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Opus Metachronicum

Intervista di Giovanni Agnoloni a Sonia Caporossi, autrice di “Opus Metachronicum” (Corrimano, Palermo 2015).

Opus Metachronicum
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11 Luglio 2016 - 10.24


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(a cura) di Giovanni Agnoloni

Pubblichiamo un’intervista a Sonia Caporossi, autrice di Opus Metachronicum, la raccolta di racconti “metacronici” ripubblicata in seconda edizione nel 2015 dalle [b][url”Edizioni Corrimano”]http://www.corrimanoedizioni.it/catalogo[/url][/b] di Palermo, libro che ha riscosso notevoli consensi in vari festival letterari, fra il pubblico e la critica specializzata. (g.a.)

[center]***[/center]

Il primo libro di narrativa a tua esclusiva firma scende nelle profondità del linguaggio, in quel territorio magmatico in cui il senso nasce da un “Verbo” ancora impregnato dei suoni primigeni del cosmo per come percepito dal buio mondo di dentro, e da [i]essere[/i] si fa [i]esistere[/i]. Possiamo dire che ognuno dei ritratti del tuo Opus attinge a una diversa “nota” interiore?

Mi sembra molto centrata questa tua definizione. Ognuno dei monologhi contenuti nel libro incarna un personaggio che si offre all’ermeneusi per il tramite di un linguaggio. Il libro nasce da un tentativo sperimentale non solo strutturale e tematico, ma anche dal punto di vista linguistico, ovvero quello di consegnare all’attenzione del lettore una lingua di assoluto rigore stilistico e formale, di caratura neobarocca, cercando però di attuare un livello comunicativo che non risulti falsato in partenza da un estetismo ostentato, quello stesso che in genere, in operazioni letterarie ligie al massimalismo ortodosso di scuola anglosassone, spesso fa debordare l’ago della bilancia dalla parte esclusiva della forma piuttosto che del contenuto. Il mio tentativo, piuttosto, è quello di dare rigore di verbalità argomentativa, persino in senso filosofico, ad una prosa narrativa ricercata e artistica sì, ma che non trovi nella dimensione della mera “prosa d’arte” il fine in se stesso. Una lingua narrativa e filosofica allo stesso tempo, insomma.

Ogni personaggio è trasposto, e direi quasi [i]traslato[/i], in un orizzonte di fatti sfasati rispetto alla realtà, storica o letteraria, da cui proviene. Quasi che, “quantisticamente”, tu volessi alludere a un’altra delle [i]n[/i] variabili che compongono il multiverso fattuale-creativo. Perché hai sentito l’esigenza di questa [i]variatio[/i]?

Perché nella mia personale poetica la filosofia c’entra sempre: essa è più concreta, più reale e naturale, in una parola, più quotidiana di quanto si pensi. Mi riferisco al concetto di metacronicità, ad esempio, che permette ai miei personaggi di ritrovarsi traslati oltre la propria contestualizzazione d’uso abituale per assurgere al valore di simboli metasignificanti e a metafore delle moderne e contemporanee atrocità e contraddizioni umane. Penso a Jack lo Squartatore che si ritrova catapultato dall’Inghilterra vittoriana alla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre 1975 dove incontra il cadavere irriconoscibile di Pasolini; penso a Van Gogh che si ritrova nell’epoca contemporanea catapultato suo malgrado ad una mostra di suoi quadri; penso alla sospensione temporale davvero quantistica, assolutamente non-narrativa di Curione, il luogotenente dell’esercito di Cesare che suggerisce al suo Comandante di passare il Rubicone, monologo all’interno del quale non accade praticamente niente, essendo il gesto racchiuso nei tre passi che il protagonista deve compiere per battere la mano sulla spalla del Generale. Penso alle rivisitazioni letterarie di Oscar Wilde, al marito parafiliaco di Madame Bovary che adora il sangue, a un Proust sadico che mutila Albertine perché ogni scrittore del suo personaggio non può che prendere possesso; penso, infine, alla mitologia rivisitata e corretta, modernizzata, di Prometeo, Erostrato, Morfeo, figure classiche che a loro volta assurgono al valore di metafore della condizione umana in molti sensi.

Ecco, la “metacronicità”, l’accesso a una dimensione attraverso il tempo, a [i]intermundia[/i] di significato potenziali e inespressi, è il frutto della tua necessità di osservare gli eventi da angoli visuali inusitati, o piuttosto un tentativo – rifacendomi alla Prefazione di Antonella Pierangeli – [i]à la[/i] Hieronymus Bosch, di tratteggiare raffigurazioni deformate e deformanti, che scavino negli abissi del senso?

La metacronicità è il lascito filosofico – teoretico ed estetico del mio libro. È la possibilità, un po’ bergsoniana un po’ proustiana (e non è un caso che Proust sia fra i miei protagonisti) di travalicare il cronotopo nella sua strutturazione apparentemente inscindibile, per riuscire a interiorizzare lo spazio e il tempo come costruzioni metanaturali legate a un tempo e a un luogo interiore. Detto così, sembra quanto di più astratto si possa concepire, invece si tratta di una esperienza improvvisa estremamente comune all’umanità intera, un’esperienza che è come il “cogliere di colpo” di cui parlava Wittgenstein, l’illuminazione della propria lampadina soggettiva, un’epifania improvvisa che ci rivela le cose: ovvero un esperire individualizzato dell’aisthesis che però ha il potere di metterci in comunicazione con gli altri e col mondo con ciò che Kant chiamava “possibilità d’esperienza in genere”. Questa esperienza estetica dà luogo a sua volta a un’esperienza quotidiana, quella della propria immedesimazione in un contesto qualsivoglia tramite la condizione momentanea privilegiata del sovrappensiero, che coincide con la capacità empatica (e un poco terenziana) del “riuscire a mettersi nei panni dell’altro”. Ecco, tramite “Opus” i miei lettori debbono proprio riuscire a mettersi nei panni del personaggio in modo molto più totalizzante ed emotivamente coinvolgente di quanto sia accaduto nella psicologia della letteratura finora. Ma debbono giocoforza attuare ciò tramite una deformazione di prospettive interpretative sistematicamente straniante, fino al punto di calarsi nel disgusto verso i personaggi che diviene disgusto di sé, nel riconoscimento delle proprie idiosincrasie, nella più ampia gamma gaddiana della cognizione del dolore. E’ per questo che “Opus Metachronicum”, a mio parere, non è un libro facile.

