni.
Oggi, nel mutato contesto della globalizzazione appare velleitario
difendere questa collocazione commerciale, giacché nei settori a basso
valore aggiunto avanzano i paesi di nuova industrializzazione che
competono sul costo del lavoro, e impongono ai paesi economicamente
avanzati che operano nei medesimi settori la folle “necessità †di tagli
salariali e l’erosione delle tutele del lavoroâ€. [Giuseppe Travaglini,
“Un paese in bilico – L”Italia tra crisi del lavoro e vincoli
dell”euroâ€, Ediesse, 2014, p.87]
Riassumendo, se l’obiettivo principale di uscire dall’euro è
svalutare per esportare di più, bisognerebbe domandarsi: 1. esportare
cosa e con quale contenuto di tecnologia; 2. a quale prezzo e con quali
impatti su salari e diritti del lavoro. Sommando queste considerazioni a
quelle del paragrafo precedente, gli eventuali vantaggi per lavoratrici
e lavoratori appaiono per lo meno sempre meno certi e consistenti.
Export e protezionismo?
Un ulteriore argomento. Se le esportazioni diventerebbero più
semplici, nella stessa misura lo sarebbero investimenti e acquisti
dall’estero in Italia. Semplificando, con una lira che si svaluta del
30% rispetto all’euro e un marco che si rivaluta del 30%, per una banca
italiana il patrimonio si dimezza rispetto un’omologa tedesca (da 100 –
100 a 70 – 130, con un conto estremamente approssimativo). Lo stesso
discorso vale per capannoni, fabbriche, terreni e qualsiasi altro
cespite. Il risultato è che i Paesi con valute più forti potrebbero
acquistare con molta maggiore facilità le imprese italiane, e in
particolare quelle più pregiate (per capirsi il fenomeno ricorda quanto
avveniva ai tempi della sterlina forte e di alcuni dei luoghi più
pregiati della Toscana ribattezzati “Chiantishireâ€).
L’argomento dei cosiddetti fire sales o saldi è contraddittorio.
Secondo alcune analisi al contrario è proprio l’euro a provocare o per
lo meno intensificare il fenomeno. Con una propria valuta nazionale, le
imprese avrebbero, è vero, un “valore†minore, ma in direzione opposta
aumenterebbe la loro redditività , consentendo loro di resistere meglio a
eventuali tentativi di acquisizione. Anzi è proprio l’euro, che
consentendo una protezione dai rischi di cambio sul medio periodo,
incentiverebbe tali investimenti esteri, mentre nello stesso momento
“strangola†le imprese che sono quindi più facilmente acquisibili.
Il problema è che entrambi gli argomenti sono probabilmente fondati.
L’euro favorisce la circolazione dei capitali senza rischi di cambio e
ha degli impatti sulla redditività delle nostre imprese. Nello stesso
momento, se si uscisse “nel giro in un week-end†ci sarebbe una rapida
diminuzione del valore patrimoniale di imprese e banche, che potrebbe
portare a un aumento improvviso di acquisizioni di imprese indebolite da
anni di moneta unica troppo forte e dalla conversione dei propri attivi
in una debole. La svalutazione è un fenomeno di breve periodo,
l’eventuale aumento della redditività e quindi i vantaggi dovrebbero
misurarsi dopo anni. Nuovamente, perché “si euro†e “no euroâ€
considerano rispettivamente un solo lato della medaglia?
Per evitare tale rischio sarebbe probabilmente necessario, almeno per
un periodo di transizione, imporre dei vincoli su movimenti di capitali
e investimenti dall’estero. Se l’obiettivo di una uscita dall’euro è
però svalutare per esportare di più, le due cose appaiono decisamente
contrastanti. E’ difficile pensare di dire ai Paesi europei (e al resto
del mondo) che l’Italia svaluta per esportare ma che contemporaneamente
nell’altra direzione vengono messe in campo misure protezionistiche in
ingresso su capitali e investimenti. Quale partner commerciale
accetterebbe una simile situazione?
Il ragionamento sembra evidenziare l’apparente paradosso accennato
nell’introduzione: l’Euro è un problema e ha peggiorato la situazione
per gran parte delle imprese italiane, ma non è detto che uscirne possa
rappresentare una soluzione e non al contrario peggiorare ulteriormente
le cose.
