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Elogio della distanza

Informazione, potere, neoliberalismo. Intervista a Byung-Chul Han. [Federica Buongiorno]

Elogio della distanza
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9 Ottobre 2015 - 09.57


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di Federica Buongiorno

L”intervista è stata pubblicata su [url”Doppiozero”]http://www.doppiozero.com/[/url], il 28 settembre 2015. Ringraziamo Federica Buongiorno e la redazione di Doppiozero per averci concesso di riprenderla qui. Buona lettura. (pfdi)

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Byung-Chul Han insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. Sin dall’inizio la produzione di Han si connota per l’incrocio di più discipline e categorie interpretative, provenienti in massima parte dall’etica, dalla filosofia sociale e fenomenologica, dalla teoria culturale e dei media, ma anche dal pensiero religioso e dall’estetica. I suoi primi lavori, dal taglio accademico ma già eclettico, sono dedicati al pensiero di Heidegger (Heideggers Herz. Zur Begriff der Stimmung bei Martin Heidegger, Fink, Paderborn 1999); di Hegel (Hegel und die Macht. Ein Versuch über die Freundlichkeit, Fink, Paderborn 2005); e al concetto scientifico-culturale della morte (Todesarten. Philosophische Untersuchungen zum Tod, Fink, Paderborn 1999 e Tod und Alterität, Fink, Paderborn 2002).

A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han costruisce un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, rielaborando criticamente categorie e motivi della filosofia foucaultiana e post-foucaultiana, con particolare riferimento al pensiero di Giorgio Agamben, utilizzati per rileggere originalmente la filosofia classica di Hegel, Marx e Heidegger. Proiettando lo sguardo oltre la società disciplinare, Han indaga i (dis)funzionamenti e le conseguenze antropologiche e sociali dei processi di globalizzazione, ricorrendo a categorie tratte dalla letteratura (come la stanchezza, ripresa dall’opera di Handke) e dalla filosofia sociale (come la trasparenza, cfr. La società della trasparenza, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2014), per decostruire le strutture dell’odierno neoliberalismo mercatista. L’analisi investe tanto le forme dei rapporti interpersonali (cfr. Eros in agonia, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2013), quanto quelle di comunicazione (cfr. Nello sciame. Visioni del digitale, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2015), di rappresentanza politica e gestione del potere (cfr. Topologie der Gewalt, Matthes&Seitz, Berlin 2011; Psychopolitik. Neoliberalismus und die neuen Machttechniken, Fischer, Frankfurt a.M. 2014) e, più in generale, di costruzione e coscienza culturale.

Personalità dal profilo eclettico e sfuggente, Han rifiuta generalmente di rilasciare interviste ed evita di divulgare dettagli riguardanti la sua biografia. (f.b.)

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Nella Sua produzione a partire almeno dal 2010, con la pubblicazione di [i]Müdigkeitsgesellschaft[/i] ([i]La società della stanchezza[/i]), Lei ha sviluppato una critica della società contemporanea, nella quale un ruolo essenziale è giocato da quella che si potrebbe chiamare una “sintomatologia” dell’odierna società capitalistica, analizzata in primo luogo rispetto alle sue patologie: la stanchezza, l’agonia dell’eros ([i]Agonie des Eros[/i]), la trasparenza ([i]Transparenz[/i]), l’organizzazione in sciami digitali ([i]digitale Schwärme[/i]) sono altrettanti sintomi che strutturano il vivere odierno. Se, sin qui, la parte “diagnostica” della Sua filosofia è stata puntuale e persino spietata, una prima domanda che il lettore dei Suoi ultimi testi si pone è senz’altro: quale “cura” è possibile, dopo la diagnosi? O siamo ancora in una fase in cui il pensiero è prevalentemente chiamato a rilevare decostruttivamente la minaccia, in funzione di un contrasto futuro?

Non so offrire soluzioni veloci, perciò direi: ogni soluzione (Lösung) trascina dietro di sé un problema ampio. In ciò, la soluzione si distingue dalla liberazione (Erlösung). Forse è impossibile esprimere in italiano il nesso che sussiste tra soluzione e liberazione: la “soluzione” si distingue anche dal “salvataggio”… Nei miei libri non mi limito a descrivere i sintomi malati della nostra società, di certo non offro soluzioni, ma verso la fine apro in ogni libro a figure che sono in effetti figure di liberazione. Ne La società della stanchezza, ad esempio, contrappongo la stanchezza dell’io alla stanchezza del noi: la prima ci isola e ci atomizza, mi rigetta in me stesso. È un sintomo della nostra società della prestazione. Esiste però un’altra stanchezza, che non isola ma – al contrario – connette; è una stanchezza liberatoria. Lì ho citato Peter Handke: «Così ce ne stavamo seduti – nel mio ricordo sempre fuori al sole pomeridiano – e ci godevamo parlando o in silenzio la comune stanchezza. Una nuvola di stanchezza, una stanchezza eterea ci univa allora». Nel mio ultimo libro, Psicopolitica [in pubblicazione per edizioni nottetempo, N.d.A.], evoco la figura dell’“idiota” contro la comunicazione digitale odierna. L’idiota funziona, qui, come una figura positiva: è il non-collegato, il non-connesso, il non-informato, che si volge contro l’odierna iper-informazione e ipercomunicazione.