Quanto, nella costruzione di questi singolari profili/racconti, sei stata guidata da spunti di trama e quanto da una ricerca poetico-musicale sul linguaggio? Te lo chiedo anche alla luce della tua esperienza di musicista e della tua notevole competenza musicologica.

Dal punto di vista formale l’elemento musicale nei miei lavori è sempre presente, in “Opus” a volte persino concretamente, con andamenti esametrici o ritmici sparsi fra le righe in prosa; e il linguaggio poetico è tipico della mia prosa da sempre. Dal punto di vista tematico – strutturale, piuttosto, mi sono palesemente ispirata ad una serie di esperienze letterarie precedenti che hanno fatto la storia del romanzo e del racconto psicologico: penso ad esempio all’impianto monologante del Dostoevskij di “Ricordi del sottosuolo”, a Edgar Alla Poe, ma soprattutto alla Marguerite Yourcenar di un’opera capitale e spesso dimenticata come “Fuochi”, Yourcenar che, peraltro, è fra i personaggi del mio libro. Ecco, “Fuochi” mi pare proprio il testo da cui ho tratto lo spunto strutturale per il mio “Opus”, sul cui esempio lontano (perché lo lessi una sola volta venticinque anni fa e non lo possedetti fino alla recente ristampa) ho cercato di dare luogo ad una serie di racconti o di monologhi infuocati, brucianti, che in realtà sono dialoghi col lettore, in cui ogni personaggio tratto dalla storia dell’arte o della letteratura si aggira attorno a un tema filosofico, a un argumentum su cui vuol interloquire con l’umanità. E gli argumenta sono davvero tanti, ne espongo solo alcuni: ad esempio, la marcescibilità dell’arte contemporanea; la riflessione sulla condizione dell’intellettuale odierno, sballottato com’è tra le pagine dei giornali e la propria mitizzazione e santificazione pubblica post mortem; il fluire storico, le sue deviazioni e concrezioni improvvise in istanti, in barlumi, in momenti topici che segnano come spartiacque gli eventi salienti in quanto tali; la psicopatologia quotidiana dell’uomo moderno in molte delle sue sfaccettature.

Si può affermare che dietro a tutti i componimenti dell’[i]Opus[/i] vi sia l’intenzione nascosta di cercare una “seconda possibilità”, grazie alla quale superare, letterariamente, la [i]trappola[/i] della mortalità, o quanto meno della [i]necessità[/i] dell’esistere?

La riflessione sul tempo che passa e sulla possibilità, tramite l’arte, di mantenersi eterni è uno dei topoi più antichi della poesia e della letteratura mondiale. Io credo invece che attraverso il concetto di metacronicità si possa ribaltare completamente l’idea che la mortalità sia una trappola, giacché è proprio tramite la rianimazione delle marcescenze tumefatte della storia e della Storia, la vivificazione che prende piede nel narrare (giacché la narrazione è sempre un dare vita a ciò che, solo pensato, vivo non è), che ci si accorge che la Morte è irrinunciabile e necessaria. Sembra un po’ shivaista la cosa: se uno scrittore non prova l’esperienza della morte, vera o pre-sunta, se insomma lo scrittore non è morto, o quantomeno, mentre scrive, non si sente tale, nemmeno il personaggio può esserlo, e quindi l’opera non può offrire in dono al lettore la disponibilità alla luttuosa condizione dell’esistenza che predispone al cambiamento e alla trasformazione: ovvero alla vita. Se insomma in un libro non c’è la morte, con tutto il suo bagaglio di concrezioni materiche in carne e sangue, difficilmente quest’ultimo può essere tra-mandato, difficilmente questo può rimanere nel tempo col suo carico di significati che, mallarmianamente, è il lettore e solo il lettore preposto a trovare.

L’[i]Opus[/i] è l’inizio di un percorso letterario che ti condurrà verso un romanzo?

Il romanzo già esiste, è nel cassetto e si intitola “Hypnerotomachia Ulixis”: l’incipit è già stato pubblicato all’interno della rivista letteraria Blare Out, che esce col patrocinio della Ca’ Foscari di Venezia, col titolo provvisorio di “Ulisse, l’ultimo naufragio”. Si tratta di un romanzo breve sperimentale, composto interamente di materiale onirico reale. Ho messo insieme i miei sogni e i miei incubi per dar luogo ad una sorta di Bildungsroman definitorio e definitivo, all’interno del quale, esposte in forma narrativa attraverso i meccanismi freudiani della condensazione e dello spostamento, sono presenti tutte le esperienze interiori che un Ur-Mann come l’archetipico Ulisse può avere. L’ultimo viaggio di Ulisse riserva delle sorprese ancor più spiazzanti e disturbanti di “Opus Metachronicum”: sarà per questo che è già stato rifiutato da almeno un paio di editori come troppo complesso per il pubblico attuale?

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