Cambiare strada
Se oggi si può parlare di un’Europa “a guida tedescaâ€, prima ancora
che nella forza economica o nel peso sulle istituzioni europee, è
proprio nella visione neo-mercantilista, che fonda sull’export e non
sulla domanda interna il proprio successo e impone di conseguenza la
“competitività †come valore assoluto. L’idea di uscire dall’euro per
svalutare e quindi esportare di più non sta di fatto inseguendo e
ricalcando lo stesso approccio e lo stesso problema? L’unico nostro
obiettivo deve essere partecipare a una gara al ribasso in materia di
diritti e tutele del lavoro, fisco, normative ambientali, svalutazioni
monetarie, o in ultima analisi è esattamente questa corsa verso il fondo
ad averci trascinato nella situazione attuale?
In quest’ambito la sensazione è che se l’Euro è un disastro, uscirne
rischia di essere “un disastro al quadratoâ€. In un caso stiamo vivendo
un declino economico, produttivo e sociale. Nell’altro il rischio
concreto è quello di un salto nel buio e di impatti che non ci si può
certo limitare a sminuire come “vacanze all’estero un po’ più care e
qualche turbolenza in fase di transizioneâ€. Le turbolenze rischiano di
essere tsunami, la fase di transizione dell’ordine di diversi anni,
l’eventuale uscita da tale fase tutta da dimostrare. E’ difficile capire
perché i detrattori dell’euro insistano sull’impatto delle politiche
monetarie su quelle economiche e sociali in una direzione ma sminuiscano
o trascurino completamente quelle che si avrebbero nella direzione
opposta.
E’ in questo senso che la scelta non può essere tra un lungo declino
nell’euro o un repentino e profondo peggioramento uscendone, ma che
occorre immaginare ulteriori percorsi e ripensare nel loro insieme le
politiche finanziarie, fiscali, economiche, sociali e monetarie dell’UE.
Ripensarle alla radice per costruire un diverso modello economico. Un
modello che si sposti dai consumi agli investimenti, dall’export alla
domanda interna, non tagliando ma riqualificando la spesa pubblica per
indirizzarla in ambiti con elevati moltiplicatori e a forte contenuto di
lavoro, come nella ricerca o nel welfare, promuovendo e accompagnando
una riconversione ecologica dell’economia. Questo significa ridiscutere
gli assurdi vincoli europei, partendo dal rimuovere gli investimenti da
tali vincoli; significa una revisione del mandato e delle funzioni della
BCE; significa una politica fiscale espansiva mirata alla creazione di
posti di lavoro in diretta opposizione con l’attuale austerità , e via
discorrendo. [Vedi le proposte contenute nell”ultimo rapporto “Euromemorandumâ€]
Anche riguardo l’euro in sé, non è nemmeno detto che le uniche
alternative siano tra il rimanere in una moneta unica o l’uscirne per
tornare tout court alle valute nazionali. Una proposta è ad esempio
quella di trasformare l’euro da moneta unica in una moneta del comune,
riprendendo in qualche modo l’idea del Bancor e di una clearing union
avanzate da Keynes alla conferenza di Bretton Woods nel 1944. [Per
maggiori informazioni sull”euro da moneta unica a moneta comune vedi keynesblog.com] Un’altra è quella di affiancare all’euro delle
monete locali o nazionali. In qualche modo, l’alternativa migliore tra
rimanere nell’euro o uscirne potrebbe essere: tutt’e due.
Più o meno Europa?
Agli argomenti precedentemente esposti ne va aggiunto uno
fondamentale, benché oggi appaia enormemente lontano e appannato:
l’idea, o meglio l’ideale, di una “unione†europea. Cosa ne sarebbe in
caso di fine della moneta unica? Come per i casi precedenti, secondo
alcuni “no euro†è proprio la moneta unica a distruggere il sogno
europeo, e il ritorno alle monete nazionali è l’unico modo per salvare
l’Europa. Una UE considerata irriformabile, con la conseguente necessitÃ
di ripartire da monete nazionali per eventualmente riprendere il
percorso di integrazione su altre basi. I rigurgiti xenofobi e
l’affermarsi di forze di estrema destra ne sarebbero la più evidente
testimonianza, mentre chi si ostina a parlare di “più Europa†viene
trattato con sufficienza se non con disprezzo.