Al cuore della sua critica dell’odierna società capitalistica sta la tesi secondo cui l’era della biopolitica e della società immunologica, teorizzata in primo luogo da Michel Foucault, è ormai alle nostre spalle. La contemporaneità non sarebbe più caratterizzata dalla topografia foucaultiana e il soggetto di obbedienza si è già trasformato nel suo opposto speculare, il soggetto di prestazione ([i]Leistungssubjekt[/i]) che ha interiorizzato la coercizione al lavoro. In virtù di questo nuovo Paradigmwechsel, ossia il passaggio alla società della prestazione, Lei riunisce in una stessa critica la teoria foucaultiana della società disciplinare, la nozione agambeniana di stato d’eccezione ([i]Ausnahmezustand[/i]), ormai vanificato dalla sua generalizzazione a stato di normalità, e il pensiero immunologico di Roberto Esposito. Tutti questi autori, e specialmente Foucault, distinguono tuttavia tra biopolitica e governamentalità, tra biopotere e sue modalità di esercizio: non può essere che queste ultime stiano mutando coi tempi all’interno di un dispositivo che resta pur sempre biopolitico? Il controllo psico-politico non presuppone comunque il controllo biopolitico del corpo degli individui e la incorporazione in esso di pratiche, rituali, significati socialmente e culturalmente determinati?

Oggi il corpo non è più un mezzo di produzione. Foucault parla in riferimento alla biopolitica della “popolazione”, ma oggi non abbiamo a che fare con la popolazione bensì con uno sciame digitale, con una massa digitale che va controllata e governata. L’analisi del potere foucaultiana vale soprattutto per una società che si fonda sulla repressione: ospizi, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche sono istituti di questa società. Al loro posto è subentrata già da molto tempo una società di tutt’altro tipo, vale a dire una società composta di centri commerciali, palestre, centri yoga. Non è possibile descrivere l’odierna società della prestazione attraverso l’analisi del potere di Foucault. La produzione non si basa, attualmente, sulla repressione e sullo sfruttamento da parte di estranei, non reprime la libertà ma ne fa uso. Siamo noi stessi a sfruttarci: questo auto-sfruttamento è assai più efficace nella misura in cui si accompagna al sentimento della libertà.

Oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni.

Per Karl Marx il lavoro conduce all’alienazione: il Sé viene distrutto dal lavoro. Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burnout. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi. Questo auto-sfruttamento è più efficace dello sfruttamento estraneo di Marx, proprio perché procede insieme al sentimento della libertà. Il dominio neoliberale si nasconde dietro la libertà percepita: si dà, anzi, esso stesso come libertà. Il dominio raggiunge la forma più stabile laddove coincide con la libertà. L’odierna società non è la società della repressione, anche se la fine della repressione non implica la libertà. Oggigiorno, piuttosto, noi siamo depressi: la società della repressione cede il passo alla società della depressione.

Come già nella tradizione marxiana e poi francofortese, il veicolo attraverso cui il soggetto è trasformato in un soggetto di pura prestazione è da Lei identificato nel lavoro. La coercizione a lavorare ininterrottamente e sempre di più è introiettata dall’individuo contemporaneo, che finisce per auto-sfruttarsi volontariamente. La libertà si riduce così a un’apparenza asservita agli scopi del lavoro. Il tele-lavoro, la raggiungibilità universale garantita dagli smartphones e dai computer portatili etc., garantiscono la continuità del lavoro, dal quale è sempre più difficile “staccare”. Il soggetto odierno sarebbe dunque un “ultra”-animal [i]laborans[/i], nel senso teorizzato da Hannah Arendt?

