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'L''Era del Crescitocene'

Facciamo chiarezza su alcuni termini, quali crescita, produttivismo, "green economy" e sciogliamo i fraintendimenti sul termine "decrescita".

'L''Era del Crescitocene'
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11 Aprile 2016 - 21.07


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di Ekaterina Chertkovskaya e Alexander Paulsson

Facciamo chiarezza su quale tipo di crescita è necessario mettere in
discussione con la decrescita: è l’aumento dei flussi globali di materia
e di energia, è l’accumulazione di capitali e il produttivismo; sono i
tentativi irragionevoli di continuare a far crescere il PIL. In altre
parole, mettiamo in discussione l’era della crescita materiale
(growthcene).
 

Ultimamente è
aumentato l’interesse per la decrescita – un termine generico che
include le critiche alla narrativa dominante della crescita economica
nelle nostre società e comprende varie alternative per la sostenibilità
ecologica e la giustizia sociale
.
Questo approccio è condiviso non solo dai proponenti della decrescita,
ma anche dai suoi critici, che spesso sono favorevoli a molte delle idee
di questo movimento ma esprimono delle riserve sul termine
‘decrescita’.


Ci sembra che queste
riserve, almeno in parte, dipendano dal fatto che il termine stesso di
‘crescita economica’ è ambiguo e contestato. Per esempio, Kate Raworth

afferma che non è chiaro se la decrescita si riferisce agli aspetti
biofisici o ai valori monetari, misurati in termini di PIL, e sostiene
che questa differenza è significativa. John Bellamy Foster

propone di discutere di decrescita non in termini astratti, ma più
concretamente in termini di ‘deaccumulazione’ – una transizione che si
propone di abbandonare un sistema orientato all’accumulazione senza fine
di capitale. 


Le riserve espresse
sul termine ‘decrescita’ rendono dunque necessario chiarire che cosa si
intende con la parola ‘crescita’, e quali trappole occorre evitare se si
vuole mettere in atto la transizione verso una decrescita sostenibile
.
Nelle pagine che seguono cerchiamo di descrivere tre modi di
interpretare la crescita, che dovrebbero essere messi in discussione
dalla descrescita: primo, fare affidamento all’aumento indefinito dei
flussi di materia e di energia; secondo, mirare all’accumulazione di
capitale e al produttivismo; terzo, puntare sempre all’espansione
quantitativa delle economie nazionali (misurate con il PIL). Proponiamo
anche di usare l’espressione ‘era della crescita’ (
growthocene) per caratterizzare l’epoca in cui viviamo, estendendo la nozione di ‘era del capitale’ (capitalocene) e rifiutando il termine, ormai entrato nel linguaggio corrente, di antropocene.


Flussi biofisici di materia ed energia


Le economie in tutto
il mondo si basano sulla crescita dei flussi biofisici, che ha prodotto
conseguenze ecologiche gravissime sul pianeta e sui suoi ecosistemi. La
decrescita – al contrario – implica una riduzione di tali flussi. Il
concetto di antropocene, che in parte accoglie questa critica, è
tuttavia molto problematico, perché suggerisce che tutti gli esseri
umani siano responsabili della crisi ecologica, senza sottolineare
differenze di classe, di genere, di razza, di geopolitica o di sistemi
economici.


L’economia ‘verde’ (Green economy) è
diventata una parola di moda, e viene spesso suggerita come soluzione
ai problemi ecologici del mondo, sia da destra che da sinistra. Ma
l’economia ‘verde’ non è né sostenibile né giusta, perché si basa
sull’idea di incorporare soluzioni (ipotizzate come ‘verdi’)
nell’economia dominante, senza metterne in discussione le basi.

Per esempio, l’attribuzione di valore alla natura in termini economici è
tale solo di nome, mentre in realtà consente di continuare la
distruzione di sistemi ecologici e di sottrarre le risorse biofisiche ai
governi.


Le fonti energetiche
rinnovabili rappresentano naturalmente un passo importante nella
transizione, ma non portano automaticamente alla sostenibilità o alla
giustizia. In Brasile, per esempio, il modo con cui si sta operando la
transizione verso le energie rinnovabili sta mettendo a rischio la
biodiversità dell’Amazzonia, e spesso costituisce una minaccia ai modi
di vivere delle comunità indigene e alle basi ecologiche che ne
consentono la sopravvivenza (come dimostra il caso degli Indiani
Munduruku).


Così, nello sforzo
per conseguire sostenibilità e giustizia, la decrescita va al di là del
discorso sui flussi di materia e di energia, e sui limiti fisici del
nostro pianeta. Si tratta di mettere in discussione le soluzioni
problematiche e potenzialmente dannose proposte come ‘verdi’, come i
mercati del carbonio e della biodiversità, o la scelta dell’energia
nucleare. Non solo: l’approccio della decrescita richiede di far
emergere i problemi nascosti dietro alle attraenti etichette di
‘inclusività’, ‘riduzione della povertà’, ‘sviluppo’ ecc.


Più in generale
occorre chiedersi quali sono i rischi delle soluzioni proposte, chi ne
esce vincitore e chi perdente; e ancora, quali divisioni sociali, quali
ingiustizie, quali disuguaglianze vengono mantenute, riprodotte,
eventualmente rinforzate. 