Per gli argomenti ricordati in precedenza su diritti di lavoratrici e
lavoratori, su possibili attacchi speculativi, sul rischio di “guerre
valutarie†e di una vera e propria corsa verso il fondo nel nome della
competitività e dell’export, nuovamente viene da domandarsi quanto pro e
contro siano considerati con oggettività , e soprattutto quanto
un’uscita dall’euro permetterebbe di invertire la rotta, cancellare il
recente passato con un tratto di penna e ripartire.
Uscire dalla moneta unica renderebbe più semplice o più complesso
pensare a scambi commerciali ed economici e a un modello cooperativo in
sostituzione dell’attuale competizione interna all’UE? Avvicinerebbe
l’idea di una qualche unione fiscale e politica che oggi appare tanto
lontana? Un’uscita dall’euro non darebbe ulteriore impulso a una
competizione sfrenata tra Paesi? Non darebbe ancora più spazio alle
forze nazionaliste, se non a nuove forme di fascismi, che stanno
purtroppo prendendo piede in UE tanto in Paesi che hanno la moneta unica
quanto in altri che non l’hanno adottata? La proposta di un’uscita
dall’euro per rilanciare un percorso di integrazione “solidale†non è
forse ancora più utopica e irrealizzabile di quella pur estremamente
complessa di una profonda riforma delle istituzioni europee?
Per l’ennesima volta, l’integrazione monetaria in assenza di una
reale integrazione politica è stato un errore, ma questo non significa
assolutamente, anzi, che il tornare alle monete nazionali non possa
essere un errore ben più grave e pericoloso.
Uscire dal guado
Ferme restando queste considerazioni, oggi è oggettivamente difficile
sostenere e rilanciare il sogno europeo. Mettere in campo una profonda
riforma delle sue istituzioni, un reale processo di integrazione
politico e sociale, l’imposizione di regole e controlli per il sistema
finanziario e via discorrendo. Procedere lungo queste direzioni, o
ipotizzarne e metterne in campo di diverse, è complicato. Sono
chiaramente percorsi più complessi rispetto allo slogan “no euro†da
sventolare in campagna elettorale. Il problema è che non sembrano
praticabili molte altre strade. Per lo meno, sarebbe il caso di
promuovere un dibattito “laico†e approfondito su vantaggi e svantaggi
di un’uscita.
Questo è l’ultimo punto, ma forse il più importante. Oggi il
dibattito sembra polarizzato tra i “si euro†che millantano di carriole
di lire per andare a comprare le patate e “no euro†che accusano
chiunque abbia dei dubbi o avanzi delle critiche di essere un completo
cretino (di solito gli epiteti sono più pesanti) o di essere in malafede
perché complice di un qualche complotto globale e “membro del PUDEâ€
(Partito Unico Dell’Euro n.d.r.). Solitamente si è giudicati dei cretini
in malafede, così non ci si sbaglia.
Forse il problema non è l’Euro in sé ma molto più in generale la
costruzione europea nel suo insieme. L’Euro si inserisce nel paradosso
di un’unica banca centrale e di politiche monetarie uguali per tutti in
una situazione in cui ogni Paese deve gestire autonomamente il proprio
debito pubblico e il bilancio europeo vale meno dell’1% del PIL dei
Paesi membri. Un’Europa a metà del guado, dove vige la moneta unica, una
banca centrale unica e la libera circolazione dei capitali ma non
esiste un’Europa fiscale, sociale e dei diritti. Il problema oggi è come
uscire da questo guado. Se sia possibile tornare indietro o se invece
non sia necessario, per quanto la strada appaia difficile e piena di
ostacoli, continuare a camminare per venirne fuori.
Fonte: http://www.nonconimieisoldi.org/blog/alcune-riflessioni-sulleuro/.
* Andrea Baranes lavora alla Campagna per la Riforma della Banca Mondiale in qualità di
responsabile per le campagne su banche private e finanza, collabora con
la Fondazione Culturale di Banca Etica e il sito di informazione
“Osservatorio sulla Finanza” [vedi il suo curriculum esteso].
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