Prima di tutto, c’è lo smartphone: ho sostenuto che lo smartphone è una forma di campo di lavoro. Con lo smartphone noi ci portiamo dietro un campo di lavoro. Esso ci promette la libertà, ma di fatto è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza. Il tratto peculiare del contemporaneo campo di lavoro è che siamo al tempo stesso detenuti e sorveglianti. Non siamo servi, soggetti allo sfruttamento di un padrone. Piuttosto, siamo insieme servi e padroni. I servi, infatti, devono accettare ogni lavoro: non sono liberi. Il neoliberalismo produce l’obbligo ad accettare ogni lavoro, perché non conosce il concetto della dignità umana. L’ha interamente sostituito con il prezzo.

Tra i dispositivi di potere da Lei analizzati, manca una riflessione sul ruolo svolto dalle religioni come agenzie di organizzazione e gestione di un potere anch’esso finalizzato alla stabilizzazione di un certo tipo di società. Lei non pensa che un ruolo essenziale nell’economia del potere sia svolto anche dalle agenzie religiose?

Oggi non sono le religioni a produrre repressione, ma il mercato del lavoro e il mercato finanziario. Persino Facebook è una sorta di chiesa e lo smartphone, come detto, è il suo confessionale. Sono sorte forme di devozione digitale, che rappresentano strumenti di dominio. Lo smartphone è, appunto, una queste forme di devozione digitale.

Più volte nei Suoi libri, ed esemplarmente nel capitolo intitolato “La società dell’indignazione” nell’ultimo testo tradotto in Italia per “nottetempo”, [i]Nello Sciame. Visioni del digitale[/i] (2015), Lei analizza le degenerazioni delle relazioni umane nell’epoca della trasparenza e invoca un ritorno a quel “pathos della distanza” ([i]Abstand[/i]), a quel riguardo ([i]Rückkehr[/i]) rispettoso verso l’altro che sembra sparire sempre più, minando in primo luogo il legame erotico, di cui ha rilevato l’“agonia”. Ma come si possono recuperare distanza e rispetto nell’epoca in cui il virtuale basa la sua stessa esistenza proprio sul permanere di distanze fisiche, abbattute dalla comunicazione digitale e via cavo? È davvero possibile ricreare le condizioni per un contatto autentico, vivo, tra le persone?

La comunicazione digitale annulla la distanza. L’assenza di distanza ha in sé qualcosa di pornografico: determina la sparizione di quella “distanza originaria”, che per Martin Buber è il “principio dell’essere umano” stesso. Senza questa distanza originaria, l’altro degrada a oggetto. Buber direbbe che il Tu diventa un Es. Dobbiamo restituire all’altro questa distanza, anzi la sua alterità. Ciò sarebbe possibile all’interno di una forma di vita completamente diversa, che non sia dominata – come la nostra – dalla produzione e dal capitale. Le soluzioni non sono qui di grande aiuto, perché abbiamo bisogno di tutta un’altra condizione d’essere.

Diversi commentatori hanno notato, in Italia, il tono fondamentalmente pessimistico da Lei assunto riguardo al digitale e alle nuove tecnologie dei media in [i]Nello Sciame[/i]. Se da un lato la realtà digitale sta indubbiamente totalizzando l’esperienza di vita dell’uomo contemporaneo, asservendolo a sé e riducendo gli spazi privati, gli sta anche fornendo possibilità emancipative non irrilevanti, ad esempio attraverso l’open source o le varie forme di [i]knowledge-sharing[/i]. Non Le sembra che la concentrazione critica su una forma di condivisione in Rete, quella cosiddetta social, adombri il potenziale della Rete stessa?

Io non critico il medium digitale in quanto tale. Ogni medium, e dunque anche quello digitale, ha un potenziale emancipativo. Il medium digitale avrebbe potuto essere anche un medium della libertà, della fratellanza e dell’amore; questo era, in effetti, il sogno dei pionieri della rete Internet. Tuttavia, il medium digitale si è trasformato in un medium del controllo: su Facebook esponiamo noi stessi, ci rendiamo delle merci. La relazione umana si è ridotta, oggi, a una relazione tra merci. Ognuno è per l’altro una merce: viviamo di fatto in un grande magazzino. Il mondo è diventato un grande magazzino, provvisto di cose che vengono consumate rapidamente – cose che riempiono tanto il cielo quanto la terra.

Nei Suoi ultimissimi testi prevale un tono che è stato variamente definito apocalittico, pessimistico, disfattistico e così via. In effetti, una strategia retorica essenziale all’idiota nelle sue varie forme (ben riassunte, ad esempio, ne L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam) è costituita dall’ironia, che Lei sembra invece guardare con sospetto…

Non conosco ironia: l’idiota non è per me una figura ironica. Io metto in questione l’ironia come strategia della libertà. Abbiamo bisogno di più serietà, più capacità di indignarci e arrabbiarci.