Accumulazione del capitale e produttivismo


Quest’ultimo punto ci
porta a mettere in discussione la crescita intesa come accumulazione di
capitale. In primo luogo le condizioni in cui si verifica
l’accumulazione di capitale sono dipendenti da classe, genere, razza e
altre caratteristiche; inoltre quando il surplus viene reinvestito in
attività economiche, le differenze vengono ulteriormente accentuate. In
breve, lo sforzo per accumulare si basa su ingiustizie e disuguaglianze,
come è stato evidenziato da più fonti. Parte di queste critiche hanno
portato a suggerire il concetto di ‘
capitalocene’,
per indicare che non è l’intera umanità, ma il capitalismo ad essere
responsabile dei problemi ecologici e sociali che dobbiamo ora
affrontare
.


Allora la frase
“cambia il sistema, non cambiare il clima” dovrebbe implicare non solo
che dobbiamo affrontare in modo diverso il clima o l’ecologia, ma
proprio il modo con cui le nostre società sono organizzate. La
decrescita problematizza le forme dell’accumulazione e – specularmente –
le forme di consumo, che hanno un’apparenza di ‘sostenibilità’ o che
sembrano orientate alla comunità. Per esempio, la nozione della ‘sharing
economy’ è stata messa in discussione come qualcosa che trasforma gli
spazi sociali e comunitari in merci, e sfrutta il lavoro precario
.


Il concetto di capitalocene
è senza dubbio un’idea potente per capire problemi sociali ed ecologici
senza trattarli separatamente, tuttavia non coglie il quadro completo.
Per esempio, è difficile inserire nello scenario la storia ambientale
dell’ex-Unione Sovietica e del blocco dell’Europa dell’Est, i cui
sistemi economici hanno avuto effetti ecologici e conseguenze sociali
altrettanto devastanti. La produzione industriale era il motore chiave
dell’organizzazione di quelle economie, se non di quelle intere società.


È quindi importante
mettere in discussione non solo l’accumulazione capitalistica, ma anche
il produttivismo, cioè la crescita della produzione come se fosse una
cosa positiva di per sé. Ma il produttivismo nelle economie
contemporanee non riguarda solo la produzione industriale: riguarda
anche la produzione di informazioni, di conoscenza, di tecnologia, di
servizi.


È anche cruciale
sottolineare che sfidare il produttivismo non implica necessariamente
ridurre tutti i tipi di produzione: occorre distinguerne diversi modi di
realizzarsi, diverse conseguenze…Per esempio, sarebbe auspicabile
sostenere un incremento della permacoltura, in quanto si tratta di una
pratica produttiva sostenibile in agricoltura. Altrettanto desiderabile
secondo molti sarebbe la diffusione di iniziative come il cooperativismo
, in alternativa alla ‘sharing economy’.


In linea con le riflessioni proposte fin qui, suggeriamo di usare il termine di ‘era della crescita’ (growthocene)
– che esprime la propensione a conseguire una crescita perpetua,
affidandosi all’idea che si possa contare sul flusso crescente di
materia e di energia, sull’accumulo di capitale e sul produttivismo in
generale  â€“ per descrivere l’epoca in cui viviamo e i problemi ecologici
e sociali che incombono su di noi. L’idea della decrescita, quindi,
mette in discussione sia le condizioni sia le conseguenze del ‘
growthcene’.


Espansione quantitativa delle economie nazionali misurata tramite il PIL


L’assunzione – assai problematica – che sta alla base dell’idea di growthcene
è che l’espansione quantitativa possa portare automaticamente a un
aumento di prosperità. Da qui deriva che il PIL è la misura dominante
del valore monetario delle economie nazionali. Questo indicatore era
stato introdotto come strumento del governo degli Stati Uniti per
affrontare la Grande Depressione e più in là per pianificare le attività
produttive durante la Seconda Guerra Mondiale: solo in seguito diventò
la misura predominante per le economie nazionali.


Il PIL e altre misure
analoghe, oltre ad essere indicatori inadeguati di prosperità,
conducono a conseguenze problematiche. In primo luogo hanno portato ad
accettare una regola comune, che consentiva di analizzare e interpretare
la situazione economica di paesi a basso reddito sulla base
dell’ipotesi che il loro riferimento per il futuro fosse il modello
industriale
.
Secondo, pilotare e orientare in base al PIL istituzioni pubbliche di
importanza cruciale come l’educazione e la salute, ha creato dei sistemi
che invece di essere funzionali ai bisogni della gente sono orientate a
soddisfare certi criteri economici.


E’ importante sottolineare che non solo la descrescita non si pone l’obiettivo di ridurre il PIL,
o il valore monetario dell’economia, ma che la decrescita stessa non
dovrebbe essere valutata tramite il PIL o misure analoghe, che sono
essenzialmente indicatori fasulli di prosperità. Il PIL è stato
criticato in modo convincente da molti studiosi, ormai (e.g.
Fioramonti), ma resta ancora del lavoro da fare per smontare la sua posizione tuttora egemonica.

n.d.r. Per note ed approfondimenti si prega di consultare la fonte originale in inglese citata qui sotto.




*Ekaterina Chertkovskaya fa parte del team sulla decrescita presso il Pufendorf Institute for Advanced Studies e del gruppo di ricerca in Sustainability, Ecology and Economy
presso la School of Economics and Management, entrambi all’Università
di Lund. E’ anche membro del collettivo editoriale del giornale
ephemera


*Alexander Paulsson fa parte degli stessi gruppi di lavoro, ed è ricercatore postdoc presso lo Swedish Knowledge Centre For Public Transport.

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Traduzione e sintesi di Elena Camino per il Centro Studi Sereno Regis

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