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La guerra finanziaria nell'era di Trump

America First sintetizza l’indirizzo in politica estera ma soprattutto detta la linea alle politiche monetarie che governano i mercati finanziari mondiali. [L. Deiana]

La guerra finanziaria nell'era di Trump
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7 Febbraio 2017 - 20.43


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di
Luisanna Deiana
.

L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca ha
avviato un nuovo corso della politica americana, che secondo la nuova dirigenza
risulta troppo esposta sui fronti esterni e “sottoperformante” in casa.

Il primo
atto
del nuovo presidente americano è stato quello di delineare una nuova strategia di contenimento dei
principali antagonisti internazionali
con l’obiettivo di garantire per il secondo secolo consecutivo la supremazia politica,
economica e militare degli USA.

In controtendenza con la globalizzazione
dei mercati e la liberalizzazione delle frontiere, Trump ha annunciato
l’introduzione di nuove regole
protezionistiche
, il contenimento dell’immigrazione
verso gli USA e una consistente politica di ricostruzione del tessuto industriale in territorio americano, con
l’obiettivo di rigenerare i milioni di posti di lavoro persi con le imponenti
delocalizzazioni degli anni ‘90 e la successiva crisi finanziaria scoppiata nel
2008.

Il cambiamento di rotta delle politiche
espansive degli USA era ventilato già da diverso tempo e si attendeva un rialzo
consistente dei tassi FED per rilanciare l’economia americana, cosa che è
avvenuta solo in parte e che appare limitata nell’immediato dai contrasti
bancari che vincolano il sistema finanziario americano ed europeo. Tuttavia un’importante
alternativa sembra delinearsi con le nuove
politiche di stimolo fiscale
del sistema americano che avrebbero gli stessi
effetti di una rivalutazione del dollaro.

“America first” sintetizza
l’indirizzo di Trump in politica estera ma soprattutto detta la linea alle
politiche monetarie che governano i mercati finanziari internazionali. La revoca del TPP è un chiaro segnale per
le corporazioni multinazionali a reinvestire in territorio americano e
riavviare quel cospicuo rientro di capitali che all’estero finanziano i mercati
emergenti a basso costo di mano d’opera. Ricostruire il tessuto industriale
americano implica l’impiego di consistenti investimenti
senza aggravare l’imposizione fiscale nazionale che avrebbe l’effetto di
ridurre ulteriormente i salari ed i margini economici delle imprese con un
effetto a spirale sull’economia.

La ripresa degli investimenti sul
territorio americano è quindi realizzabile solo attraverso il rientro dei capitali internazionali.

In tal senso la BAT, Border Adjustment Tax, sottoposta al vaglio dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio consentirebbe alle imprese con sede negli States di
escludere dal calcolo dell’imponibile fiscale i ricavi da esportazioni, mentre
non sarebbero più detraibili i pagamenti a fornitori esteri, incluse le
controllate. Tale aggiustamento d’imposta produrrebbe un beneficio di bilancia
commerciale pari ad un aumento dell’IVA, renderebbe le esportazioni statunitensi
più competitive e le importazioni più onerose con l’esito di determinare un
apprezzamento del dollaro. L’eventuale rivalutazione del
dollaro indotta dalla “tassa di frontiera” comporterebbe una stretta monetaria
globale con immediate ripercussioni negative sui mercati emergenti e sulle
aziende fortemente indebitate in dollari.

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