La Sua critica del potere investe anche il ruolo svolto da partiti e formazioni politiche: la crisi della rappresentanza e dei partiti, un fenomeno evidente in larga parte d’Europa, e il progressivo disimpegno politico dei cittadini – variamente motivato e spiegato – hanno lasciato il campo al monopolio di forze populistiche in costante ascesa, creando dei vuoti di potere che neppure le agenzie tradizionali (come la Chiesa e lo Stato) riescono più a riempire in modo credibile. Sul piano geopolitico, lei ritiene che l’Europa – nella quale vive ormai da tanti anni – stia attraversando un momento decisivo per la sua sopravvivenza democratica?

Sì, in Europa regna una condizione post-democratica. La post-democrazia indica uno stato sociale nel quale si tengono elezioni come mai prima, ma la maggioranza dei cittadini svolge un ruolo passivo, silenzioso, anzi apatico. La politica è stabilita da élites economiche e da esperti di economia. La democrazia può prosperare solo quando i cittadini hanno realmente l’opportunità e l’interesse di partecipare attivamente all’organizzazione della vita pubblica. Attualmente, invece, la sfera pubblica come base della democrazia è in sparizione: anche Internet non si manifesta come uno spazio pubblico, come uno spazio dell’agire comune, comunicativo. Oggi esso non è altro che uno spazio di risonanza dell’individuo per sé isolato, che si rende merce. Questo sviluppo ha molto a che fare con il dominio neoliberale: anche la politica si sottomette all’egemonia del capitale.

La stessa ideologia della “community” o dei beni comuni collaborativi, che è spesso evocata oggi, conduce alla capitalizzazione totale della comunità: non è più possibile alcuna amicizia disinteressata. Airbnb ha trasformato in merce anche l’ospitalità. In una società della quotazione reciproca anche l’amicizia viene commercializzata: si diventa amichevoli per ricevere quotazioni migliori. Anche al centro dell’economia collaborativa regna la dura logica del capitalismo: in questo bel “condividere” (sharing), paradossalmente, nessuno dà qualcosa in modo volontario. Il capitalismo si completa nel momento in cui riesce a vendere come merce il comunismo: il comunismo come merce, è questa la fine della rivoluzione.

È evidente che i Suoi ultimi testi accordano un’importanza speciale allo stile di scrittura. La forma quasi aforistica, alla Adorno (come ha rilevato Antonio Lucci nella sua recensione a [i]Nello Sciame[/i]: [b][url”Sloterdik, Macho, Byung-Chul Han”]http://www.doppiozero.com/materiali/filosofia/sloterdijk-macho-byung-chul-han[/url]), fortemente assertiva e che sembra quasi rifiutare il procedere usuale della prosa scientifica per tesi e argomentazioni stringenti, per affidarsi piuttosto all’evocatività del linguaggio e alla forza dell’immaginazione filosofica, sembra costituire una strategia filosofica programmatica. Quale linguaggio dovrà parlare il filosofo odierno, per descrivere la realtà attuale? Quale nuovo rapporto si instaura, così, tra parola e cosa?[/b]

Poco tempo fa è apparsa un’intervista sulla Zeit, nella quale sono stato presentato come un autore capace di minare con poche frasi interi edifici di pensiero, che sorreggerebbero il nostro vivere quotidiano. Perché, allora, scrivere un libro voluminoso, quando con poche frasi è possibile mettere in questione gli edifici di pensiero che sorreggono la nostra quotidianità? Si scrivono grossi tomi quando non si riesce ad arrivare a quelle poche proposizioni che sovvertono la realtà. Sotto questo profilo, il fatto che i miei libri dinventino sempre più snelli è un’evoluzione positiva; riduco il libro all’essenziale. Questa laconicità, tuttavia, può sviluppare una forza enorme.

Una fonte spesso citata nei Suoi libri è il noto articolo di Chris Anderson su [i]Wired[/i], nel quale si proclama la fine delle teorie: il mondo non avrebbe più bisogno di teorie, perché abbiamo dati in abbondanza per quantificare qualsiasi fenomeno. Questa sarebbe una minaccia incombente anche sulla filosofia, come teoria: per essere nella società, e avere “successo” in essa, sembra siano necessarie altre competenze. A Suo avviso, la filosofia è ancora in grado di formare uomini “diversi”? Può contribuire in tal modo alla delineazione di una società alternativa?

Qui citerei semplicemente Gilles Deleuze: “Faire l’idiot. Faire l’idiot, ça a toujours été une fonction de la philosophie”. L’idiota è l’Altro, l’idiota è l’altro uomo.

(28 settembre 2015)

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